Si parla di nuovo dell’omicidio di JFK
Un libro pubblicato da uno degli agenti della scorta del presidente contiene un dettaglio mai rivelato finora, che sta interessando i sostenitori delle teorie cospirazioniste
L’imminente uscita di un libro sull’omicidio dell’ex presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy scritto da Paul Landis, un ex agente della scorta del presidente che si trovava a pochi metri di distanza al momento dell’attentato, sta suscitando molto interesse dato che il suo racconto differisce in un particolare importante dalla ricostruzione ufficiale. Il particolare riguarda il luogo in cui fu ritrovato uno dei due proiettili che colpirono Kennedy, quello che gli perforò la schiena.
Landis, che oggi ha 88 anni e prima d’ora non aveva mai parlato pubblicamente di quel giorno, scrive in L’ultimo testimone di aver tolto da uno dei sedili della macchina di Kennedy un proiettile e di averlo depositato sulla sua barella. Questo particolare apparentemente insignificante, se vero, potrebbe invece dare credito a una delle più note teorie cospirazioniste di sempre, e cioè che l’assassinio di Kennedy sia stato opera di più persone.
John F. Kennedy fu ucciso il 22 novembre 1963 mentre stava attraversando la Dealey Plaza a Dallas, in Texas, a bordo di una decappottabile insieme a sua moglie Jackie Kennedy, al governatore del Texas John Connally Jr e a sua moglie Nellie Connally. Secondo le ricostruzioni ufficiali, Kennedy fu colpito alla schiena, al collo e alla testa, mentre Connally fu ferito alla schiena, al petto, al braccio e alla coscia. Entrambi furono portati subito al Parkland Memorial Hospital, ma solo Connally sopravvisse.
Il rapporto della commissione Warren, creata dal presidente Lyndon B. Johnson per indagare sull’omicidio, identificò l’ex marine Lee Harvey Oswald come unico colpevole, basandosi sulle testimonianze e sulle prove balistiche, ossia l’analisi dei proiettili e dei bossoli ritrovati sul luogo. In particolare, la commissione arrivò alla conclusione che fossero stati sparati tre colpi: il primo non era andato a segno ma aveva colpito una parete, il terzo aveva colpito la testa del presidente, mentre il secondo era entrato nella schiena di Kennedy, uscito dalla sua gola, entrato nella schiena del governatore Connally, uscito di nuovo dal petto e l’aveva infine ferito anche al braccio e alla gamba.
Questo secondo proiettile è quello da tenere a mente per capire la presunta rivelazione di Landis.
Questa ricostruzione è compatibile con i tempi che ci volevano a sparare e ricaricare il fucile utilizzato, un C2766 Mannlicher-Carcano, con i tre bossoli trovati nella stanza da dove erano partiti i colpi e con il fatto che un proiettile di quel tipo, quasi completamente integro, era stato trovato in seguito su una barella dove era stato messo Connally in ospedale. La commissione aveva dedotto che il proiettile potesse essere uscito dal corpo del governatore durante gli spostamenti e le manovre di primo soccorso.
Tuttavia, il fatto che un solo proiettile – il secondo – fosse riuscito a causare tutte queste ferite in due persone diverse e ne fosse uscito praticamente intatto ha portato i sostenitori di alcune teorie cospirazioniste a parlare di “teoria del proiettile magico.” Negli anni sull’omicidio Kennedy sono nate tantissime teorie alternative, più o meno assurde, più o meno complottiste, alimentate anche dal modo in cui si svolsero le indagini della commissione Warren. Nel tempo, l’omicidio di JFK è diventato per certi versi il complotto per eccellenza della storia americana moderna, per l’importanza dell’evento e per le evidenti stranezze della versione ufficiale.
Una delle teorie del complotto più comuni è proprio quella che Lee Harvey Oswald non fosse il vero, o comunque l’unico, assassino di Kennedy e che il governo statunitense abbia volontariamente coperto o per lo meno abbia deciso di non indagare su delle piste che contemplassero il coinvolgimento di altre persone. Queste teorie sono alimentate anche dal fatto che Oswald, che si era dichiarato innocente, fu ucciso due giorni dopo l’attentato mentre era in custodia della polizia da Jack Ruby, il proprietario di un nightclub che al processo disse di aver agito perché era sconvolto dalla morte di Kennedy. Nel 1978, la commissione scelta della Camera sui casi di assassinio identificò nuovamente Oswald come il probabile esecutore materiale, ma non escluse che qualcun altro gli avesse potuto commissionare l’assassinio.
