La battaglia di Nan Goldin
Compie 70 anni la celebre fotografa statunitense impegnata da anni nella denuncia della famiglia responsabile della crisi degli oppioidi
Nan Goldin, fotografa statunitense che compie oggi 70 anni, è stata nella sua vita molte cose, ma di recente soprattutto ha fatto parlare di sé per essere stata una delle critiche più tenaci della “crisi degli oppioidi”, l’emergenza sanitaria che negli ultimi anni ha causato la morte di centinaia di migliaia di persone negli Stati Uniti. La stessa Goldin ha sofferto in prima persona per la dipendenza dal farmaco oppioide OxyContin, motivo per cui negli ultimi tempi ha guidato una serie di azioni di protesta dirette a denunciare e screditare la potente famiglia Sackler, quella che controlla la Purdue Pharma, l’azienda farmaceutica che lo produce.
Come mostra il documentario Tutta la bellezza e il dolore (All the Beauty and the Bloodshed), premiato con il Leone d’Oro alla 79ª Mostra del cinema di Venezia nel 2022, Goldin lo ha fatto proprio a partire dai musei e dalle gallerie d’arte: le stesse istituzioni che esponevano le sue opere, e che al contempo ricevevano cospicue donazioni dai Sackler. Ha rischiato così di compromettere la sua carriera, ma è riuscita a ottenere attenzioni, apprezzamenti e anche qualche risultato.
Nancy Goldin nacque il 12 settembre del 1953 a Washington D.C. da genitori ebrei della classe media americana. Passò l’infanzia in un sobborgo del Maryland e poi in un quartiere della periferia di Boston, che nel documentario descrive come «claustrofobico». A 11 anni fu profondamente segnata dal suicidio della sorella maggiore Barbara, con cui aveva un rapporto molto stretto. Attorno ai 14 anni lasciò la casa dei genitori e andò a vivere da diverse famiglie in affido, per poi finire in una scuola hippy che a suo dire «le salvò la vita». Fu lì che conobbe David Armstrong, un ragazzo omosessuale che divenne il suo più caro amico, colui che la introdusse nella comunità gay e queer della zona e le diede il soprannome “Nan”.
Goldin si trasferì assieme ad Armstrong e al suo compagno prima a Cambridge e poi a Provincetown, sempre fuori Boston, dove cominciò a frequentare una scuola di fotografia e a fare la barista in un locale per lesbiche. Fu in questo periodo che cominciò a scattare le sue prime fotografie, che ritraevano lei e i suoi amici in azioni quotidiane e intime, ma anche in contesti di disagio ed emarginazione. Goldin descrive i primi anni Settanta come «un periodo di libertà e possibilità»: allestì così i suoi primi “slideshow”, cioè spettacoli basati sulla proiezione delle sue fotografie, organizzate ogni volta in un ordine diverso e accompagnate da musica sempre nuova. Nel 1978 si trasferì a New York per continuare a dedicarsi alla fotografia.
Goldin, bisessuale, viveva in un appartamento con parecchie altre persone – artisti, registi, persone della comunità gay – in cui girava molta droga, dalla cocaina allo speed. Per comprare le pellicole fotografiche lavorò sia come ballerina in uno strip club del New Jersey sia in un bordello. Quando ne uscì, venne assunta come barista al Tin Pan Alley, un bar frequentato da ex prostitute, artisti e anarchici, ma anche giornalisti e impiegati. I galleristi a cui si rivolgeva per presentare i suoi lavori mostravano molte resistenze perché il suo stile era considerato troppo radicale e trasgressivo, ma poi riuscì a emergere.
Il suo primo grande successo arrivò nel 1985 con “The Ballad of Sexual Dependency”, uno slideshow di centinaia di fotografie in cui si vedevano lei e i suoi amici, in gran parte tossicodipendenti, fare sesso, mangiare, ballare, drogarsi, uscire insieme o soffrire le conseguenze dell’AIDS, una malattia che a New York aveva cominciato a riguardare sempre più persone. Le fotografie di Goldin erano spesso sfocate, poco illuminate e composte in modo apparentemente casuale, ma soprattutto crude e impressionanti: una delle più note era “Autoritratto un mese dopo essere stata picchiata”, che mostra proprio la fotografa con gli occhi neri e gonfi, dopo essere stata presa a pugni in faccia dal compagno.
