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  • Martedì 12 settembre 2023

La discussa richiesta di assoluzione per un uomo bengalese accusato di aver maltrattato la moglie

Secondo il magistrato della procura di Brescia va considerata la disparità tra uomo e donna nella cultura del Bangladesh

tribunale brescia
Il tribunale di Brescia (AP Photo/Luca Bruno)

Un magistrato della procura di Brescia ha chiesto l’assoluzione nei confronti di un uomo originario del Bangladesh, accusato dall’ex moglie di maltrattamenti nel periodo in cui erano sposati. La richiesta di assoluzione è piuttosto discussa per via delle motivazioni date dal magistrato, secondo cui il comportamento dell’uomo era dovuto al contesto culturale in cui era nato il rapporto: secondo il magistrato i maltrattamenti dei mariti nei confronti delle mogli fanno parte della cultura del paese, così come la disparità tra uomo e donna, e questo imporrebbe un giudizio diverso sui fatti da quello abitualmente condiviso.

La donna, che oggi ha 27 anni e ha due figlie, denunciò l’ex marito nel 2019. Alle forze dell’ordine spiegò di essere in Italia da quando aveva 4 anni e di essere stata costretta a sposare l’uomo, un cugino, dopo la morte del padre. «I miei zii mi hanno costretta a sposare un mio cugino al quale sono stata “venduta” per 5.000 euro», ha detto la donna al Giornale di Brescia. «Io avevo 17 anni, studiavo alle superiori, ma il mio oppormi non è servito a nulla. Hanno deciso gli altri per me». La donna racconta che il marito la costringeva a stare chiusa in casa e che era obbligata a indossare abiti coprenti secondo le abitudini islamiche. Quando provava a opporsi riceveva urla, insulti, minacce. «Mi ha costretta a sottostare alla condizione di schiava per anni», ha detto.

Al termine delle indagini la procura chiese l’archiviazione del caso, ma il giudice per le indagini preliminari si oppose ordinando l’imputazione coatta: un atto con cui il gip dispone che la procura chieda il rinvio a giudizio per gli indagati, quindi l’inizio del dibattimento oppure riti alternativi come il patteggiamento. Una richiesta di assoluzione da parte della procura in seguito a un’imputazione coatta, come accaduto in questo caso, è una circostanza piuttosto rara.

Nella richiesta di assoluzione presentata dal magistrato si legge che i maltrattamenti e la restrizione della libertà sono «il frutto di un impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura».

Il magistrato sostiene che la donna avesse accettato questo tipo di cultura sposando l’uomo: «Le condotte dell’uomo sono maturate in un contesto culturale che sebbene inizialmente accettato dalla parte offesa si è rivelato per costei intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono e che l’ha condotta a interrompere il matrimonio. Per conformare la sua esistenza a canoni marcatamente occidentali, rifiutando il modo di vivere imposto dalle tradizioni del popolo bengalese e delle quali, invece, l’imputato si è fatto fieramente latore [portatore, ndr]». La conclusione del processo è prevista a ottobre.

La procura di Brescia ha diffuso una nota per dissociarsi dalle motivazioni scritte dal magistrato nella richiesta di assoluzione. La procura, si legge, «ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento ‘culturale’, nei confronti delle donne».

Lunedì molti politici, di tutti gli orientamenti, hanno criticato la richiesta di assoluzione fatta dal magistrato. Riccardo De Corato, deputato di Fratelli d’Italia, ha chiesto al ministro della Giustizia Carlo Nordio un’ispezione urgente in procura a Brescia.

Paola Di Nicola Travaglini, giudice penale e consigliera della Corte di Cassazione, ha scritto in un commento sulla Stampa che la produzione giuridica è una produzione culturale e che una sentenza non si limita a stabilire la regola del caso concreto, dando torto o ragione, ma delinea anche qual è l’ordine sociale ritenuto legittimo in nome dello stato. «Se schiaffi e umiliazioni sono tradotti come liti familiari, l’atto linguistico consente di ritenere, in nome dello Stato, che nel contesto di coppia o domestico siano una modalità ordinaria di gestione dei conflitti tanto da legittimarli e renderli impuniti», ha scritto Di Nicola Travaglini. «Questo al di là dell’intenzione di chi interpreta e decide. Se quegli schiaffi li sferra un uomo ad una donna, in nome dello Stato viene consentita la violenza di genere, nonostante vietata e punita. Le leggi senza gli interpreti sono lettera morta. Gli effetti di un linguaggio che non descrive il fatto, ma lo deforma e lo omette in base a stereotipi interiorizzati ed invisibili produce effetti devastanti: non applica le ottime leggi che abbiamo, normalizza la violenza, ne svaluta gli oggettivi fattori di rischio che avrebbero consentito di fermarla, colpevolizza le vittime per essersela cercata».

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