Il libro autobiografico di Paul Landis si inserisce proprio in questo contesto. La sua ricostruzione di quella giornata è stata anticipata da due articoli pubblicati da Vanity Fair e dal New York Times la scorsa settimana.
Quel giorno Landis era la guardia del corpo personale di Jackie Kennedy e viaggiava sull’auto che seguiva quella del presidente. Secondo il suo racconto, una volta arrivato in ospedale aveva visto dentro alla limousine presidenziale un proiettile praticamente intatto e l’aveva raccolto per evitare che qualcuno che non faceva parte della polizia lo prendesse e lo portasse via. Landis ha detto al New York Times che «non c’era nessuno a mettere in sicurezza la scena. Tutti gli agenti presenti erano concentrati sul Presidente» ma una folla si stava radunando attorno all’auto e «non volevo che una prova sparisse o si perdesse. Così ho pensato: ‘Paul, devi prendere una decisione’ e l’ho presa».
Per ragioni che ora risultano anche a lui confuse, ma che attribuisce allo stato di shock in cui si trovava in quel momento, quando era entrato in ospedale aveva posato il proiettile sulla barella dove c’era ancora il corpo di Kennedy, pensando che potesse in qualche modo aiutare i medici a capire cosa fosse successo.
Quindi: il famoso secondo proiettile, quello della teoria del “proiettile magico”, essendo stato ritrovato da Landis sul sedile posteriore dell’auto, non avrebbe potuto colpire anche Connally, che era seduto davanti. È per questo che la testimonianza di Landis dà credito alla teoria che ci fosse un altro sparatore, o perlomeno un quarto proiettile: però anche secondo la versione ufficiale, Oswald non avrebbe potuto avere il tempo di caricare l’arma quattro volte. E in effetti dal celebre video girato da uno spettatore si vede come il presidente e il governatore si pieghino quasi contemporaneamente, come se fossero stati colpiti quasi allo stesso momento.
Landis non dice di credere che ci fosse un secondo sparatore, ma non dà nemmeno una sua spiegazione al fatto di aver ritrovato il proiettile sul sedile posteriore. Suggerisce solo che quel proiettile potesse essere difettoso o caricato male, e che per questo non fosse riuscito a colpire anche Connally, fermandosi prima.
L’ipotesi che il proiettile che ha colpito Kennedy alla schiena si sia fermato lì era presente anche in un primo rapporto risultato dall’autopsia fatta su Kennedy al Bethesda Naval Hospital vicino a Washington DC. In quel caso, i medici avevano identificato la ferita sulla schiena come lesione causata da un proiettile che sarebbe dovuto ancora essere dentro al corpo, ma che invece non c’era, e che era probabilmente uscito dallo stesso foro da cui era entrato.
Uno dei due agenti dell’FBI presenti al momento dell’autopsia, Frank O’Neill, disse alla commissione del 1978 che la ferita sul collo non era compatibile con quella della schiena, e i medici avevano pensato che quello sul collo fosse quindi un buco aperto dal personale dell’ospedale di Dallas nel tentativo di salvare la vita di Kennedy. Tuttavia, dopo essere stati informati del fatto che quella ferita era già presente nel momento in cui il presidente era stato portato in ospedale, i medici di Washington avevano cambiato l’autopsia scrivendo che quello del collo poteva essere considerato il foro d’uscita del proiettile, giudicando, come molti altri medici sentiti dalle due diverse commissioni negli anni successivi, che fosse possibile che un solo proiettile avesse causato tutte quelle ferite.
