Ragazze o donne?
Soprattutto online c'è la tendenza a definirsi nel primo modo anche da adulte, forse per le aspettative e i pregiudizi associati al secondo
di Viola Stefanello
Da tempo scorrere le home page su TikTok o Instagram vuol dire anche imbattersi spesso in video incentrati attorno alla parola “girl” (“ragazza”, in inglese). Una camminata da sola o con le amiche, ripresa per un video che ironizza sull’importanza di fare movimento fisico «per migliorare la nostra stupida salute mentale», viene chiamata una “hot girl walk” (una “camminata da ragazze fighe”). Una cena raffazzonata, composta da snack trovati in giro per la cucina o dalle prime cose che si trovano nel frigo, può essere una “girl dinner” (“cena da ragazza”). Usare una serie di calcoli astrusi e poco logici per giustificare una spesa spropositata per un prodotto che si desidera è “girl math” (“matematica da ragazze”). Adottare una mentalità estremamente positiva, convincendosi del fatto che in questo modo si sarà ricompensati con un po’ di fortuna, è abbandonarsi alla “lucky girl syndrome” (“sindrome da ragazza fortunata”).
A questo si aggiungono il grandissimo numero di “moodboard” presenti su piattaforme come TikTok e Instagram, ma anche Tumblr e Pinterest: collezioni di foto e video di oggetti, vestiti, persone, luoghi e situazioni che messi insieme ricreano un particolare immaginario (in inglese si direbbe “aesthetic”) da cui farsi ispirare. Nella maggior parte dei casi si tratta di etichette poco definite, pubblicate online in modo scherzoso da creatrici di contenuti adolescenti per condividere con altre ragazze una serie di look a cui aspirare e da cui farsi ispirare per comporre il proprio guardaroba. Il tema può essere praticamente qualsiasi cosa: una moodboard a tema “tomato girl” (“ragazza pomodoro”) magari contiene foto di belle ragazze con le guance arrossate dal sole e un fazzoletto sgargiante legato in testa, lunghi vestiti di lino bianchi e sandali, delicati orecchini dorati e giovani donne in vacanza intente a guidare una vespa o davanti a un’insalata caprese. Una a tema “dobermann girl” (“ragazza dobermann”) potrebbe contenere foto di giacche di pelle e moto veloci, scritte al neon, borchie e anfibi Dr. Martens.
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Nella gran parte dei casi le utenti che si identificano in categorie come “tomato girl” e “dobermann girl”, che condividono la propria “girl dinner” o sperano di soffrire di “lucky girl syndrome”, non sono effettivamente ragazze adolescenti, ma donne adulte. In questo contesto, la crescente immedesimazione nel termine “ragazze” online ha portato negli ultimi mesi a varie riflessioni, sia sui social network sia su giornali e riviste, su cosa significhi definirsi ragazza invece di donna, e sui motivi dell’onnipresenza del concetto di “ragazze” online.
Secondo il dizionario, una ragazza è un essere umano di sesso femminile nell’età dell’adolescenza o della giovinezza: la Treccani ritiene che si possa ancora definire ragazza una persona di 25 anni, e non esiste consenso effettivo sull’età in cui sia il caso di cominciare a parlare di donna, ovvero «un individuo di sesso femminile, che ha raggiunto la maturità sessuale e quindi l’età adulta».
Se in teoria la differenza tra donna e ragazza è determinata principalmente da dati anagrafici, bisogna considerare che i concetti di «giovinezza», «maturità sessuale» e «età adulta», come tanti altri, cambiano moltissimo in base al periodo storico e al contesto sociale, e questo rende ancora più complesso tracciare linee nette. Anche per questo motivo, molti tendono ad associare piuttosto il termine “ragazza” all’assenza di responsabilità e oneri che ricadono sulle donne nel momento in cui ricoprono ruoli di genere tradizionali, come quelli di mogli e madri.
«Una “woman dinner” (“cena da donne”) è triste: la frase evoca l’immagine di una signora stanca, che ha già dato da mangiare al marito e ai figli e mangia gli ultimi avanzi prima di lavare i piatti. Nessuno vuole una “woman dinner”» ha scritto la giornalista Rebecca Jennings su Vox. «Una “girl dinner”, invece, è una roba divertente». Al New York Times la scrittrice Ashley Reese ha detto una cosa simile: «Penso che ci sia un certo senso di sicurezza nel definirsi ragazze, con gli errori e l’ingenuità e forse anche la bellezza della giovinezza, che viene costantemente spinta dai media che consumiamo. Il concetto di donna è invece permeato di un senso di mancanza di giocosità, di serietà, di invecchiamento».
