Grandi migrazioni umane e animali
«La docu-serie di David Attenborough termina con una spiegazione: i viaggi degli animali sono vitali per l’equilibrio dell’intero ecosistema e per la sua stessa sopravvivenza. Non importa quanti animali muoiano nel tragitto, bisogna concentrarsi su quelli che ce la fanno. Ho pensato che le stesse parole potrebbero applicarsi agli umani, solo che nessuno le pronuncia mai. Questo pensiero è ritornato più chiaro quando, qualche giorno dopo, ho visto il film di Matteo Garrone "Io Capitano"»
Per i primi anni la mia famiglia si è costruita attorno a tre nazioni: la mia, quella di mia moglie dall’altra parte dell’Atlantico, e quella dove sono nati i nostri figli e dove era la nostra casa. Questa condizione portava a tanti viaggi, a molti aerei, treni, mongolfiere direi, se ci fossero ancora. Nelle lunghe ore da passare con bambini che, per quanto adattabili, sempre bambini erano, uno dei nostri passatempi preferiti era giocare a «Pensare a un animale». A turno ognuno pensava a un animale e gli altri dovevano indovinare facendo domande a cui si poteva rispondere solo sì o no. È un mammifero? Ha quattro zampe? Vive in Asia?
Al crescere dei bambini le condizioni si facevano più stringenti, per esempio non si poteva più chiedere se fosse un mammifero o no: troppo facile. E a un certo punto gli animali sono diventati impossibili da indovinare, pesci degli abissi mai sentiti, felini rarissimi, crostacei millenari. Segno che la stagione dei bambini si avviava al tramonto, assieme ai giochi ripetitivi che loro amano tanto.
È stato quindi con l’entusiasmo dell’affetto e del lessico familiare che la settimana scorsa ci siamo visti la seconda serie del documentario spettacolare di Netflix intitolato Our Planet che, grazie a droni, telecamere sottomarine e soprattutto pazienti attese, riesce a mostrare immagini di animali incredibili, ben inserite in un discorso ecologico comprensibile, narrato dall’inconfondibile 97enne David Attenborough.
Il tema di questa seconda stagione sono i viaggi degli animali. Infatti, a seconda del periodo dell’anno e delle diverse abitudini ancestrali, tanti animali si spostano per migrare dove ci sono temperature migliori, oppure per riprodursi, ma anche semplicemente per mangiare. La bellissima lince americana, per esempio, fa migliaia di chilometri per riuscire ad afferrare un leprotto. Nel documentario c’è di tutto, dai pinguini ai granchi rossi, dalle locuste agli elefanti, dalle balene a una specie di piccolo cervo americano che si chiama antilocapra e che, tutto sommato, con solo 200 chilometri da fare, è quello che si sposta meno.
Il film mostra, con meno enfasi e meno dramma della prima serie, il che a me sembra una buona cosa, gli effetti dell’antropizzazione e del climate change su questi viaggi pazzeschi. Il piccolo cervo americano, per esempio, incontra fattorie e pozzi di petrolio recintati a sbarrargli la strada, e li supera scavalcando e trovando pertugi nei recinti. Per questo animale, però, è più complicato e pericoloso attraversare l’autostrada che incrocia a un certo punto. Per fortuna gli umani si sono accorti del problema e hanno deciso di costruire un ponte sull’autostrada apposta per lui (o per lei) in modo da fargliela attraversare rimanendo indenne. Soluzioni simili, con ponti e sottopassaggi, hanno adottati gli umani dell’Isola di Natale, in Australia, per aiutare la migrazione annuale dei granchi rossi. Anche in alcune zone della Cina si lascia che gli elefanti, in cammino a causa di una siccità, possano cibarsi di quel che trovano, anche a costo di fargli razziare parte dei raccolti. Perfino le oche delle nevi, nonostante i cacciatori, ma grazie alla diffusione dell’agricoltura e alla maggiore disponibilità di cibo durante le loro traversate, si sono moltiplicate rispetto a quando l’antropizzazione era minore.
