Voltiamo decisamente pagina
È in libreria da oggi il nuovo numero di Cose spiegate bene, che si occupa di giornali e giornalismo
Esce oggi in libreria il settimo numero di Cose spiegate bene, la rivista del Post dedicata a temi singoli da raccontare o spiegare approfonditamente. Il titolo è Voltiamo decisamente pagina, e l’argomento affrontato è il funzionamento del giornalismo e dei giornali, e cosa è accaduto loro negli ultimi travolgenti 25 anni: da quando cioè le notizie, e i lettori, si sono spostate decisamente su Internet. Le illustrazioni di questo numero sono di Bianca Bagnarelli, e i contributi di Annalena Benini, Michela Murgia, Mario Tedeschini Lalli e Carlo Verdelli.
Oltre che nelle librerie, dove speriamo anche di incontrarvi nelle presentazioni dei prossimi mesi, il nuovo numero di Cose può essere acquistato online sul sito del Post (con spedizione gratuita) e nelle librerie online di Amazon, Bookdealer, Feltrinelli e IBS. Questa è l’introduzione a Voltiamo decisamente pagina scritta dal peraltro direttore del Post Luca Sofri (che giovedì, dalle 18:30, presenterà il nuovo numero di Cose in diretta sul sito del Post con Francesco Costa).
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Un vecchio modo di dire del giornalismo predica che una notizia sia «uomo morde cane» e non lo sia invece «cane morde uomo». Ma non è vero: le notizie possono essere tali per la loro eccezionalità imprevista, ma lo sono altrettanto in molti casi in cui confermano un fenomeno, una storia, una questione eterna che si può approfondire e spiegare. Le storie che si sceglie di raccontare possono essere storie puntuali che raccontano contesti e realtà più grandi, che fanno capire altro, oppure storie singolari e così straordinarie da essere avvincenti e interessanti di per sé.
Molte cose come queste restano le stesse, nel giornalismo e nei mezzi di informazione, mentre tantissime altre cambiano. Quando nel 2009 andai a registrare la testata del Post presso il Tribunale di Milano, come avevo scoperto che fosse opportuno fare per tutta una serie di ragioni legali e amministrative, l’impiegato allo sportello mi domandò una serie di informazioni e di dati e poi chiese:
– Periodicità?
–…
– Quotidiano, settimanale, mensile?
– … è un giornale online…
– E viene aggiornato ogni giorno? [sic]
– Be’, forse ogni ora, a volte anche più spesso… ma dipende…
Ci fu ancora qualche tentativo di capirsi, poi credo che convenimmo di indicare «quotidiano» e amen. Fu uno dei mille esempi dell’adattabilità spiccia italiana ai conflitti tra la rigidità delle troppe regole e la complessità del mondo, che internet ha ulteriormente arricchito.
Ma la storia dei giornali in questi trent’anni è questa: il tentativo di adattare le cose come erano state grossomodo stabilite e assorbite per secoli a un mondo divenuto tutto diverso, e in continua sovversione. E quelli che se la sono cavata meglio finora – ma ogni anno cambia tutto – sembra siano stati quelli che hanno saputo essere duttili e reattivi al cambiamento senza abbandonare alcuni principi fondamentali, soprattutto etici.
Questo numero di Cose spiegate bene non parla del Post: parla di tutto il resto, ma il Post è stato un eccezionale punto di osservazione per tenere d’occhio tutto il resto. Per noi curiosi dei meccanismi dell’informazione è stato come per certe avventurose zoologhe andare a vivere tra i gorilla. Abbiamo imparato un sacco di cose sul giornalismo contemporaneo che da diversi anni cerchiamo di condividere: nelle frequenti rassegne stampa che facciamo in giro, nella newsletter Charlie che mandiamo ogni domenica, nel podcast quotidiano Morning, sul Post stesso, e ora in queste pagine. In cui proviamo a raccontare cosa sia successo in questi anni e cosa sta cambiando, ma anche alcune cose eterne.
Una di queste, che si dice poco, è che in generale – buono o cattivo che sia – il giornalismo è un grande inganno, per definizione. Anche se ci riferiamo alle sue applicazioni più corrette e affidabili, stiamo sempre parlando di una grande e condivisa finzione che ammette che sia possibile ridurre a sintesi, semplificazione, e spietata selezione una cosa che è invece fatta di enorme complessità, e di dettagli essenziali, e di variabili, e di incidenti, e di accessori, e di contesti diversi come è la realtà. Nessun buon lavoro giornalistico può riprodurla o rappresentarla in maniera non solo fedele, ma neanche vicina. Per ben fatto che sia, sono molte più le cose che trascura, tace, esclude, di quelle che dice, mostra e spiega. Il giornalismo è di solito una persona che racconta una cosa.
Ed è una consapevolezza utile da avere per decidere che il buon giornalismo non oppone verità e completezza – irraggiungibili – a quello cattivo delle notizie false, infondate e trascurate. Gli oppone correttezza, accuratezza, buona fede, verifiche; gli oppone un metodo, e si valuta non per la quantità di cose vere che dice, ma per la quantità di cose false che non dice. È un pensiero che sta dentro a quello generale per cui le cose fatte meglio sono quelle in cui si osservano regole e attenzioni sbagliando meno possibile, piuttosto che quelle in cui si cerca il colpo fenomenale, il gesto d’artista.
Perché la quota di inganno nel racconto giornalistico deve mantenersi dentro un limite dato, rinunciando a tutto quello che lo supera.
Quando al giornalista del Washington Post David Broder diedero il premio Pulitzer, nel 1973, spiegò che «il giornale che arriva sulla tua porta di casa è una interpretazione parziale, frettolosa, incompleta, inevitabilmente difettosa e inaccurata di alcune delle cose che abbiamo sentito nelle passate 24 ore: distorte, nonostante i nostri migliori sforzi di eliminare i più rozzi pregiudizi, da un processo di sintesi che è quello che ti consente di raccoglierlo dalla porta di casa e di leggerlo nel giro di un’ora. È il meglio che abbiamo potuto fare in quelle circostanze, e torneremo domani con un’edizione corretta e aggiornata».
È passato mezzo secolo, «domani» è diventato tra cinque minuti, e tante altre circostanze sono cambiate, ma il buon giornalismo continua a cercare di fare del proprio meglio, e avere molta paura di sbagliare.