Già in La donna gelata, pubblicato nel 1981 e ambientato tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la scrittrice francese Annie Ernaux descriveva per esempio «il periodo immediatamente precedente» al diventare una donna adulta, che tutte le ragazze hanno vissuto per un tempo più o meno lungo: un periodo «in cui si può cenare con lo yogurt, preparare la valigia in mezz’ora per un fine settimana improvvisato, passare una notte intera a parlare, leggere tutta la domenica sotto le coperte», e soprattutto in cui non ci sia «nessuno che ti stia col fiato sul collo, non ancora».
Non è quindi particolarmente sorprendente che su TikTok e Instagram – tra l’altro due degli spazi digitali più frequentati da adolescenti e giovani adulti – moltissime donne parlino di sé e delle proprie follower come “ragazze”. In molti casi si tratta di una tattica di marketing ormai abbastanza rodata: una donna, spesso ma non sempre famosa, conia un’etichetta evocativa ma priva di una specifica definizione – come “big city girl” (“ragazza da grande città”) e “soft girl” (“ragazza soffice”), “caramel girl” (“ragazza caramello”) e “fairy girl” (“ragazza fatata”) – e tantissime altre content creator cominciano a pubblicare decine di video che consigliano che vestiti indossare, che profumi provare o che trucco riprodurre per avvicinarsi a quell’immaginario.
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A inizio estate, per esempio, la modella Hailey Bieber ha pubblicato una foto su Instagram con il commento “strawberry girl summer” (“estate da ragazza fragola”). Era probabilmente un riferimento al fatto che le sue guance, nella foto, erano arrossate dal sole, ma nell’arco di pochi giorni i video su TikTok con l’hashtag #strawberrygirl – che includevano tutorial per imitare le stesse guance arrossate e il look naturale di Bieber con il trucco – erano stati guardati 16 milioni di volte. Poco dopo la modella ha pubblicato a propria volta un tutorial su come truccarsi come lei in quella foto, sfruttandolo per lanciare sul mercato una nuova linea di prodotti di bellezza.
Varie persone che lavorano nel marketing di piattaforme di shopping online hanno confermato a Vogue che questo genere di microtrend sui social network convince effettivamente moltissime persone a comprare vestiti, nella speranza di trasmettere delle “vibe” (una parola intraducibile che vuol dire, più o meno, “sensazioni”) simili a quelle delle influencer che hanno visto su TikTok. E non si tratta soltanto di vestiti o trucchi: tra i consigli che si trovano per comunicare lo specifico vibe a cui si ambisce ci sono anche cibi e bevande da provare, libri da leggere, musica da ascoltare o mobili con cui arredare la propria casa.
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Dal punto di vista delle utenti, la moltiplicazione di questi microtrend può essere collegata alla volontà di trovare una qualche forma di appartenenza in un contesto sociale di isolamento in cui è difficile sentirsi parte di una vera e propria comunità, fuori da internet. «I giovani, e soprattutto le ragazze, desiderano costruirsi un’identità e trovare una comunità» ha scritto Kaetlyn Liddy su NBC News. «E sono sempre più spinti a fare dell’acquisto di oggetti una parte centrale della propria identità. Per le persone che non sono riuscite a trovare una comunità e una forte identità durante gli anni più formativi dell’adolescenza, sentirsi dire che comprare un certo tipo di vestiti ti renderà un certo tipo di persona sembra una scorciatoia».
La professoressa di marketing Shilpa Madan ha detto una cosa simile alla BBC: «Quando qualcosa viene etichettato come una cosa “da ragazza” crea un immediato senso di immedesimazione, favorendo un sentimento di comunità e sorellanza condivisa. È facile cercare qualsiasi scusa per partecipare a un rituale condiviso o unirsi a una “tribù”, anche solo temporaneamente, come parte di un trend virale».