La serie termina con una spiegazione: i viaggi degli animali, stupefacenti e bellissimi da guardare, sono vitali per l’equilibrio dell’intero ecosistema e per la sua stessa sopravvivenza. Nonostante l’ubiquo impatto dell’essere umano sul pianeta, insomma, rimane speranza, perché l’impegno degli esseri umani cresce insieme alla consapevolezza dell’importanza della libertà di spostamento degli animali. Per gli autori del documentario non importa quanto questi viaggi possano essere drammatici, e neppure quanti animali muoiano nel tragitto, perché è più importante concentrarsi su quelli che ce la fanno. Che, testuali parole, «potranno godere della ricompensa di condizioni migliori, e nuove opportunità». È un processo di selezione che porterà benefici a tutti, anche agli animali che non migrano affatto che, anche se non se ne rendono conto, devono proprio a queste migrazioni la continuazione del loro ecosistema e in definitiva della loro specie.
Quando ho sentito queste parole ho pensato che si sarebbero potute pronunciare per gli umani, anziché per gli animali. O almeno che si sarebbero potute pronunciare anche per gli umani. Solo che nessuno le pronuncia mai, neanche con il distacco britannico di Attenborough.
Immaginate la sua voce che dice: «Guardate, non importa quanti bambini e persone adulte muoiano nel percorso che dall’Africa o dall’Asia porta in Europa, o dal Sud America agli Stati Uniti. Non pensateci. L’importante è concentrarsi su quelli che ce la fanno, che non muoiono né di caldo né affogati né di torture, perché apriranno per sé stessi nuove magnifiche opportunità, e aiuteranno tutti, anche quelli che non migrano affatto».
Questo pensiero è ritornato ancora più chiaro quando, qualche giorno dopo, ho visto il film di Matteo Garrone Io Capitano, presentato a Venezia. Ne avrete letto, è la storia di un migrante che a sedici anni con suo cugino, e di nascosto dalla madre, parte da Dakar per l’Europa, dopo aver messo da parte i soldi lavorando in un cantiere. A pochi giorni dal documentario di Netflix, le bellissime immagini del film si Garrone mi sono sembrate praticamente un’altra puntata della serie.
Al termine del film la commozione aveva preso tutti e nelle conversazioni si sprecavano commenti contro i politici, più di destra che di sinistra. Oppure a favore del film in sé, della forza della rappresentazione come utile compendio di conoscenza e consapevolezza. Sono conversazioni sempre allusive perché si parla dando per scontato che tutti sappiamo di chi sia la colpa, e che essa non riguardi mai gli spettatori, non sia mai nostra, e nasca tutta dall’ignoranza degli altri.
Si parla come se i politici non sapessero bene quello che succede tra Dakar e l’Europa e come se non lo sapessimo bene anche noi, da anni, sostanzialmente adagiati in un contesto in cui questi viaggi avvengono con la stessa inevitabilità e le stesse dinamiche dei viaggi degli animali. Certo, a guardarle bene in faccia le cose fanno sempre un effetto diverso, ma agli umani che migrano succede più o meno quello che succede ai cuccioli di balena (qualcuno viene mangiato da un’orca) o alle oche delle nevi (qualcuna finisce con un proiettile in pancia), ai pinguini papua (qualcuno viene mangiato dalla foca leopardo) o più raramente agli elefanti cinesi (alcuni, dopo qualche migliaio di chilometri aiutati dagli umani, trovata una città inospitale, decidono di tornare indietro).
Ci sono però anche delle differenze. La difficoltà degli umani non è tanto sfuggire a specie diverse dalla propria: le barriere più difficili da superare sono quelle messe dai propri simili per sfruttare al massimo le difficoltà naturali, e assicurarsi che una buona percentuale dei migranti muoia prima di arrivare. In tal modo soltanto i più forti e i più fortunati riusciranno a giungere a destinazione e ad aiutare le popolazioni che non migrano: sia quelle di partenza, che quelle di arrivo.
