Associamo molti animali al verso sbagliato, per colpa del cinema
Nei film i leoni ruggiscono solitamente come le tigri, per esempio, perché ormai fa parte delle aspettative del pubblico
Spesso si usa l’espressione “linguaggio del cinema” per fare riferimento a tutti i mezzi convenzionali che chi fa film utilizza per fare il suo lavoro, che riguardi la regia, la sceneggiatura, i costumi o altro. Ed è noto quanto quel linguaggio sia, in misura variabile a seconda del film, irrealistico: perché lo sono i dialoghi, i personaggi, gli effetti speciali e gli sviluppi delle trame di cui è composto. È invece meno noto che anche i versi degli animali siano parte di quel linguaggio, e che ad alcuni degli animali più presenti nei film siano tradizionalmente associati – per una serie di ragioni eterogenee – versi che non sono i loro ma quelli di altri animali (o suoni ricavati in altro modo).
Uno dei casi più famosi, probabilmente influente su una diffusa convinzione errata riguardo al verso di alcuni grandi felini, è il ruggito del leone del logo della società di produzione cinematografica statunitense Metro Goldwyn Mayer. Nella storia secolare della società furono utilizzati per il filmato otto diversi leoni ammaestrati (dal 2021 il leone è in CGI). L’ultimo si chiamava davvero Leo, che era il nome standard utilizzato dalla società anche per i diversi leoni filmati in precedenza: Slats, Jackie, Bill, Telly, Coffee, Tanner e George.
Il logo con Leo fu il più longevo: fu utilizzato per i film prodotti dalla fine degli anni Cinquanta in poi, e doppiato con un campionamento del verso di Tanner, all’epoca considerato il migliore tra le varie registrazioni disponibili. Ma in una delle versioni più conosciute e recenti del logo il verso di Leo è in realtà quello di una tigre. Lo registrò all’inizio degli anni Ottanta il tecnico del suono Mark Mangini, oggi tra i più affermati di Hollywood (vinse l’Oscar al miglior montaggio sonoro nel 2015 per Mad Max: Fury Road e nel 2021 per Dune).
Mangini stava lavorando ai suoni di un horror della MGM, Poltergeist, scritto e prodotto da Steven Spielberg, e per questo scopo aveva registrato vari versi di grandi felini – tra cui pantere, puma, tigri e leoni – in un parco protetto ad Acton, in California. Incaricato dalla MGM di produrre anche un nuovo «maestoso» ruggito in audio stereofonico per Leo, Mangini si rese conto che nessuno tra quelli di leoni che aveva registrato poteva essere sincronizzato con il filmato esistente. «Avevo scoperto che i leoni, nonostante tutta la loro ferocia, non emettono i suoni più spaventosi quando spalancano la bocca e mostrano i denti come nel logo», scrisse nel 2020 raccontando questa storia.
Ritenendo che il suono del ruggito di un leone somigliasse più a «una specie di potente sbadiglio», Mangini decise quindi che avrebbe ottenuto un effetto di maggiore maestosità e ferocia utilizzando una registrazione del verso di una tigre del parco. Il risultato piacque molto sia a Spielberg che alla MGM: Poltergeist, uscito nel 1982, fu il primo film con il ruggito di una tigre al posto di quello di un leone. E nei decenni successivi la MGM commissionò ancora a Mangini vari aggiornamenti e miglioramenti della traccia audio del logo, per cui lui utilizzò nuove registrazioni, incluse quelle di altre tigri registrate nel 2006 nello zoo di Seul, in Corea del Sud.
Il logo della MGM contribuì indubbiamente a rendere popolare un certo tipo di ruggito, anche se associato all’animale sbagliato. Ed è probabile che abbia avuto un’influenza significativa nella tendenza più ampia, nel cinema, a utilizzare quel tipo di ruggito in molte delle occasioni in cui ne serve uno.
Nel film di animazione del 1994 Il Re Leone, per esempio, i ruggiti furono prodotti mixando versi di tigre ed effetti sonori realizzati dal doppiatore statunitense Frank Welker con un bidone della spazzatura. E per i ruggiti del remake del 2019, come raccontato dal supervisore del montaggio sonoro Christopher Boyes a The Hollywood Reporter, i suoni originali dei ruggiti del film del 1994 furono remixati con altri suoni, tra cui quello del motore di un aereo F-35.
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Per effetto di una certa tendenza cinematografica all’omologazione dei versi degli animali, come scrive TV Tropes, un’enciclopedia online dedicata ai tropi narrativi nella cultura popolare, spesso finisce che nei film tutti i grandi felini ruggiscano come tigri, tutti i roditori squittiscano come topi comuni e tutte le scimmie abbiano il verso degli scimpanzé. Ma nella realtà ogni specie animale ha un proprio verso, che può essere molto diverso anche rispetto a quello di una specie della stessa famiglia e dall’aspetto molto simile.