Il fatto che Landis abbia messo il proiettile sulla barella di Kennedy, ma che poi sia stato ritrovato sulla barella dove era stato messo Connally, non è necessariamente un’incongruenza. Il tecnico sanitario Darrell Tomlinson, interrogato dalla commissione Warren per ricostruire i movimenti dei due politici all’interno dell’ospedale, aveva detto di aver visto il proiettile non sulla barella di Connally, ma su un’altra vuota presente nello stesso corridoio. La sua testimonianza però non fu considerata. È quindi possibile che quella che la commissione identificò come la barella di Connally fosse in realtà una barella su cui era stato messo all’inizio Kennedy, dato che era logico che il proiettile fosse stato trovato accanto all’ultima persona che aveva ferito.
Al momento di redigere il rapporto sull’accaduto, nei giorni successivi, Landis non menzionò la storia del proiettile e non fu mai intervistato dalla commissione Warren. Nelle interviste uscite in questi giorni ha raccontato che nei giorni successivi era stato incaricato di essere sempre al fianco di Jackie Kennedy: il carico di lavoro, unito allo shock di aver assistito all’omicidio, gli avevano tolto il sonno e non era stato in grado di dare una ricostruzione lineare. Tormentato dagli incubi, sei mesi dopo l’omicidio di Dallas infatti Landis si dimise e iniziò a lavorare nel settore immobiliare. Fino a pochi anni fa aveva deciso di non leggere né vedere niente che riguardasse l’assassinio di Kennedy.
Nel 2014 un capo della polizia locale amico di Landis gli diede una copia di Sei secondi a Dallas, un libro del 1967 di Josiah Thompson che sosteneva l’esistenza di più sparatori. Landis lo lesse, e in seguito confidò ad alcuni amici che, in effetti, la versione ufficiale dei fatti non combaciava in alcuni punti con quello che lui si ricordava. Tuttavia all’inizio aveva deciso di non parlarne pubblicamente per paura di ricevere accuse.
Si confrontò però con Lewis C. Merletti, ex direttore del Secret Service, l’agenzia governativa incaricata della protezione del presidente degli Stati Uniti, con James Robenalt, avvocato di Cleveland e autore di diversi libri sulla storia statunitense, e con Clint Hill, un suo collega rimasto celebre perché a Dallas saltò sul retro della limousine in corsa cercando di salvare Kennedy. Proprio Hill, in un’email del 2014 che Landis ha conservato, gli sconsigliò di parlare pubblicamente della storia del proiettile, per le grosse implicazioni che questa rivelazione avrebbe avuto.
Hill, che ha raccontato la sua versione dell’accaduto in diversi libri e interviste, ha detto la scorsa settimana che la versione di Landis è piena di incongruenze e Merletti, che conosce Landis da più di dieci anni, non è sicuro che l’amico ricordi completamente come sono andate le cose. Anche Gerald Posner, autore del libro del 1993 Caso chiuso, in cui sosteneva la tesi che Oswald avesse effettivamente ucciso Kennedy da solo, ha detto di essere dubbioso. Gli sembra infatti un racconto troppo dettagliato per una persona che negli ultimi 60 anni aveva cercato di dimenticare l’accaduto. «Anche supponendo che [Landis] stia descrivendo accuratamente ciò che è successo con il proiettile», ha detto Posner, potrebbe essere una rivelazione di portata minore. Potrebbe cioè indicare soltanto «che ora sappiamo che il proiettile è uscito dal corpo del governatore Connally nella limousine e non in ospedale.»
Ken Gormley, presidente della Duquesne University e importante storico presidenziale, che ha aiutato Landis a trovare un agente per il suo libro, ha detto di non essere sorpreso dal fatto che un agente che era stato traumatizzato dall’accaduto si sia fatto avanti a distanza di anni. L’ha paragonata a una dichiarazione in punto di morte. In una recente intervista ha confermato che Landis non ha mai dato spago alle teorie cospirazioniste e che crede alla versione dell’unico assassino. Nella sua esperienza, «è molto comune per le persone arrivate quasi alla fine della loro vita voler “fare pace con le cose” e mettere sul tavolo ciò che si sono tenuti dentro, specialmente se si tratta di un pezzo di storia.» Secondo lui, a 88 anni Landis non è alla ricerca di attenzione o soldi, ma vuole solo che le persone sappiano qual è la versione dei fatti che si ricorda.