Proprio questa, credo, è la differenza più importante. Le orche e gli orsi bruni o le formiche e le api non sanno che le migrazioni degli altri animali sono così necessarie alla loro sopravvivenza: sia all’equilibrio dell’ecosistema che alla loro specie. La consapevolezza dovrebbe essere una delle caratteristiche che distinguono gli esseri umani, ma preferiamo fingere di non sapere che i migranti sono un aiuto fondamentale, per la sopravvivenza e la continuazione delle nostre società stanche e incapaci di crescita.
Prendiamo una delle discussioni più fesse degli ultimi anni, quella tra chi sostiene e chi nega che non ci siano abbastanza giovani disposti a lavorare nei ristoranti e nel turismo. I primi danno la colpa alla mancanza di voglia di lavorare o al reddito di cittadinanza; i secondi alle condizioni inique e alle paghe basse. Nessuno si azzarda a suggerire che forse entrambi i corni del dibattito sono veri. Certo che esiste qualcuno che tratta male i lavoratori, ma non li trovano neanche tanti che li trattano bene. Certo che esistono gli scansafatiche, sempre esistiti, ma essendo così pochi i giovani, si notano di più, e fanno meno simpatia di prima. Mancano tutti – dai camerieri, ai medici, agli ingegneri, agli infermieri – perché semplicemente non ci sono abbastanza esseri umani giovani tra noi.
E non ce ne sono abbastanza non solo perché vogliamo fare meno figli per ragioni che è inutile discutere (e che non c’entrano nulla col welfare per le famiglie giovani, quello è un fatto di civiltà che serve alle famiglie giovani, non a convincere qualcuna a fare figli, ma poi perché mai dovremmo convincerla?). Non ci sono abbastanza giovani perché si muore sempre più vecchi. E anche se le ragioni fossero altre, il fatto rimane: non ce ne sono abbastanza per occupare qualsiasi lavoro, e soprattutto per garantire la riserva di energia, creatività e spinta che – in media, naturalmente, non parlo di te che leggi – hanno i giovani in misura maggiore di tutti gli altri.
Per questo ogni nuova persona che arriva da noi, dopo un viaggio massacrante e traumatizzante, è una benedizione e una ricchezza – una «fresh opportunity», direbbe Attenborough – non solo per lui o per lei, ma per noi.
Quando questa semplice realtà sarà compresa, forse noi umani europei potremmo decidere di fare qualcosa in più che costruire i ponti per i viaggi dei cervi o dei granchi rossi, o arrabbiarci giustamente perché qualcuno uccide un’orsa. Ho sempre pensato che chi tratta male gli animali tratta male anche gli esseri umani; da qualche tempo mi pare che l’opposto non sia più vero, chi tratta bene gli animali non necessariamente tratta bene anche gli umani.
Non suggerisco di costruire un cavalcavia pedonale nel Sahara, che sarebbe complicato e costoso; però aprire rotte legali, molte, costanti e affidabili si può, in modo che le persone arrivino in aereo, non a piedi. Magari ponendo anche condizioni difficili: devi parlare l’italiano! Devi essere diplomato o laureata! Devi sapere chi è stato il primo presidente del Parlamento Europeo! In questo modo forse andrà a finire che chi non riesce a prendere il visto, ci riprovi l’anno dopo e non salga su un pullman a caso per farsi un viaggio di 5.000 km. E se proprio dovesse fallire definitivamente, potrebbe anche rinunciare a migrare, perché intanto ci è riuscita sua cugina e per la famiglia è sufficiente.
Temo che neppure in questo modo i viaggi dell’immigrazione a tutti i costi si azzererebbero, ma probabilmente diminuirebbero, e sarebbe più facile contrastare gli sfruttatori e i torturatori. Sarebbe più facile e normale fare arrivare le persone di cui abbiamo bisogno, noi, per stare meglio, anche se di loro, come mi sembra piuttosto chiaro, ce ne importa abbastanza poco.