La prima lingua davvero franca del mondo: le emoji
Diversi studi le descrivono come un modo di supplire a tratti essenziali del linguaggio mancanti nella comunicazione a distanza
A giugno un giudice della provincia canadese del Saskatchewan, chiamato a pronunciarsi su una controversia tra un agricoltore e una cooperativa di cereali, ha stabilito che una emoji del pollice in alto che l’agricoltore aveva utilizzato in una conversazione via smartphone con un dipendente della cooperativa, in risposta alla foto di un contratto, costituiva un impegno a rispettare i termini dell’accordo. E ha ordinato all’agricoltore di pagare alla cooperativa un risarcimento di circa 56mila euro.
Al netto delle circostanze particolari che l’hanno resa possibile, la sentenza è stata interpretata da diversi media come un segno della ormai consolidata presenza delle emoji nella comunicazione quotidiana. «Questa corte riconosce senza difficoltà che un’emoji 👍 non sia un mezzo tradizionale per “firmare” un documento, ma ciononostante, in queste circostanze, era un modo valido per comunicare i due scopi di una “firma”», ha scritto il giudice.
Esistono oltre 3.500 emoji nell’elenco curato dall’Unicode Consortium, l’organizzazione senza scopo di lucro fondata nel 1988 che si occupa di mantenere un sistema comune per la scrittura dei caratteri sui sistemi informatici. Da quando nel 2011 furono inserite da Apple nella tastiera virtuale degli iPhone e degli iPad, e poi da altre aziende in altri sistemi operativi e piattaforme, le emoji – l’attribuzione del genere femminile in italiano è prevalente – sono state utilizzate da un numero sempre crescente di persone in svariati contesti comunicativi. E il loro successo è aumentato costantemente, inducendo l’Unicode Consortium a riunirsi con regolarità per l’approvazione di nuove emoji. Nel 2015 il gruppo che gestisce l’Oxford English Dictionary scelse l’emoji “😂” come parola dell’anno.
Il fatto che le persone utilizzino questi simboli grafici nelle loro routine quotidiane, in diverse parti del mondo e da diversi anni, ha permesso di studiarli meglio e approfondire il ruolo che hanno acquisito nelle interazioni a distanza, e in che rapporto stiano con altri segni. Diverse riflessioni e studi di linguistica e neuroscienze hanno di recente fornito argomenti a sostegno dell’ipotesi che le emoji abbiano molto in comune con le funzioni del linguaggio e ne riflettano in parte una certa elasticità costitutiva. E hanno suggerito che siano diventate la cosa più vicina a una lingua franca nel mondo: un elemento in grado di aggiungere valore emotivo ai linguaggi esistenti, senza necessariamente impoverirli.
La parola emoji deriva dal giapponese (絵文字) ed è composta da due parole che significano “immagine” (e) e “lettera” (moji). Non ha quindi legami etimologici diretti con l’emotività, diversamente dalla parola emoticon, a cui viene spesso associata e che è formata dalle parole inglesi “emozione” (emotion) e “icona” (icon). L’invenzione delle emoticon – la riproduzione di espressioni facciali tramite la combinazione di caratteri testuali – è spesso attribuita a Scott Fahlman, un informatico della Carnegie Mellon University in Pennsylvania.
Nel 1982, dopo aver notato che sulle prime bacheche online dell’università era facile non cogliere il sarcasmo, per evitare che si creassero malintesi Fahlman suggerì a colleghi e colleghe di aggiungere alle frasi un “:-)” o “:-(” per esplicitare il tono del messaggio. Le emoji, rese possibili dal progressivo miglioramento delle interfacce grafiche, ebbero uno sviluppo diverso. Un gruppo di grafici di una società di telefonia giapponese, guidato dal grafico Shigetaka Kurita, creò nel 1999 una prima raccolta di 176 emoji, la maggior parte delle quali non era stata pensata per comunicare stati d’animo o sensazioni. Erano perlopiù simboli di oggetti di uso quotidiano che le persone avrebbero potuto utilizzare in qualche caso al posto delle parole.
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Un approccio comune alle prime ricerche scientifiche sulle emoticon, poi ripreso in studi più recenti sulle emoji, si basò sull’utilizzo di strumenti diagnostici di neuroimaging, tra cui la Risonanza Magnetica Funzionale (o fMRI), un tipo di risonanza magnetica che permette di rilevare quali aree del cervello si attivano durante l’esecuzione di determinati compiti. Nel 2006 un gruppo di ricerca dell’Università Tokyo Denki cercò di capire se il cervello interpreta le rappresentazioni simboliche astratte dei volti tramite emoticon come immagini fotografiche di volti felici e tristi.
