Gli accordi di Oslo, 30 anni fa
Sono considerati i più importanti negoziati nel Secondo dopoguerra: per la prima volta Israele e Palestina si riconoscevano come legittimi interlocutori
La foto che ritrae Yitzhak Rabin e Yasser Arafat mentre si stringono la mano nel cortile della Casa Bianca, scattata il 13 settembre del 1993, esattamente trent’anni fa, è forse una delle più famose degli ultimi decenni. Rabin era il primo ministro israeliano, Laburista, e Yasser Arafat era il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), un’associazione fondata all’interno della Lega Araba che aveva come obiettivo l’emancipazione del popolo palestinese e che ora è il gruppo a cui fa riferimento il presidente palestinese Mahmoud Abbas.
Era la prima volta che i due paesi si riconoscevano come legittimi interlocutori ed era la prima volta che i due leader si stringevano la mano in pubblico dopo la firma degli accordi di Oslo, avvenuta qualche settimana prima: quegli accordi avrebbero dovuto avviare un processo che avrebbe messo fine al conflitto tra israeliani e palestinesi, che durava da più di 40 anni. Non è stato così, ma quella foto, e quel tentativo, hanno comunque lasciato una traccia nella storia dei rapporti fra i due paesi.
Israele occupava militarmente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza dalla fine della Guerra dei Sei Giorni, cioè dal 1967. Fra il 1987 e il 1991, dopo più di vent’anni di occupazione israeliana, i palestinesi furono impegnati in una serie di rivolte popolari chiamate intifada (“rivolta”, in arabo). L’occupazione era diventata molto impopolare agli occhi dell’opinione pubblica israeliana, che premeva per un disimpegno militare e per la pace.
Il processo che portò alla stretta di mano nel cortile della Casa Bianca davanti all’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton fu lungo e complicato. Per quanto la firma definitiva sugli accordi avvenne davanti a un presidente americano, i primi incontri tra i delegati palestinesi e quelli israeliani furono senza la mediazione degli Stati Uniti. Cominciarono spontaneamente e la Norvegia offrì il suo territorio per ospitare le trattative. I delegati si incontrarono in una casa circondata da un bosco fuori da Oslo. Ci furono 14 sessioni di negoziati ufficiali tra il 1992 e il 1993. I delegati vivevano nello stesso luogo, quindi accanto agli incontri ufficiali ci furono anche moltissime discussioni e incontri informali.
Al termine di questi incontri, i negoziatori scrissero la Dichiarazione dei principi, che venne sottoposta e accettata dal governo israeliano e dai capi dell’OLP.
Il 13 settembre del 1993, durante la cerimonia per il festeggiamento dell’accordo, il ministro degli Esteri israeliano, Shimon Peres, disse rivolto ai palestinesi: «Siamo sinceri. Vogliamo fare sul serio. Non vogliamo interferire con le vostre vite o determinare la vostra sorte. Trasformiamo i nostri proiettili in schede elettorali, le pistole in badili». Peres assieme a Rabin e Arafat ricevette il Nobel per la pace nel 1994.
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Con gli accordi di Oslo per la prima volta gli israeliani riconobbero nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina l’interlocutore ufficiale che parlava per il popolo palestinese e le riconobbero il diritto di governare su alcuni dei territori occupati. L’OLP da parte sua riconobbe il diritto di Israele a esistere e rinunciò formalmente alla lotta armata per la creazione di uno stato palestinese.
Questi riconoscimenti reciproci erano una novità assoluta nei rapporti tra Israele e Palestina, ma l’accordo conteneva anche un piano specifico per mettere in atto una soluzione definitiva. Israele prometteva di ritirarsi da Gaza e dall’area di Gerico, in Cisgiordania. E prometteva che nei cinque anni successivi si sarebbe ritirata da altri territori occupati militarmente. Secondo gli accordi, in questi territori si sarebbe insediato un governo palestinese eletto localmente, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Oslo eliminò dunque dal tavolo delle trattative, almeno per un certo periodo, le possibilità di soluzioni “massimaliste” del “Grande Israele” e della “Grande Palestina”, stati che sarebbero dovuti andare dal fiume Giordano al mare e che al loro interno non avrebbero previsto spazio per i membri dell’altro popolo. La soluzione contemplata prevedeva cioè due stati per due popoli.
