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  • Martedì 19 settembre 2023

In Iran la premessa per le rivolte dei giovani è economica

Lo spiega Cecilia Sala nel suo libro reportage dedicato ai ventenni iraniani, ucraini e afghani

Un momento delle proteste dei giovani iraniani contro la morte di Mahsa Amini a Teheran, il 19 settembre 2022 (Getty Images)
Un momento delle proteste dei giovani iraniani contro la morte di Mahsa Amini a Teheran, il 19 settembre 2022 (Getty Images)
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Una cosa che distingue i ventenni dell’Iran di oggi dalle generazioni che li hanno preceduti è l’indipendenza economica dal regime del paese, che è anche un importante datore di lavoro. Per questo per capire bene le proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, iniziate un anno fa, bisogna considerare anche i problemi dell’economia iraniana e in che modo influisce sulle persone più giovani. Lo spiega Cecilia Sala nel libro L’incendio, pubblicato da poco da Mondadori e dedicato ai ventenni che vivono in tre paesi del mondo che negli ultimi anni sono stati molto presenti sulle prime pagine dei giornali: l’Iran appunto, l’Ucraina e l’Afghanistan.

Sala ha viaggiato più volte nei tre paesi, di cui ha parlato nei suoi articoli sul Foglio, nelle sue storie su Instagram e nel podcast di Chora Media Stories, raggiungendo un seguito molto ampio con i formati giornalistici nati più di recente. Il suo libro, di cui pubblichiamo un estratto, raccoglie le storie personali di molte delle persone che ha incontrato e con cui ha parlato nel suo lavoro. Domenica 24 settembre alle 17 ne parlerà anche a Faenza durante Talk, le giornate di incontri per parlare di come vanno le cose intorno a noi organizzate dal Post; con lei ci sarà il vicedirettore Francesco Costa.

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L’Iran produce molti più giovani ultraqualificati di quelli che la sua economia sclerotizzata riesca ad assorbire. Il governo ne assume qualcuno per poi fargli svolgere mansioni spesso lontane da quelle che sognava quando ha cominciato a studiare, e con un prodotto interno lordo che rinsecchisce anno dopo anno i nuovi posti di lavoro sono comunque pochi. L’esclusione dei giovani dall’economia tradizionale ha creato una massa di persone che non dipende dal governo per pagarsi l’affitto: la generazione che protesta è la stessa che negli ultimi anni aveva separato il proprio destino lavorativo dall’economia di regime. Era stata una scelta obbligata perché nell’intreccio di fondazioni pseudoprivate del clero e dei pasdaran c’era poco spazio. L’economia iraniana è un oligopolio in mano ai mullah e ai Guardiani della rivoluzione e il posto dove la si può capire meglio è Mashhad, a est verso il confine con il Turkmenistan e con l’Afghanistan. È soprannominata «la capitale nascosta» perché è la città dei capi, è lì che sono nati la Guida suprema Ali Khamenei e il presidente Ebrahim Raisi ed è da quel punto sulla mappa che oggi si irradia il potere in Iran.

Fino a pochi anni fa Raisi era alla guida di una delle fondazioni di Mashhad che formano lo «Stato parallelo» e hanno in mano il pil del paese. La Fondazione degli oppressi e dei disabili da sola gestisce più risorse del ministero delle Finanze e quella che ha governato Raisi, la Astan Quds Razavi, ha un patrimonio di venti miliardi di dollari, è proprietaria di società farmaceutiche e fabbriche di tappeti, giornali e compagnie assicurative e pure della licenza per produrre la Coca-Cola (Khoshgovar) nel paese.

I nonni e i genitori di coloro che a settembre sono andati in strada a combattere con le parole, le molotov, i capelli sciolti e i baci in pubblico sono dipendenti dello Stato oppure donne e uomini che lavorano per le aziende «private» delle fondazioni-holding. Per tutti loro protestare significherebbe rischiare di perdere il posto nel mezzo di una crisi prolungata, quindi con poche speranze di trovarne uno nuovo.

Il 70 per cento degli iraniani ha meno di 35 anni ed è in una condizione diversa perché la macchina economica degli ayatollah si è inceppata: da quel sistema che per decenni ha dato uno stipendio ai cittadini della Repubblica islamica i giovani erano già rimasti esclusi. È una generazione che ha dovuto arrangiarsi da sola e così nel 2016 sono nati Tapsi, il servizio di car sharing più diffuso in Iran, e poi AloPeyk, che è una app per le consegne, e Bdood, che è una app di bikesharing e Aparat, lo YouTube locale. E anche Digikala, per vendere e comprare vestiti online, e Zarinpal, per i pagamenti digitali veloci. Fino agli aggregatori in rete che permettono a tutti di offrire ripetizioni di inglese, matematica, informatica e lezioni di chitarra, oppure di proporsi per andare a fare le pulizie o la spesa, cucinare, curare il gatto o le piante di qualcuno. Ci sono anche quelli che hanno creato marchi di bigiotteria artigianale, abbigliamento, tappeti persiani «rivisitati» e oggetti di design in metallo che vendono sulle app locali o su Instagram. Lavorare in un’economia autogestita li ha resi meno dipendenti dagli ayatollah perché non è da loro che ricevono gli stipendi.

Esclusi i liceali, l’insieme dei manifestanti e dei lavoratori dell’economia indipendente quasi combaciano. Le bacheche sui social network dei fondatori delle startup, come quella di uno dei più famosi, Hessam Armandehi, che ha inventato l’Uber iraniano Divar, nei mesi della protesta si sono riempite di appelli per chiedere la liberazione dei propri dipendenti. Ci sono le loro foto allegate ai post: sono tutti ventenni o poco più e sono tutti stati arrestati mentre manifestavano. Il legame era chiaro dal principio, tanto che il capo del dipartimento Telecomunicazioni dei pasdaran aveva chiesto «una stretta sulle startup private» subito dopo i primi cortei.

I nuovi iraniani hanno creato dal nulla un’economia parallela e autosufficiente, di cui spesso sono sia i lavoratori sia i clienti, che fa arrabbiare il regime perché è fuori dal suo controllo e perché ha formato la prima generazione di cittadini che non dipende dagli ayatollah per vivere, cioè la condizione per una rivolta.

© 2023 Mondadori Libri S.p.A., Milano

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