I risultati della ricerca mostrarono l’attivazione nel cervello di un’area associata al riconoscimento dei volti quando i partecipanti sottoposti a fMRI osservavano le fotografie, ma non quando osservavano le emoticon. In quel caso l’area attivata era quella che si ritiene sia maggiormente coinvolta quando occorre decidere se un determinato stimolo emotivo è positivo o negativo. Uno studio condotto dallo stesso gruppo nel 2011 confermò ed estese quei risultati, indicando che rispetto alla sola lettura del testo scritto la visione delle emoticon alla fine di una frase rendeva più attive le aree del cervello coinvolte nei processi sia verbali che non verbali.
Il lavoro di ricerca dell’Università Tokyo Denki fu uno dei primi a suggerire che le emoticon non abbiano un contenuto semantico chiaro e definito, a differenza di altre parti della frase. Non richiedono quindi né i processi coinvolti nel riconoscimento di un volto né soltanto quelli relativi alla decodificazione di un messaggio in un determinato codice linguistico o non linguistico: sono piuttosto «un mezzo di comunicazione verbale e non verbale caratterizzato da una semplice forma di potenziamento emotivo», conclusero gli autori.
La diffusione crescente delle emoji ampliò gli obiettivi delle precedenti ricerche sulle emoticon e offrì maggiori possibilità di studiare le varie sfumature di significato che questi segni grafici assumono nell’integrazione con il linguaggio. Una delle domande a cui alcuni studi cercano di dare risposta è se le emoji abbiano oppure no la stessa funzione delle parole quando devono veicolare ironia, e cioè esprimere l’opposto di ciò che si intende.
In uno studio pubblicato nel 2018 sulla rivista PLOS One due linguisti della University of Illinois, Benjamin Weissman e Darren Tanner, registrarono l’attività cerebrale dei partecipanti mentre leggevano delle frasi che si concludevano o con una emoji sorridente, o con una triste o con quella che strizza l’occhiolino. Confrontando i risultati con quelli di un loro precedente studio, conclusero che l’ironia veicolata dalle emoji suscitava la stessa risposta cerebrale dell’ironia veicolata attraverso le parole. E in mancanza di informazioni tratte da un contesto più ampio, in grado di influenzare l’interpretazione delle frasi, l’emoji dell’occhiolino fu quella maggiormente associata a un’interpretazione ironica e non letterale.
Parlando con la rivista scientifica Nautilus, Weissman ha citato un altro suo studio non ancora pubblicato, condotto con il ricercatore in scienze cognitive Neil Cohn presso l’Università di Tilburg, nei Paesi Bassi, che confermerebbe la corrispondenza tra il modo in cui il cervello reagisce alle emoji e il modo in cui reagisce alle parole. Lui e Cohn hanno replicato in sostanza lo studio del 2018, ma sottoponendo i partecipanti alla lettura di frasi in cui una parola o una emoji corrispondevano oppure no al significato atteso.
Her favorite animal is the monkey / Her favorite animal is the 🐒
Her favorite animal is the avocado / Her favorite animal is the 🥑
Quando gli elementi combinati nella frase erano incongruenti l’attività cerebrale dei partecipanti era simile sia nel caso in cui la frase si concludeva con una parola sia nel caso in cui si concludeva con un’emoji. Come spiegato da Weissman, nei processi cognitivi complessi il cervello integra ogni tipo di input che riceve – incluse le espressioni facciali e il tono di voce – per ricavare significati. E le emoji sono uno tra i vari input possibili, tanto più influenti e utili nei casi in cui la comunicazione a distanza non permette di cogliere espressioni facciali, aspetti prosodici e relativi alla prossemica (gli spazi interpersonali nelle interazioni sociali), e altre informazioni fondamentali per la comprensione del significato delle frasi.
