Non saltano più fuori nuovi strumenti musicali
E quei pochi finiscono per essere suonati solo dal loro inventore, perché il modo in cui si produce musica ormai è cambiato
Il Georgia Institute of Technology (Georgia Tech), uno dei più prestigiosi centri di ricerca tecnologica degli Stati Uniti, organizza tra le altre cose un concorso annuale per inventori e inventrici di strumenti musicali. Si chiama Guthman Musical Instrument Competition, dal nome del suo ideatore, prevede un primo premio da 10mila dollari ed è considerato il più importante nel suo genere. L’edizione del 2023 è stata vinta dallo statunitense Keith Baxter, inventore del flauto zen: una specie di sintetizzatore di musica elettronica controllato attraverso i movimenti della bocca.
Alcuni degli strumenti presentati al concorso, anche tra i non vincitori, ricevono molti apprezzamenti: una minima parte arriva anche a essere commercializzata. Ma la maggior parte sta più nel campionato delle stranezze, come l’arpa-chitarra, il pianoforte elettromagnetico, il pallottoliere-sintetizzatore o la chitarra-Lego microtonale: prototipi difficilmente replicabili, sia per ragioni di costi che per mancanza di praticità e utilità.
La sostanziale irrilevanza pubblica è un limite che riguarda i nuovi strumenti musicali in generale, che partecipino o no al concorso Guthman. Nessuno riesce più a emergere e diventare popolare come successo nel XX secolo alle chitarre elettriche, alle drum machine o ai sintetizzatori. Come confermato da ricercatori della Queen Mary University di Londra in un’analisi del 2017 sulla longevità delle «nuove interfacce di espressione musicale», la maggior parte degli strumenti fatica ad affermarsi. E finisce per essere suonata unicamente dalle persone responsabili dell’invenzione.
Su 70 nuovi strumenti musicali analizzati soltanto cinque avevano venduto almeno un’unità, conclusero i ricercatori, aggiungendo tuttavia che molti nuovi prodotti possono fallire ed essere ciononostante fonte di ispirazione per altre invenzioni. In una certa misura è anzi normale che la maggior parte non mostri capacità di resistere nel mercato. L’analisi suggerì infine che il mancato successo possa avere a che fare, più che con proprietà e qualità intrinseche degli strumenti, con le aspettative del pubblico e della comunità più estesa in cui gli strumenti cercano di affermarsi.
Una delle ragioni della scarsissima rilevanza dei nuovi strumenti musicali è che da tempo nemmeno quelli tradizionali sono popolari come una volta: principalmente perché non sono l’unico mezzo né il più importante per produrre suoni in fase di registrazione. Il successo dell’audio digitale ha quindi determinato una progressiva contrazione della domanda di strumenti musicali analogici, i cui sviluppatori finiscono oggi per competere nella maggior parte dei casi per attirare e ricevere attenzioni pubbliche, più che per colmare qualcosa che i musicisti percepiscano come una reale mancanza di strumenti espressivi.
«Per molti musicisti comporre musica significa digitare righe di codice o creare suoni su una DAW [digital audio workstation, un computer su cui giri un software di registrazione e montaggio]» ha detto al Guardian Steve Dunnington, capo dello sviluppo nell’azienda statunitense Moog, produttrice del primo sintetizzatore disponibile in commercio nel 1964. E tendiamo a non considerare «musicali» gli strumenti digitali, secondo Dunnington, solo perché «non ci soffiamo aria dentro, o non li colpiamo».
La possibilità di fare musica con costi molto ridotti rispetto al passato ha inoltre esteso enormemente l’utenza degli strumenti necessari per produrre audio digitale. E in un contesto in cui le possibilità di creare un certo suono sono sostanzialmente illimitate, legate a capacità tecnologiche in continua espansione, la maggior parte dei musicisti tende a sfruttare quelle possibilità unicamente con l’obiettivo di arrivare a quante più persone possibili. Molti dei nuovi strumenti musicali hanno sì caratteristiche interessanti, ha detto Dunnington, ma in pochi vogliono davvero imparare a suonarli, o andare a sentire qualcuno che sa farlo.
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Esistono ovviamente delle parziali eccezioni all’irrilevanza dei nuovi strumenti musicali, spesso dovute all’attenzione che riescono a ricevere da musicisti e produttori affermati. Un particolare strumento chiamato harpejji, a metà tra una chitarra elettrica e un pianoforte, ricevette molte attenzioni nel 2012 dopo che il musicista statunitense Stevie Wonder ne provò uno a una fiera di prodotti musicali ad Anaheim, in California. «Lo adoro, quando posso averne uno?», chiese subito dopo all’inventore dell’harpejji Tim Meeks, che li produceva fin dal 2007 in un suo laboratorio nel Maryland.
Da allora Stevie Wonder ha suonato l’harpejji in diversi concerti e spettacoli dal vivo. Lo usano con una certa regolarità anche altri musicisti, tra cui l’organista e pianista jazz statunitense Cory Henry e il cantautore inglese Jacob Collier. L’harpejji ha una meccanica simile a quella di altri strumenti a corde, ma si suona picchiettando direttamente le corde con le dita, utilizzando cioè una particolare tecnica chiamata tapping, tipicamente utilizzata da chi suona la chitarra e il basso.
Il modello base ha 12 corde, accordate a un tono di distanza l’una dall’altra, e 15 tasti, distanziati di un semitono l’uno dall’altro. Costa circa 3mila euro, ma il modello da 24 corde costa il doppio. L’azienda che produce l’harpejji, la Marcodi a Baltimora, conta di superare un milione di dollari di vendite nel 2023. Una delle tante particolarità dello strumento è che rende possibile variare con relativa semplicità l’altezza del suono, cioè passare in modo più o meno rapido e senza intervalli da una nota a un’altra, facendo scivolare le dita verticalmente sulle corde, lungo la scala dei semitoni.
Un effetto simile, noto nella didattica musicale come “glissando”, è alla base di un altro strumento che ha ricevuto diversi apprezzamenti in tempi recenti: il glissotar, inventato dal compositore ungherese Daniel Vaczi e vincitore del concorso Guthman nel 2022. È uno strumento a fiato tipico della musica popolare ungherese, il tarogato (simile all’oboe), ma con la differenza che sul tubo dello strumento al posto dei fori c’è una fessura longitudinale, ricoperta da un nastro teso. Spingendo il nastro lungo la fessura con le dita è possibile produrre in modo continuo note di qualsiasi altezza.