Negli anni successivi i suoi problemi con le droghe peggiorarono. Al contempo si isolò progressivamente dagli amici. Nel 1988 andò per la prima volta in una clinica per disintossicarsi, e quando ne uscì si rese conto che la gran parte delle persone con cui aveva trascorso l’ultimo decennio era morta o stava morendo per overdose o a causa dell’AIDS. In questo periodo Goldin si unì al movimento di sensibilizzazione per diffondere consapevolezza rispetto all’HIV e alla malattia. Dedicò anche una mostra al tema.
Nel frattempo continuò ad affermarsi e a ricevere apprezzamenti per il suo lavoro. A The Ballad of Sexual Dependency, che nel 1986 era stato trasformato in un libro, seguirono altri spettacoli e pubblicazioni. Le sue fotografie e i suoi slideshow, continuamente aggiornati, cominciarono a essere messi in mostra in alcuni dei musei più famosi del mondo, dalla Tate di Londra al Guggenheim di New York.
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I problemi di Goldin con le droghe ricominciarono nel 2014, quando le venne prescritto l’OxyContin in occasione di un intervento chirurgico mentre viveva a Berlino.
Gli oppioidi sono farmaci usati principalmente per la gestione del dolore. La loro grande diffusione risale agli anni Novanta, quando la Purdue Pharma mise sul mercato l’ossicodone, commercializzato appunto come OxyContin. In particolare, l’azienda avviò una campagna di marketing molto aggressiva e truffaldina per convincere i medici a prescriverlo, sostenendo che non creasse dipendenza. I medici abusarono delle prescrizioni di ossicodone, e in moltissimi casi i pazienti cominciarono a prolungarne l’assunzione anche oltre i termini raccomandati, sviluppando gravi problemi di dipendenza. Sul mercato arrivarono così alternative ancora più pericolose, come il fentanyl, il più forte farmaco oppioide in commercio, considerato cento volte più potente della morfina.
In un articolo pubblicato sulla rivista Artforum nel gennaio del 2018 Goldin scrisse di essere «sopravvissuta alla crisi degli oppioidi» e di avercela fatta «per un pelo». Pur avendo seguito le indicazioni del medico, diventò dipendente nel giro di una notte, racconta nel documentario: passò da 3 compresse al giorno a 18, e tutte le sue giornate cominciarono a girare esclusivamente attorno a come «procurarsi e assumere l’Oxy». A un certo punto, quando non riuscì più a procurarselo per vie legali, andò in overdose e rischiò di morire per aver sniffato quello che credeva fosse ossicodone e in realtà era proprio fentanyl.
Dopo essersi ripresa, si rese conto che la principale responsabile dell’epidemia era la famiglia Sackler, che fino a quel momento lei aveva conosciuto solo per le consistenti donazioni che i suoi membri erano soliti elargire a musei, gallerie e università. Così nel 2017 Goldin fondò il gruppo Prescription Addiction Intervention Now (P.A.I.N.), che si può tradurre un po’ liberamente come “Interveniamo sulle prescrizioni mediche contro le dipendenze adesso” e il cui acronimo compone la parola inglese che significa dolore. L’obiettivo del movimento era che i membri della famiglia fossero riconosciuti responsabili di aver prodotto, pubblicizzato e distribuito l’OxyContin attraverso la Purdue Pharma e, in ultima istanza, di aver provocato la morte di centinaia di migliaia di persone.
