I paesi fissati con il calo demografico non sono molto efficaci a contrastarlo
L'Ungheria, che sta per ospitare un convegno sul tema con Meloni, non ha fatto grandi progressi, e lo stesso vale per la Polonia
Dal 2015 il governo ungherese, guidato in maniera semi-autoritaria dal primo ministro Viktor Orbán, organizza una conferenza internazionale sulla denatalità, cioè sulla drastica riduzione delle nascite in corso ormai da decenni nei paesi occidentali. Quest’anno si terrà dal 14 al 16 settembre, e una delle principali ospiti sarà la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che è tra i maggiori alleati politici europei del primo ministro ungherese.
Da anni il tema della denatalità è al centro delle discussioni nei partiti europei di estrema destra, e dove l’estrema destra è al governo si sono investiti parecchi soldi per cercare di invertire la riduzione delle nascite. Spesso queste preoccupazioni nascondono la promozione di politiche contro i migranti, che storicamente fanno più figli rispetto alle persone native del paese in cui si trasferiscono, e a favore di misure conservatrici in tema di diritti delle donne. Paesi come Ungheria e Polonia cercano da anni di incentivare i propri abitanti a fare più figli: con scarsi risultati, almeno finora.
In Ungheria le donne che hanno più di quattro figli vengono esentate a vita dal pagare le tasse, mentre le coppie che ne hanno più di tre accedono a diversi bonus: un finanziamento statale da circa 30mila euro per coprire le spese legate al mantenimento dei figli, sussidi per acquistare automobili da 7 posti, e altre agevolazioni. Nel 2019 il governo ungherese ha anche nazionalizzato una serie di cliniche private per la fertilità, i cui servizi da allora sono integrati nel servizio sanitario nazionale.
Orbán ha fissato come obiettivo per il 2030 il raggiungimento di un tasso di fecondità totale di 2,1 figli per donna: è il valore che assicura a una popolazione la possibilità di sostituire le generazioni mantenendo costante la propria struttura. «Vogliamo bambini ungheresi: la migrazione per noi è una resa», ha detto tempo fa Orbán.
Il governo polacco, che dal 2016 è guidato dal partito di estrema destra Diritto e Giustizia, proprio quell’anno lanciò il programma 500+: ciascuna coppia riceve 500 złoty al mese (circa 120 euro) per ogni figlio, che saliranno a 800 (circa 170 euro) dal 2024. Dal 2021 al programma 500+ si è aggiunto un altro sussidio: un assegno annuale da circa 2.600 euro per ogni figlio dopo il primo nei suoi primi tre anni di età.
Né il programma ungherese né quello polacco sembrano avere ottenuto gli effetti desiderati. Il tasso di fecondità ungherese è aumentato, da 1,2 a 1,6 figli per donna, ma è ancora lontano dall’obiettivo di 2,1 (Orbán è al governo da 13 anni). Il tasso polacco era aumentato nei primi anni dopo l’introduzione del programma 500+, ma oggi è tornato ai livelli precedenti.
A prescindere dai risultati, gli approcci di entrambi i paesi hanno un costo nascosto non indifferente, che ricade in maniera sproporzionata sulle donne, che senza altre politiche di sostegno alla famiglia oltre ai sussidi dovranno spesso rimanere a casa.
In Ungheria per esempio il finanziamento di 30mila euro per chi fa tre figli può essere richiesto da tutte le coppie sposate: ma se poi queste persone non riescono ad avere tre figli, devono ridare i soldi allo stato. E se le donne non lavorano o guadagnano meno dei loro mariti saranno incentivate a rimanerci insieme, pur di non avere debiti con lo stato: «Se sei in una relazione tossica o abusiva sei meno libera di lasciare il tuo partner, dato che siete legati da questi prestiti», spiegava qualche anno fa al Guardian Dorottya Szikra del think tank ungherese Centre for Social Sciences.
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Già oggi diverse persone che lavorano nelle associazioni per i diritti per le donne raccontano come la violenza domestica sia uno dei grandi problemi della società ungherese di cui si parla di meno: nel 2018 l’ong internazionale Women for Women against Violence stimò che una donna ungherese su cinque subiva abusi fisici dal proprio partner.
In Polonia la riduzione delle nascite viene spiegata soprattutto con la maggiore precarietà dei posti di lavoro offerti alle donne. Nel 2021 il rispettato istituto di sondaggi IPSOS chiese alle donne polacche quali fossero i principali ostacoli nell’avere più figli: il 41 per cento di loro rispose che temeva di perdere il lavoro.
Gli esperti di natalità sostengono che una sola politica di sussidi non sia sufficiente per aumentare le nascite in un certo paese, soprattutto se costringe le donne a restare a casa a badare ai figli. Recenti ricerche inoltre dimostrano che nei paesi sviluppati esiste una correlazione fra il tasso di occupazione delle donne e il tasso di fecondità.
La Norvegia per esempio nel 2021 è stata sia uno dei paesi europei col più alto tasso di occupazione femminile sia quello con uno dei più alti tassi di fecondità, vicino a 1,7. L’Economist fa notare che la Norvegia ha anche un congedo di maternità molto esteso: dura 49 settimane, cioè quasi un anno, durante il quale l’azienda è tenuta a garantire il 100 per cento dello stipendio.
Anche in Francia, il paese europeo con il più alto tasso di fecondità (1,84), le donne francesi vengono incoraggiate ad affidare i propri figli ai servizi pubblici dedicati invece che a lasciare il proprio lavoro o a interromperlo. Il tasso di occupazione delle donne che hanno più di 15 anni in Francia è al 53 per cento. In Italia invece lo stesso dato è al 41 per cento.
Nonostante il governo Meloni abbia più volte annunciato che intende investire molte risorse per spingere le coppie a fare più figli, per ora ha adottato un approccio prudente e a metà strada fra quello polacco-ungherese e quello dei paesi dell’Europa occidentale. Nell’ultima legge di Bilancio ha aggiunto un mese di congedo parentale per un genitore e annunciato un “bollino rosa” per premiare le aziende che non penalizzano le proprie impiegate che fanno figli; ma al contempo ha aumentato l’assegno unico che lo stato eroga per i figli a carico fino ai 21 anni e questa estate ha annunciato sussidi per chi farà più di 3 figli, esattamente come in Ungheria. Al momento però non esiste un piano coordinato per stimolare la natalità, che è una delle più basse dell’Unione Europea con 1,25 figli per donna.
Storicamente le società che osservano un calo demografico risolvono la questione accogliendo al proprio interno persone straniere, che spesso quando vengono messe in una condizione migliore rispetto a quella che hanno lasciato tendono a fare più figli. Ungheria e Polonia però per ragioni storiche e culturali sono tradizionalmente ostili alla migrazione dal Medio Oriente e dal Nord Africa, e i loro governi in questi anni hanno usato una retorica razzista nei confronti dei migranti che cercano di arrivare in Europa ed evitato in ogni modo di accoglierne un flusso stabile.