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  • Lunedì 18 settembre 2023

Le ultime eredi delle colonie penali in Italia

Quattro “colonie agricole”, su isole o in posti molto remoti, ospitano ancora detenuti che vivono lavorando la terra o con gli animali

La motovedetta che collega Gorgona a Livorno (Wikicommons)
La motovedetta che collega Gorgona a Livorno (Wikicommons)
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Ci sono solo due tipi di imbarcazioni che raggiungono l’isola di Gorgona, nell’arcipelago toscano. Una è un battello turistico, parte una volta la settimana e porta amanti del trekking a scoprire i sentieri di quest’isola per lo più disabitata. L’altra è la motovedetta della Polizia penitenziaria: trasporta agenti carcerari, familiari e nuovi detenuti, e parte una volta al giorno verso l’ultima isola in Europa ad avere come unico insediamento umano un carcere.

Nello specifico quella di Gorgona è una “colonia agricola”, come viene chiamata oggi in Italia la struttura detentiva che in passato era conosciuta come “colonia penale”, e che nel mondo occidentale è ormai rara. Negli ultimi anni sono per lo più utilizzate da paesi autoritari, come la Russia o la Corea del Nord. Anche in Italia la maggior parte ha chiuso, ma quattro sono ancora attive: sono posti in cui i detenuti vivono per la maggior parte del tempo all’aria aperta, in zone isolate, lavorando nei campi o occupandosi di animali da allevamento.

Solo a Gorgona la colonia agricola è su un’isola. Le altre ancora attive sono in posti molto isolati e montuosi in Sardegna, a Mamone (provincia di Nuoro), a Isili e a Is Arenas (provincia del Sud Sardegna, ex Carbonia Iglesias). A Pianosa, altra isola dell’arcipelago toscano che fu dal 1858 la prima sede di una colonia penale, il carcere è stato definitivamente chiuso nel 2011, anche se rimane una sezione distaccata di quello elbano di Porto Azzurro, con 21 detenuti che si occupano di un orto biologico e della manutenzione di un hotel.

L’istituto della moderna colonia penale nacque nella seconda metà dell’Ottocento e fu molto utilizzato per quasi un secolo: di solito si trattava di una prigione in un luogo isolato, come isole o zone poco abitate, nel quale i detenuti erano obbligati a lavorare per lo stato. In Italia questo genere di strutture fu particolarmente popolare in epoca fascista. Con il passare dei decenni sono spesso diventate antieconomiche, di difficile gestione e poco conciliabili con una nuova concezione della detenzione che non poteva più contemplare pene come i “lavori forzati”.

Approvato nel 1975, l’attuale ordinamento penitenziario prevede le colonie agricole e le case di lavoro come strutture di detenzione alternative, disponibili per categorie specifiche di detenuti. Le case di lavoro sono più simili a normali strutture carcerarie, dotate però di fabbriche, officine o laboratori al proprio interno, mentre la realtà delle colonie agricole è totalmente differente dalle carceri tradizionali. I detenuti possono muoversi liberamente all’interno di ampi spazi durante tutta la giornata, sono impegnati in lavori di agricoltura e allevamento, tornano in cella la sera e guadagnano intorno ai 600 euro al mese. Vengono selezionati fra i detenuti che non hanno avuto problemi disciplinari e che non hanno dipendenze. Chi arriva in queste strutture può vivere buona parte della giornata lontano dalla cella.

Essere detenuti in una colonia agricola vuol dire però essere più isolati rispetto al mondo esterno che in un normale carcere: i colloqui con i familiari sono così complessi da diventare rarissimi o assenti, e la presenza di volontari è molto sporadica. Mamone è a un’ora di distanza dal comune costiero più vicino, Isili a oltre un’ora da Cagliari, la motovedetta della Polizia penitenziaria per Gorgona parte solo se le condizioni del mare lo permettono. Le strutture sono molto meno affollate rispetto alle carceri tradizionali, ospitando di solito meno detenuti di quanti ne sarebbero previsti, ma non sempre lo svolgimento delle attività lavorative è semplice, soprattutto per una cronica mancanza di fondi, nonché di personale carcerario.

Le colonie agricole tuttora aperte attraversano per lo più una fase complessa, in cui sembrano proseguire le proprie attività in forma ridotta e sulla base di una difficile evoluzione da consuetudini del passato. Le tre sedi sarde attualmente sono tutte senza un direttore dedicato, fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre sono attese nuove nomine che potrebbero interessarle. Negli ultimi decenni sono andate incontro a una riduzione delle strutture utilizzate, dei progetti, della presenza di personale stanziale.