Le donne che si identificano come ragazze su TikTok sono spesso consapevoli delle dinamiche a cui partecipano, e ci scherzano sopra: molti dei trend più assurdi che si trovano sulla piattaforma – come “broccoli girl” (“ragazza broccolo”) o “onion girl” (“ragazza cipolla”) – esistono solo per ironizzare sulla proliferazione di queste etichette. Non esistono davvero orde di donne adulte che, fuori dai social, parlano seriamente di sé come di ragazze pomodoro o di fatine. Anche se può capitare, all’interno di gruppi di amici che passano molto tempo su TikTok, di fare qualche battuta sul fatto di ascoltare “sad girl music” (“musica da ragazza triste”) o di preparare una girl dinner.
Anche in Italia, tra chi consuma questo genere di contenuti online, i termini rimangono in inglese, come spesso succede con i fenomeni che nascono sul web anglofono. Ma esistono anche trend locali, come quello che invita le utenti a “chiedere ai tuoi amici che ragazza sei“.
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E non è nemmeno una questione limitata alle donne: la tendenza a chiamarsi “girl”, “gurl”, o “girlie” (tutte variazioni di “ragazza”) in modo affettuoso tra adulti negli Stati Uniti è anzi diffusa da molto più tempo tra i membri della comunità LGBTQ+, che spesso non hanno potuto vivere gli anni dell’adolescenza in modo tranquillo e spensierato.
«Autoselezionarsi come “una delle ragazze” non è una questione di genere, ma una battuta condivisa, un modo per comunicare che ci piacerebbe poter vivere la vita in modo sereno e poco serio», spiega Delia Cai su Vanity Fair. «Ma voler essere ragazze è un meccanismo di difesa. Le adulte devono preoccuparsi dell’affitto, dei debiti, del cambiamento climatico, della politica, dei diritti riproduttivi, le ragazze no. Al centro di questa fanciullezza immaginata c’è la voglia di esprimere la femminilità senza conseguenze negative».
Cai fa notare che non è nemmeno un fenomeno particolarmente recente: il personaggio interpretato da Katharine Hepburn nel film del 1955 Tempo d’estate diceva già all’epoca che «in America, tutte le donne sotto i cinquant’anni si fanno chiamare ragazze». Il singolo di Cyndi Lauper “Girls just wanna have fun”, del 1983, non parlava di adolescenti. E negli ultimi quindici anni ci sono state tantissime serie tv che parlano di giovani donne ma usano la parola “girl” nel titolo, da New Girl a Gilmore Girls (Una mamma per amica in italiano) a Girls di Lena Dunham.
Ciononostante, il moltiplicarsi di piccole mode e tendenze legate alla parola “girl” hanno portato a varie riflessioni sulla possibilità che contribuiscano a infantilizzare le donne e a rinforzare stereotipi di genere. Alcune pensano che questo genere di etichette minimizzino la complessità dell’esperienza femminile, e che possano essere usate da persone che non ne capiscono l’ironia come prova del fatto che le donne sono effettivamente frivole e sciocche.
Altre trovano sgradevoli questi trend perché semplicemente non amano l’idea che donne adulte continuino a pensare a sé stesse come ragazze. Altre ancora lamentano il fatto stesso che il concetto di “donna” venga associato a una condizione di noia, oppressione, cancellazione di sé e della propria individualità. Sul tema, la scrittrice Robin Wasserman commenta che «sono le nostre aspettative sulla vita delle donne in età adulta che dovrebbero cambiare: dovremmo piuttosto rivendicare la parola “donna”, e riconoscere con il linguaggio ciò che è già stato scritto in molti manifesti femministi: che anche le donne adulte possono essere libere e perseguire i propri interessi personali».
Infine, c’è chi pensa che chiamarsi “ragazze” tra amiche, o all’interno di comunità online che capiscono in buona fede l’ironia del termine, non sia un problema, ma riconosce che spesso a chiamare le donne adulte “ragazze” in modo poco rispettoso e anzi svilente sono certi uomini adulti. Per molte delle donne che giocano a fare le ragazze online, però, il punto è proprio quello di ridicolizzare l’idea, a lungo radicata, che le giovani donne siano sceme, superficiali o prive di senso critico. «Se qualcuno non riesce a cogliere gli strati di ironia presenti in un contenuto per determinare che la persona che ha davanti sta solo fingendo di essere scema, e non è veramente lenta di comprendonio, è una ragione in più per farsi una risata», spiega Marie Solis sul New York Times. «Se le persone ti sottovalutano, è un motivo in più per scioccarle quando alla fine capiscono di essersi sbagliate».
@liviemaher