Diversi uccelli rapaci che compaiono nei film, per esempio, tendono ad avere tutti lo stesso verso: quello della poiana codarossa, diffusa nell’America settentrionale e centrale. Nei film fanno di solito questo verso anche le aquile, che però nella realtà ne hanno uno diverso. Più o meno per le stesse ragioni per cui il ruggito feroce della tigre è utilizzato per doppiare il “re della savana”, il verso prolungato della poiana codarossa è usato per doppiare, per esempio, anche il rapace statunitense più famoso e simbolico, l’aquila di mare testabianca: che però ha un verso completamente diverso, nella realtà.
Altri esempi di animali accomunati dallo stesso verso nei film sono gli uccelli di mare, che fanno perlopiù il verso del gabbiano, anche quando sono albatri. O le rane, che fanno perlopiù il verso della raganella del Pacifico (Pseudacris regilla), anche se altre specie hanno un verso completamente diverso. Per non dire dei pinguini, il cui verso più utilizzato nei film è proprio di un animale di un’altra famiglia: le anatre.
È infatti rarissimo ascoltare in un film il verso reale di un pinguino. Una delle specie che si vedono più spesso è il pinguino africano, originario delle coste dell’Africa meridionale: difficilmente nei film viene utilizzato il suo verso caratteristico, per cui in ambito anglosassone è peraltro chiamato anche “pinguino asino”. Un’altra delle specie più conosciute, il pinguino imperatore, ha poi uno dei versi più riconoscibili in tutta la famiglia degli sfeniscidi: ascoltarlo in un film attirerebbe probabilmente una certa attenzione.
In misura molto minore e per ragioni completamente diverse, utilizzare suoni “finti” è una pratica diffusa anche nei documentari sulla natura per ottenere un effetto di iperrealismo. I potenti zoom utilizzati per riprendere gli animali da lunghissime distanze, ottenendo comunque immagini molto definite, rendono infatti impossibile registrare i suoni in presa diretta. Quelli ambientali e a volume più basso sono quindi solitamente registrati a parte oppure prodotti da esperti di effetti sonori, e poi aggiunti in un secondo momento.
L’utilizzo di versi degli animali sbagliati nei film è spesso citato in relazione al cosiddetto “effetto noce di cocco” (coconut effect), la tendenza a includere nei film determinati effetti sonori o di altro tipo – anche se irrealistici – perché sono ormai parte delle aspettative del pubblico, e perché l’eventuale assenza di quegli elementi sarebbe ancora più evidente. L’espressione allude al film del 1975 Monty Python e il Sacro Graal, nella cui storia i cavalieri procedono a piedi a causa di limiti di budget ma accompagnati dai loro paggi che riproducono il suono degli zoccoli dei cavalli sbattendo delle noci di cocco.
In un post sul suo blog il neurologo e divulgatore statunitense Steven Novella ha descritto il fenomeno dei versi sbagliati degli animali nei film come parte di un linguaggio culturale condiviso: un modo di comunicare con il pubblico sulla base di segni preesistenti, non per forza aderenti alla realtà. E fa l’esempio del sacchetto della spesa dalla cui sommità spuntano quasi sempre, nei film, una baguette o due ciuffetti di carote: non perché sia questo il contenuto statisticamente più probabile di un sacchetto della spesa, ma perché è questo il modo di far sapere immediatamente al pubblico da dove viene il personaggio che lo tiene in mano.
Con gli animali succede un po’ la stessa cosa: un animale maestoso deve sembrare maestoso, un grande predatore deve ruggire come un grande predatore. Il problema per chi fa cinema, scrive Novella, «è che spesso la realtà non sembra abbastanza reale», «non trasmette l’emozione o il pericolo che una scena potrebbe richiedere». E non ci sarebbe niente di male, se non fosse che fare eccessivo affidamento su questi cliché può avere una serie di svantaggi. Uno è che possono diventare pigri e inutili, e Novella fa l’esempio del fischio del feedback che proviene dalle casse ogni volta che un personaggio si avvicina a un microfono acceso: un caso in cui probabilmente già la voce amplificata basterebbe a far capire che quel microfono è acceso.
Un altro problema è che utilizzando uno stereotipo per comunicare un certo messaggio i film rafforzano inevitabilmente quello stereotipo: e vale anche per i cartoni animati, che utilizzano gli stessi cliché del cinema e della televisione a volte in modo ironico con un pubblico che ancora non li conosce. «Abbiamo davvero bisogno di ascoltare i versi finti degli animali?», si chiede infine retoricamente, ricordando che molti bei film in fondo sono apprezzati proprio per la loro capacità di «rompere gli schemi comuni» e rifiutare deliberatamente cliché cinematografici pigri.