Una parziale eccezione è proprio il carcere di Gorgona: fu aperto nel 1868, oggi i detenuti sono circa novanta e le sue attività sono state profondamente rinnovate nel 2020. Fino a quella data i suoi detenuti erano occupati soprattutto nell’allevamento e nel macello di animali, poi anche su richiesta degli stessi detenuti è stato abbandonato quel lavoro, che ha una componente violenta, e sostituito da orticoltura, cura di una vigna, agricoltura. Da febbraio del 2023 alle attività proposte si è aggiunta anche quella di “guida turistica” per gli escursionisti che prenotano una visita giornaliera sull’isola (una volta la settimana, con al massimo 100 presenze al giorno). A Gorgona i problemi principali riguardano il reperimento di fondi necessari per svolgere le attività lavorative e le comunicazioni talvolta interrotte con la Toscana (il porto più vicino è Livorno). Negli ultimi anni in alcune occasioni la spedizione di posta e pacchi è stata bloccata anche per periodi superiori a un mese.

Tutto l’arcipelago toscano è stato in passato ad alta concentrazione di carceri e colonie penali e le due maggiori erano a Pianosa e Capraia. Capraia fu chiusa nel 1986, Pianosa una prima volta nel 1998 e poi definitivamente nel 2011. L’idea delle colonie penali era stata molto popolare a inizio secolo, il regime fascista l’aveva portata avanti con convinzione nell’ambito di una retorica sulla vocazione agraria del paese e sulla capacità di redenzione attraverso il lavoro fisico. Ma le colonie penali agricole divennero anche uno strumento utile, perché da una parte isolavano in zone lontane e poco raggiungibili categorie di persone sgradite al regime, dall’altra permettevano di avere lavoratori non pagati per attuare ambiziose politiche di bonifica di aree rurali. Concepite anche come “esperimenti sociali”, erano spesso situate in zone insalubri e soggette alla malaria, con un tasso di mortalità fra gli ospiti molto alto, vicino anche al 10 per cento: durante il ventennio fascista si trasformarono in luoghi di deportazione.

La colonia penale costruita a fine Ottocento sull’isola dell’Asinara (Wikicommons)

Già a partire dal Dopoguerra la maggior parte delle colonie penali divennero istituzioni antieconomiche in continua perdita, anche per il forte peso dei necessari trasporti marittimi. Era inoltre difficile garantire i rapporti con i familiari e trovare personale disposto a isolarsi quasi quanto i detenuti. Alcune delle isole vennero utilizzate come carceri di massima sicurezza nei cosiddetti “anni di piombo” e poi negli anni Novanta in seguito agli attentati di mafia. Ma in generale l’evoluzione del concetto di carcere e di pena riabilitativa (per quanto lenta), rendeva questo genere di strutture superato. Alcune delle isole su cui sorgevano le carceri erano inoltre possibili destinazioni turistiche di un certo valore (è il caso di Capraia e Pianosa), cosa che favorì la riconversione. A Pianosa dai locali che un tempo erano destinati all’abitazione del direttore del carcere è stato ricavato un piccolo albergo da una dozzina di camere, gestito da una cooperativa di volontari e da detenuti in regime di semilibertà del carcere di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba.

È invece al momento per lo più abbandonato il piccolo villaggio che sorge all’interno dei 2.700 ettari in zona montana della Casa di reclusione Onanì-Mamone. Fino agli anni Ottanta ci vivevano le famiglie del personale carcerario, c’era un asilo, un ufficio postale, una chiesa con un parroco, oggi i dipendenti vivono altrove, a Mamone restano circa 130 detenuti, che si occupano dei giardini, degli orti, di un allevamento e di una stalla. Si producono formaggi, miele e olio, mentre per questioni di fondi e competenze è stata interrotta la vinificazione. La struttura di Is Arenas ha dimensioni simili, è altrettanto isolata e sorge in una zona in passato dedicata all’estrazione mineraria. Ospita 170 detenuti, per lo più stranieri, che si occupano di un caseificio e di alcuni campi. Isili, la terza struttura sarda, è un po’ più piccola e i suoi circa 700 ettari comprendevano fino agli anni Sessanta un paese, mentre attualmente molti locali sono utilizzati per fare i formaggi e i salami.

Come fa notare l’associazione Antigone, che lo ha visitato questa estate, il carcere di Isili è l’unica colonia agricola strutturata per ospitare una categoria particolare di detenuti, i cosiddetti “internati” o “delinquenti abituali, professionali o per tendenza”. Si tratta di persone che hanno violato misure di libertà vigilata o nella maggior parte dei casi hanno finito di scontare la propria pena, ma vengono ritenute socialmente pericolose. Il tribunale può decidere per loro “misure di sicurezza” e inviarle in case di lavoro o colonie agricole, per un periodo di tempo definito, ma che viene spesso prorogato.

Sono spesso persone che non hanno una rete familiare o affettiva di sostegno all’esterno e in molti casi presentano disturbi psichici, che a volte paradossalmente li rendono formalmente inabili a lavorare. A Isili gli internati sono 28 e i detenuti 57, si dividono le stesse strutture e hanno celle e sistemazioni simili. Gli internati sono figure giuridiche introdotte dal codice fascista del 1930 e a febbraio 2022 in Italia erano 280: sono una delle contraddizioni più visibili delle colonie agricole. Anche queste ultime oggi paiono più vicine a eredità del passato che a sperimentazioni di modalità di detenzione alternative.

– Ascolta anche: Tredici, la peggiore strage nelle carceri italiane del dopoguerra