Come scrissero molti commentatori, gli accordi prevedevano da parte dei palestinesi una serie di difficili concessioni immediate (il riconoscimento di Israele e la rinuncia alla violenza), mentre gli israeliani avrebbero dovuto fare le concessioni difficili più avanti (completare il ritiro delle truppe dal resto dei territori occupati). Quasi tutte le questioni più complicate non furono discusse durante i negoziati e vennero rimandate alle riunioni successive: come lo status giuridico di Gerusalemme, che entrambi i paesi rivendicavano come propria capitale, e il destino degli insediamenti dei coloni ebraici in Cisgiordania, territorio che la stragrande maggioranza della comunità internazionale ritiene appartenga ai palestinesi.
Nel 1995 Rabin e Arafat firmarono un’altra serie di accordi, Oslo II, che garantivano all’OLP il governo di numerose città e villaggi a Gaza e nella Cisgiordania, dopo che nel luglio del 1994 Israele aveva cominciato a ritirare l’esercito da alcuni dei territori occupati. Ma lo scetticismo nei confronti degli accordi stava già crescendo da entrambe le parti.
In Israele subito dopo gli accordi ci fu un voto di fiducia al governo che terminò con uno scarto di una manciata di voti. Israele non fermò la sua politica degli insediamenti in Cisgiordania causando frustrazione tra i palestinesi. L’episodio che viene spesso indicato come decisivo per la destabilizzazione della fiducia dei palestinesi nel processo di pace avvenne però in seguito, nel febbraio del 1994, quando Baruch Goldstein, medico e ex militare israeliano della colonia di Kiryat Arba, entrò nella moschea di Hebron e uccise decine di palestinesi: la repressione dell’esercito contro i palestinesi che protestarono per il massacro fu durissima.
Dall’altra parte Arafat e l’OLP erano criticati per non avere il controllo su tutti i gruppi militari che continuavano a combattere per la liberazione della Palestina e che erano contro gli accordi. L’OLP venne anzi accusata di essere loro complice. Il 4 novembre del 1995 Rabin tenne un comizio in piazza a Tel Aviv in cui parlò in modo generico del progetto di pace, ma ancora una volta lasciò in sospeso quale prezzo fosse disposto a pagare Israele per raggiungerlo. Queste sue aperture avevano già da tempo attirato molte critiche in particolare da parte del principale partito di destra, il Likud, che era molto contrario. Quel giorno Yigal Amir, un colono ebreo nascosto tra la folla, sparò a Rabin due colpi di pistola, uccidendolo. Secondo alcuni fu la morte violenta di Rabin a interrompere definitivamente gli accordi.
Nel 1996 il Likud vinse le elezioni e Benjamin Netanyahu divenne primo ministro a capo di una coalizione di destra nazionalista e religiosa (lo è ancora oggi). Netanyahu aveva più volte pubblicamente definito gli accordi di Oslo un errore e durante i suoi governi non ha mai fatto sforzi per metterli in pratica. Negli ultimi decenni sono falliti tutti gli altri incontri che avrebbero dovuto risolvere le questioni lasciate in sospeso da quegli accordi.
Tra i principali motivi di questo fallimento c’è il fatto che la politica coloniale di Israele non si è mai fermata. Lo scorso giugno l’ultimo governo guidato da Benjamin Netanyahu ha annunciato la costruzione di 5.700 nuove case per coloni in Cisgiordania portando così il numero di insediamenti progettati quest’anno a superare i 13mila. Il record era di 12.159 nuove case per coloni nel 2020. La decisione è stata criticata dalla comunità internazionale, poiché rende sempre più difficile il raggiungimento di una pace.