L’“agrodiplomazia” di Israele in Africa
Il paese sta investendo in grossi progetti agricoli in vari paesi africani per aumentare la propria influenza, ma spesso ci sono problemi di debiti e sfruttamento
Africa Report, un mensile che si occupa di politica africana, ha pubblicato un lungo articolo raccontando in modo molto critico gli investimenti delle aziende agroalimentari israeliane nel continente e che Israele utilizza, spesso in modo poco chiaro, per promuovere la propria agenda diplomatica ed economica: invece di portare soluzioni sostenibili tali progetti stanno minacciando lo sviluppo e la sovranità alimentare di alcuni paesi dell’Africa, con conseguenze gravi e durature.
Nel 2003, dopo la fine della guerra civile in Angola, stato sulla costa occidentale dell’Africa meridionale, gli ex combattenti di entrambe le fazioni furono reinsediati nella provincia di Cuanza Sul all’interno di un progetto chiamato Aldeia Nova. L’obiettivo, dopo un conflitto durato quasi trent’anni, era reintegrare nella società coloro che avevano fatto la guerra fornendo loro i mezzi per guadagnarsi da vivere. Il governo angolano aveva investito 70 milioni di dollari nel progetto: 9mila ettari suddivisi in quindici villaggi per case, terreni, infrastrutture che erano stati appaltati a una società agroalimentare israeliana chiamata LR Group (LR).
LR afferma che Aldeia Nova abbia rivitalizzato economicamente la regione e che a 600 famiglie siano state date una casa e un terreno per allevare mucche, maiali o polli. La gente del posto la pensa però diversamente: «Lungi dal portare prosperità, i residenti dicono che per LR erano semplicemente manodopera a basso costo. È emerso che loro, e il progetto stesso, erano sommersi dai debiti», dice Africa Report.
Le persone che vivono lì e partecipano al progetto pagano LR per l’uso delle case, delle infrastrutture o della terra: «Tutto è stato concesso in prestito», ha spiegato ad Africa Report Manuel, il cui nome è stato modificato per proteggerne l’identità. Quello che le persone di Aldeia Nova producono torna direttamente a LR sotto forma di rimborso, nonostante il governo angolano abbia finanziato il progetto e messo a disposizione le terre. Secondo le buste paga e le fatture viste dal giornale, gli abitanti forniscono mensilmente a LR prodotti per un valore compreso tra i 500mila e gli 800mila kwanza (da 900 a 1.450 euro circa) e la maggior parte di loro riceve in cambio solo 25mila kwanza (meno di 50 euro). I pagamenti, dice Africa Report, sono poi spesso in forte ritardo e ci sono persone che hanno aspettato fino a otto mesi per ricevere i loro soldi o che, nel tempo, a causa del rifiuto dei loro prodotti perché non all’altezza degli standard di LR, hanno accumulato un debito molto alto e che difficilmente riusciranno mai a saldare.
«Le persone vivono in uno stato di moderna schiavitù», dice Jovens Lúcidos, un’associazione locale che da tempo denuncia la difficile situazione degli abitanti di Aldeia Nova. Il gruppo dice che il reinserimento degli ex militari non ha mai funzionato e che anzi, quel che è successo è un loro estremo impoverimento. E dicono anche che gli obiettivi del progetto non sono mai stati raggiunti: agricoltura meccanizzata, buon reddito delle produzioni, scuole, mense scolastiche «nella realtà non esistono» e gli studenti percorrono a piedi distanze dai 5 ai 12 chilometri per raggiungere le scuole, da un certo grado in poi.
Ricardo Soares de Oliveira, docente di Politica internazionale a Oxford, ha detto che già nel 2008, e dunque ai suoi inizi, il progetto era in profonda difficoltà e dipendeva «dalle costanti iniezioni di denaro per continuare a funzionare». Nel 2011, Aldeia Nova, in bancarotta, passò sotto la responsabilità dello stato che l’ha poi nuovamente ceduta al Mitrelli Group, società creata dai fondatori di LR. Mitrelli ha promesso di risollevare Aldeia attraverso un finanziamento di 10 milioni di dollari attraverso una filiale offshore che però non è mai arrivato.
GRAIN è un’organizzazione internazionale non profit che lavora per sostenere gli agricoltori nelle loro lotte per sistemi alimentari controllati dalla comunità e basati sulla biodiversità. Negli ultimi dieci anni l’organizzazione ha monitorato le aziende agroalimentari israeliane nel sud del mondo e in particolare in Africa esaminando i loro progetti in Angola, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Nigeria e Sud Sudan. In un report dell’ottobre del 2022 ha spiegato come Aldeia Nova sia il tipico modello dell’intervento di Israele nel continente.
A fronte della promessa di fornire terra, sostegno economico, formazione, tecnologia avanzata con conseguenti benefici sociali, sanitari e educativi il rapporto di GRAIN dice che questi progetti sono «gestiti dall’alto verso il basso, con le comunità locali che vengono escluse dal processo decisionale e che diventano dipendenti dall’importazione di tecnologie israeliane». Di fatto, molti dei progetti esaminati da GRAIN sono risultati inadatti alle condizioni locali, antieconomici e insostenibili.