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A detta di Goldin i Sackler avevano «riciclato i loro soldi sporchi di sangue nei musei e nelle università di tutto il mondo». Ma siccome fino a quel momento né il Congresso degli Stati Uniti né il dipartimento di Giustizia avevano dimostrato le loro responsabilità, Goldin decise di provare a farlo attraverso una serie di contestazioni nei musei che avevano finanziato, rischiando insomma di mettersi contro lo stesso mondo dell’arte di cui lei stessa faceva parte.
La prima protesta contro i Sackler, quella con cui peraltro comincia Tutta la bellezza e il dolore, fu organizzata il 10 marzo del 2018 al Met, davanti al Tempio di Dendur, che si trova in una parte dell’edificio denominata “ala Sackler”. Goldin e gli altri partecipanti cominciarono a intonare il coro “Sacklers lie, thousands die” (i Sackler mentono, e a migliaia muoiono) e a gettare boccette di medicinali vuote nella piscina attorno al complesso monumentale. Dopo essere stati minacciati dalle guardie di sicurezza, alcuni manifestanti si sdraiarono a terra, come per fingersi morti; altri continuarono a gridare.
Altre proteste con modalità simili vennero organizzate all’Università di Harvard, al Louvre e al museo Guggenheim di New York, tutte istituzioni che avevano beneficiato di donazioni dai Sackler. In quest’ultimo caso i manifestanti lanciarono dai vari piani del Guggenheim centinaia di finte ricette mediche ed esposero striscioni che indicavano le centinaia di migliaia di persone morte a causa dell’assunzione dell’ossicodone. La protesta si spostò poi al Met, uno dei musei più importanti degli Stati Uniti.
«La mia rabbia nei loro confronti è personale», dice Goldin nel documentario. «Li odio. Ma non è solo una questione della mia dipendenza e basta». A suo dire tutti i musei e le istituzioni del mondo dovevano «smettere di accettare soldi da quei bastardi malvagi e corrotti».
Inizialmente la maggior parte dei musei coinvolti non disse niente o continuò a difendere i Sackler in virtù delle loro donazioni. Le rivendicazioni del movimento P.A.I.N. però finirono sui giornali, e lentamente le cose cominciarono a cambiare. Nel 2019 la National Portrait Gallery di Londra fu la prima a rifiutare una donazione da 1,3 milioni di dollari da parte dei Sackler citando le critiche relative alle accuse contro Purdue Pharma per la commercializzazione dell’OxyContin. Nel giro di poco tempo fecero lo stesso anche la Tate, il Guggenheim e il Met, in quello che un’attivista del gruppo intervistata nel documentario ha definito un «effetto domino».
Nel settembre del 2019 la Purdue Pharma dichiarò bancarotta, come previsto dall’accordo che aveva raggiunto con oltre 2mila tra città, contee e altri denuncianti statunitensi per chiudere alcune migliaia di cause relative all’OxyContin che erano in corso negli Stati Uniti. L’accordo prevedeva anche che la società pagasse tra i 10 e i 12 miliardi di dollari ai querelanti e che la famiglia Sackler cedesse il controllo di Purdue Pharma. Nel novembre dell’anno successivo l’azienda si dichiarò colpevole delle accuse a suo carico rispetto alla crisi sanitaria da dipendenza da oppioidi.
Nell’ambito dell’accordo con le procure coinvolte nel caso, i membri della famiglia Sackler hanno ottenuto l’immunità da eventuali cause future, eppure gli attivisti sperano che le cose possano cambiare. Intanto «l’unico posto in cui possono essere considerati responsabili è questo», ha detto Goldin riferendosi ai musei, e «noi siamo riusciti a farlo succedere». Cinque anni dopo la prima protesta di P.A.I.N., il nome dei Sackler è stato rimosso dagli edifici di una ventina di istituzioni, musei e gallerie che in precedenza erano state finanziate da loro, tra cui appunto il Met, il British Museum, il Louvre, l’Università di Yale e il Guggenheim di New York. Come mostrano anche gli apprezzamenti per il documentario, che è stato nominato agli Oscar nel 2023, la reputazione di Goldin come artista non sembra aver risentito del suo attivismo, anzi.
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