Le piattaforme stanno rimuovendo dai cataloghi anche film e serie che hanno prodotto loro
Perché tenere online quelli meno visti non è più conveniente, e a volte significa che non rimangono da nessuna parte
Il 10 maggio del 2023 Christine McCarthy, direttrice finanziaria della Disney, ha annunciato la rimozione di alcuni contenuti dalla piattaforma di streaming Disney+. Si trattava di film e serie tv per un totale di 76 produzioni, che di colpo e tutte insieme non sono più state disponibili. È il caso più clamoroso di una tendenza cominciata meno di due anni fa e ancora in corso: le piattaforme di streaming stanno rimuovendo massicciamente i loro contenuti meno redditizi, quelli cioè che vengono guardati di meno. Tra i titoli rimossi da Disney+ c’erano Il mondo secondo Jeff Goldblum, il remake di Black Beauty e quello di Una scatenata dozzina, il film Artemis Fowl di Kenneth Branagh e la serie tratta dal film Willow.
Non si tratta della normale rotazione di film o serie che ogni piattaforma propone a turno, ma di una strategia mirata al contenimento dei costi che rimuove dalla disponibilità le produzioni che sono di proprietà della piattaforma, che quindi difficilmente potranno essere messe a disposizione dalla concorrenza. Le ragioni sono sostanzialmente economiche: tenere questi titoli nel catalogo ha un costo, e le major non se la passano più così bene dal punto di vista finanziario da poterselo permettere. Non è chiaro cosa ne sarà di queste produzioni, se saranno conservate (cosa che ha un costo) o se rischiano di sparire.
La rimozione sistematica è parte di un più generale piano di riordino dei conti delle grandi major, le case di produzione e distribuzione cinematografica più grandi. Tutte (tranne Sony/Columbia) negli ultimi 4 anni hanno investito una grande parte dei loro capitali nella costruzione di proprie piattaforme di streaming e poi nel riempimento dei loro cataloghi, nella convinzione che quello fosse il futuro della distribuzione a discapito dei cinema. Alcuni, come Disney, complice la pandemia, hanno anche dirottato moltissimi film pensati per una distribuzione nelle sale a una distribuzione solo online. Il crollo dei titoli in borsa prima di Netflix e poi delle altre major ha però confutato molto di ciò che si pensava. Disney+ ha perso 1 miliardo di dollari nell’ultimo anno e HBO Max 217 milioni. Distribuire solo online si è dimostrato meno redditizio rispetto a far passare i film prima per la sala, e quello che in precedenza alimentava la quotazione in borsa (cioè la promessa di sempre più abbonati) ha mostrato i suoi limiti. Ora le piattaforme devono anche essere aziende sane per non scontentare gli investitori.
La strategia di contenimento dei costi e aumento dei profitti, che prevede anche la rimozione delle produzioni, riguarda quasi tutte le piattaforme ma in particolar modo quelle che sono espressione di uno studio di produzione tradizionale, cioè quelle che non sono Netflix, Prime Video e Apple Tv+. La piattaforma di streaming della Warner Bros, chiamata HBO Max (non attiva in Italia) e poi ribattezzata semplicemente Max in seguito alla fusione della Warner con il gruppo Discovery, ha progressivamente rimosso 87 titoli tra agosto 2022 e maggio 2023. I più noti di questi erano la serie Raised by Wolves (il cui showrunner iniziale è stato Ridley Scott) e Westworld. Anche Paramount+, nonostante sia attiva da meno tempo della concorrenza, ha eliminato tra le altre la serie remake di Ai confini della realtà ideata da Jordan Peele, il prequel di Grease e lo spin-off di Star Trek intitolato Prodigy. Una parte di questi contenuti è disponibile a pagamento per l’acquisto (e non per il noleggio) su alcune piattaforme in virtù di accordi già presi. Altri semplicemente non si trovano più da nessuna parte.
Rimuovere dei contenuti consente sia di non pagare le royalties che spettano ai detentori dei diritti (anche se queste, come dimostrano gli scioperi in corso, non sono una grande spesa), sia di non pagare i costi di stoccaggio, quelli che fanno sì che quei titoli siano effettivamente disponibili in ogni momento e che consistono nell’archiviazione dei file su server appositi, che devono essere molto potenti e facilmente raggiungibili da tantissime persone. Ma questa strategia permette anche di considerare quelle proprietà come perdite a livello fiscale (perché avevano un valore che la loro rimozione ha di colpo abbassato) e quindi di dedurle dalle tasse. Dalla sua operazione di rimozione del maggio scorso Disney ha ottenuto un abbassamento di valore del suo catalogo di circa 2 miliardi di dollari, quindi la cifra sulla quale dovrà pagare le tasse sarà inferiore di quei 2 miliardi.
In un’ottica di massimizzazione dei profitti, in certi casi le piattaforme possono avere più convenienza a vendere questi titoli ad altre piattaforme, mantenendoli quindi disponibili. Per esempio HBO Max ha venduto i diritti di trasmissione online di Raised by Wolves e Westworld a FAST, una piattaforma streaming non presente in Italia gratuita e finanziata con la pubblicità (come la televisione tradizionale). Non solo FAST paga la Warner per quei diritti, ma le royalties che HBO deve pagare per la visione su una piattaforma come quella, gratuita, sono anche minori. Ogni paese ha però accordi a sé. Non essendo FAST presente in Italia, nel nostro paese Raised by Wolves è ancora nel catalogo Sky, mentre Westworld è disponibile solo per l’acquisto su piattaforme di noleggio. Tuttavia vendere non è conveniente in ogni caso, sempre per ragioni fiscali. Lo stesso Tim Hanlon, del gruppo di consulenza per piattaforme Vertere, ritiene che questo modello basato su un’esclusiva iniziale sulle proprie produzioni e poi, una volta terminato lo sfruttamento primario, sulla rivendita ad altre piattaforme minori, potrebbe essere quello dominante nel prossimo futuro, perché assicura un profitto maggiore e uno scarico del peso fiscale.