Le imprese agricole israeliane spesso seguono un modello standard “chiavi in mano”, spiega Africa Report: «La società si rivolge a un governo africano e propone progetti multimilionari dotati delle più recenti tecnologie israeliane». Si offre di gestire tutto, dalla progettazione alla ricerca dei finanziamenti fino alla fornitura di attrezzature e promette poi di consegnare la struttura al cliente quando sarà pienamente operativa. Le società offrono ai governi africani un pacchetto finanziario attraverso un prestito concesso da banche israeliane a bassi tassi di interesse e sotto garanzia dell’Ashra, l’agenzia israeliana di credito sull’esportazione. In caso di mancato pagamento il governo israeliano paga la società agroalimentare e il governo africano ne diventa debitore.
I progetti, dice Africa Report, «spesso falliscono una volta esaurito il denaro del prestito» e fa l’esempio di Galana Kulalu, in Kenya. Nel 2015, la società israeliana Green Arava era stata incaricata di realizzare un sistema di irrigazione, un mulino per il mais, stazioni di pompaggio e un centro logistico all’interno di un progetto relativo a 400mila ettari che, entro il marzo del 2017, l’azienda aveva promesso di consegnare al governo che, per finanziarlo, si era affidata al prestito di un banca israeliana. Galana Kulalu ha prodotto meno di un quinto della quantità di mais promessa, e nel 2018 il revisore dei conti del governo del Kenya aveva concluso che i termini del prestito non fossero «nel migliore interesse dei contribuenti». John Kamau, del quotidiano Nation, che segue da anni la vicenda, ha spiegato che Green Arava «non aveva delineato una strategia di trasferimento delle conoscenze per dare potere ai keniani e fare in modo che potessero gestire il progetto in modo indipendente».
Nel rapporto di GRAIN si dice che le aziende agroalimentari israeliane hanno legami profondi con l’industria militare: «È difficile trovare una sola azienda israeliana tra le centinaia di start-up agrotecnologiche esistenti oggi che non abbia qualche legame con l’esercito o i servizi segreti israeliani» e in diversi casi è stato dimostrato come, in uno stesso paese, la vendita di tecnologie agricole si sia sovrapposta a quella di attrezzature militari e sistemi di sicurezza israeliani. Nel 2015 un ex generale dell’esercito israeliano era stato ad esempio sanzionato dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti con l’accusa di aver venduto progetti agricoli al paese come copertura per la vendita di armi.
Sul motivo di quella che Africa Report definisce una«relazione tossica tra i governi africani e il business agroalimentare israeliano» diversi studiosi hanno fornito delle spiegazioni. Nel rapporto di GRAIN si dice ad esempio che mentre la componente agricola rappresenta il volto pubblico del progetto, la vera questione sono i legami finanziari: i progetti proposti dalle aziende agroalimentari israeliane spesso creano un’opportunità per i governi dei vari stati africani che hanno difficoltà a ottenere dei crediti tramite altri canali. Dall’altra parte, attraverso l’agro-diplomazia, il governo israeliano sfrutta la propria influenza economica come parte della propria più ampia agenda politica.
Tale agenda è centrata sulla normalizzazione di Israele e sulla neutralizzazione delle richieste di boicottaggio attive a livello internazionale a causa dell’occupazione dei Territori palestinesi. Il governo israeliano ha investito molto poco nella diplomazia formale nel continente, affidandosi invece, come dice il ricercatore ed esperto di rapporti tra Israele e Africa Yotam Gidron, a imprese private, fondazioni non profit ed enti di beneficenza per creare collegamenti con le élite politiche in alcuni paesi dell’Africa. Questa rete, dice Gidron, è arrivata «a definire Israele in Africa».
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non ha mai nascosto la propria strategia per arrivare ad avere nuovi alleati in Africa che siano meno critici, sulla scena internazionale, nei confronti del suo paese. «Più noi (Israele, ndr) li aiutiamo, più questo può avere un impatto sul modo in cui voteranno nei diversi organismi internazionali», ha detto Yonatan Freeman, esperto di relazioni internazionali presso l’Università di Gerusalemme. «L’agricoltura è una delle sottili strategie che Israele sta utilizzando per persuadere il nostro popolo a sostenere o a chiudere un occhio sull’oppressione in corso in Palestina», ha detto Hardi Yakubu, coordinatore di Africans Rising, un movimento che lavora per l’unità, la giustizia e la pace nel continente.
Al di là dei vantaggi che Israele può trarne, questi megaprogetti stanno avendo conseguenze negative sullo sviluppo a lungo termine dell’Africa. Na’eem Jeenah del Mapungubwe Institute for Strategic Reflection (MISTRA) di Johannesburg, un gruppo indipendente che lavora sulle strategie che il continente deve affrontare, dice che i governi africani sono sempre più gravati da debiti derivanti dal finanziamento di questi progetti: «Devono ripagare i prestiti, a volte attraverso la vendita di risorse come petrolio o gas naturale, anche quando i progetti falliscono». Gli agricoltori, spiega poi, vengono anche spinti a utilizzare semi e prodotti chimici per l’agricoltura venduti da aziende israeliane che danneggiano il suolo e la biodiversità dell’Africa: «Questi progetti producono pochi benefici tangibili per le comunità locali», dice Jeenah.
Nessuna delle società e delle aziende israeliane analizzate nel rapporto di GRAIN e citate nell’articolo di Africa Report ha risposto alle domande sullo stato attuale dei progetti, sui finanziamenti o sulle varie conclusioni nell’inchiesta.