Da una prospettiva simile a quella di Weissman e Cohn altre ricerche si concentrano sulla capacità delle emoji di caricare o scaricare di valore emotivo un determinato messaggio, a parità di parole utilizzate. E suggeriscono che il graduale passaggio a una comunicazione più basata sulla scrittura tramite dispositivi elettronici e meno sull’oralità abbia reso più complicata la comunicazione di sfumature e livelli di significato che nella comunicazione di persona sono veicolati dal tono e dal volume della voce, dalle espressioni facciali, dai gesti, dalla postura e dagli sguardi. «Quando le persone interagiscono, il 60-70 per cento del significato deriva da segni non verbali: gesti ed espressioni facciali», disse a Quartz nel 2016 il linguista e divulgatore inglese Vyvyan Evans.
In una certa misura è come se le emoji avessero colmato questa lacuna nelle comunicazioni a distanza. «Il modo in cui comunicavamo quando abbiamo iniziato a mandare SMS o email era come privo di qualcosa che le emoji sembrano riempire», ha detto a Nautilus la ricercatrice statunitense Valeria Pfeifer, studiosa di scienze cognitive al dipartimento di psicologia della University of Arizona. In uno studio sull’influenza delle emoji sulle dinamiche sociali, pubblicato nel 2022 e condotto con le colleghe di dipartimento Emma L. Armstrong e Vicky Tzuyin Lai, Pfeifer analizzò il diverso valore assunto dalle emoji felici e da quelle tristi e arrabbiate, utilizzate in testi emotivamente neutri.
I risultati mostrarono che tutte le emoji influenzavano l’elaborazione del testo. Ma mentre quelle felici trasmettevano in generale emozioni positive alla conversazione e favorivano la coesione sociale, quelle tristi e arrabbiate erano oggetto di maggiori attenzioni e di interpretazioni più approfondite. Tendenzialmente determinavano l’attribuzione di specifici stati mentali al mittente da parte del destinatario, ed erano più spesso causa di problemi di comunicazione, come del resto succede anche nelle interazioni di persona.
Secondo la ricercatrice australiana Lauren Gawne, una linguista conosciuta per i suoi studi sulla gestualità, le emoji non sono un segno né un fattore di impoverimento del linguaggio ma una sorta di sostituto naturale dei gesti. Come scrisse nel 2019 in un articolo su The Conversation, il modo in cui utilizziamo le emoji nei messaggi è simile al modo in cui utilizziamo i gesti quando parliamo. E ci sono molte più somiglianze tra emoji e gesti di quante ce ne siano tra emoji e grammatica.
Ci sono gesti ed emoji che possono avere un significato pieno anche in assenza di parole, tra cui il pollice in alto 👍, il segno OK 👌 e quello di buona fortuna 🤞. Ma ce ne sono altre prive di significati specifici, che utilizziamo insieme alle parole con significati diversi a seconda del contesto, come la torta con le candeline 🎂 o la fetta di torta 🍰 per augurare buon compleanno. E succede più o meno la stessa cosa, secondo Gawne, con determinati gesti illustrativi che possono indicare una particolare proprietà di un oggetto (per esempio quello che accompagna una frase del tipo «i chicchi di grandine erano grossi così»).
Le emoji hanno poi in comune con i gesti una certa tendenza alla ripetizione, che è invece rara – ma possibile – nel caso delle parole. In un’analisi condotta nel 2019 da Gawne e dalla linguista canadese Gretchen McCulloch su un insieme di dati tratti da Twitter le 200 sequenze di emoji più comuni erano per circa metà ripetizioni di emoji dello stesso tipo (“😂😂” o “😭😭😭”). E c’erano anche moltissime ripetizioni parziali, formate da due emoji di un tipo e una o due di un altro (“😍😍😘” e “😍😍😘😘”).
Esistono ovviamente differenze tra le conversazioni a distanza e quelle in presenza, concludeva Gawne: prima di tutto perché gesti e parole sono sincronizzate in un modo in cui emoji e testo non possono essere. E poi perché le possibilità con i gesti non hanno limiti se non quelli delle mani e del corpo nel farli, mentre le possibilità con le emoji sono limitate ai simboli codificati dall’Unicode Consortium.
Ma in contrasto con alcune riflessioni circolate negli anni scorsi, riguardo all’ipotesi che le emoji siano responsabili di un appiattimento della comunicazione, molte delle ricerche più recenti le descrivono come un segno dell’adattabilità del cervello umano a nuovi tipi di interazione. Il che non significa che siano un codice universale: persone diverse attribuiscono significati diversi alle emoji a seconda del contesto culturale e delle circostanze, e le stesse emozioni sono il risultato di un complesso insieme di fattori che coinvolgono la cultura, la lingua e il contesto.