La percezione della necessità della disponibilità perpetua di film e serie tv è un concetto molto recente. Fino a prima dell’esistenza delle piattaforme di streaming non era nemmeno considerata, e fino a prima dell’esistenza del mercato Home Video, quindi prima dei Betamax e dei VHS, nessuno spettatore poteva possedere una propria copia di un film o di una serie. Erano le televisioni a mettere in onda periodicamente le produzioni di cui avevano i diritti, e quando per una qualsiasi ragione (di diritti o di opportunità) smettevano di essere programmate era considerato naturale. Addirittura per decenni era sembrato naturale agli stessi produttori e distributori non occuparsi nemmeno della conservazione dei propri film. È noto che il 75% dei film muti girati prima del 1929 è perduto per sempre, perché non era previsto che venissero conservati. E anche parlando della televisione, fino agli anni ’70 o ’80 le reti non erano attrezzate né avevano interesse a conservare i loro programmi.
Nel 1971 il gruppo comico inglese dei Monty Python salvò per un caso fortuito le uniche registrazioni della loro trasmissione Monty Python’s Flying Circus, riconosciuta come una delle produzioni più influenti di sempre nell’evoluzione della comicità. La BBC in un’ottica di risparmio aveva destinato i nastri su cui erano incise le puntate al riutilizzo. Alla stessa maniera 97 episodi della storica serie britannica Doctor Who sui 263 trasmessi tra il 1963 e il 1969 sono ritenuti perduti perché non ne esistono più copie. La televisione americana ha cancellato tutto quel che riguarda la serie originale di Star Trek che non siano gli episodi in sé (quindi ciak alternativi, materiale promozionale e scene cancellate). Anche in Italia la RAI per molti anni ha conservato le proprie trasmissioni male e con scarso riguardo per la catalogazione. La struttura Teche Rai, che si occupa proprio della conservazione e valorizzazione dell’archivio, fu istituita solo nel 1995 e ancora oggi molto del suo materiale non è stato visionato e quindi non è chiaro cosa contenga una gran parte dei suoi nastri.
Da quando è nato il mercato Home Video è diventato quasi impossibile perdere una produzione per sempre, vista la proliferazione dei suoi VHS o in seguito DVD. Gli studios hanno comunque lavorato per creare una “scarsità artificiale” dei propri film. In particolare la Disney ha messo a punto lungo gli anni ’80 una strategia poi denominata “forziere Disney”, che prevedeva di vendere solo periodicamente i propri film più pregiati, (come ad esempio i cartoni classici) e concedere solo occasionalmente la licenza per una trasmissione televisiva. La scarsa disponibilità accresce il valore sia delle uscite di anniversario in Home Video, sia dei pochi passaggi televisivi, sia infine delle riedizioni distribuite in sala. Ogni volta che era possibile vedere ufficialmente Cenerentola o Biancaneve poteva così essere un evento. Quello del forziere Disney è però un caso in cui è lo studio a limitare i propri titoli di maggior pregio, con la promessa di un loro ritorno nel futuro. La rimozione dalle piattaforme di streaming riguarda invece produzioni dallo scarso successo ed è difficile immaginare che possa esserci una convenienza in futuro a reimmetterle nel mercato in qualche maniera.
Come molto di quello che avviene negli studios, anche la decisione di rimuovere alcuni titoli non viene presa in collaborazione con i creatori, che di regola non hanno voce in capitolo e anche quando sono produttori cedono tutti i diritti di messa online e conservazione alle piattaforme. Molti raccontano di essere venuti a sapere dai principali siti di informazione della rimozione di un film o una serie a cui avevano lavorato o che avevano creato. Hollywood Reporter ha parlato per esempio con Eliza Skinner, che nel 2020 aveva creato e scritto la serie Terra chiama Ned per Disney+ e ha scoperto dai giornali della rimozione.
Una simile sistematica rimozione di contenuti, a detta di molti osservatori, rompe un patto di fiducia che oggi esiste tra chi crea e chi distribuisce. Se già sempre di più sceneggiatori e registi nutrono dubbi sull’opportunità di vendere il loro lavoro a una piattaforma all’interno della quale facilmente questo potrebbe perdersi, o che non per forza lo valorizzerà come invece tende solitamente a fare uno studio tradizionale con una distribuzione cinematografica, la prospettiva di una rimozione dagli archivi di quello che hanno fatto potrebbe allontanarli ancora di più.
Un’inchiesta dell’Hollywood Reporter aveva fatto emergere già mesi fa come Amazon Prime Video fosse la terza o quarta scelta dei produttori o creatori di contenuti al momento di vendere o proporre una serie o un film, e questo nonostante l’incredibile disponibilità di denaro della piattaforma e la sua propensione a metterlo a disposizione. Questo avviene proprio perché c’è grande incertezza sulla vita futura delle produzioni una volta terminata la loro immediata redditività, anche in caso di successo. Non esiste un sistema di vendita o repliche come con la televisione tradizionale, né come detto c’è necessariamente un mercato home video.
Oggi di fatto l’unica forma di archivio affidabile è costituita dalla pirateria informatica. Nonostante sia un circuito di distribuzione illegale, la capacità capillare di rendere disponibili quasi tutte le produzioni dei principali paesi del mondo fa sì che nulla di quello che è stato disponibile sulle piattaforme di streaming possa dirsi mai perduto completamente.