Gli italiani che salvarono centinaia di cileni dal regime di Pinochet
Un gruppo di diplomatici e una ex suora ebbero un ruolo importante nel far fuggire oppositori e ricercati
Nei mesi successivi al colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973, l’ambasciata italiana nella capitale Santiago divenne un luogo sicuro per chi cercava rifugio e tentava di sfuggire alla violenza della dittatura del generale Augusto Pinochet. Avvenne quasi spontaneamente, fin dai primi giorni dopo il colpo di stato: inizialmente nell’ambasciata furono accolti italiani che si trovavano in quel momento in Cile, poi cileni con origini italiane (il concetto di “origini italiane” fu molto forzato e ampliato in quel periodo), poi anche cileni in fuga: intellettuali, giornalisti, militanti di sinistra.
Il governo italiano non diede mai il suo assenso ufficiale a ciò che facevano i funzionari dell’ambasciata per aiutare chi cercava di scappare dalla violenza dei militari, ma nemmeno diede disposizioni perché si interrompessero le operazioni di aiuto. Di fatto l’ambasciata italiana divenne un’enclave di rifugiati e oppositori al regime. Furono circa 750 le persone che trovarono accoglienza e rifugio nella sede diplomatica italiana
Il giorno del colpo di stato all’interno dell’ambasciata si trovavano Roberto Toscano, secondo segretario, alla sua prima esperienza all’estero, Piero De Masi, incaricato d’affari, e Damiano Spinola. L’ambasciatore Norberto Behmann Dell’Elmo in quel momento si trovava in Italia per vicende familiari. Toscano ricordò di aver sentito quella mattina i primi messaggi provenienti dalla neonata giunta militare e poi l’ultimo messaggio pronunciato da Salvador Allende attraverso Radio Magallanes, la radio socialista che poi quello stesso giorno venne chiusa. Fu inviato un telex a Roma ma le comunicazioni furono interrotte dopo le prime righe del messaggio.
Nei giorni successivi alla presa del potere da parte dei militari Toscano andò allo stadio di Santiago, dove erano state concentrate sulle gradinate migliaia di persone arrestate. Gli interrogatori, le torture e le uccisioni avvenivano nei sotterranei dello stadio, negli spogliatoi e nei magazzini. I diplomatici riuscirono a far rilasciare, e a portare in ambasciata, alcuni italiani che erano stati arrestati tra cui Paolo Hutter, poi giornalista di Radio Popolare di Milano e futuro consigliere comunale dei Verdi a Torino, che si trovava in Cile da amici militanti di sinistra. Altri italiani si presentarono in ambasciata a cercare protezione.
Poi Toscano tornò allo stadio a prendere un giovane fotografo italiano nato in Cile, Marino Lizzul. Fu allora che capì pienamente ciò che stava accadendo: Lizzul, militante socialista, era stato torturato con scariche elettriche. Fuggì in ambasciata anche Narciso Borisi, comunista triestino emigrato in Cile.
Poi iniziarono ad arrivare i cileni: riuscivano a scavalcare il muro di cinta dell’ambasciata eludendo la sorveglianza dei carabineros e dei militari. Arrivarono i tre massimi esperti dell’opera di Pablo Neruda, il figlio del romanziere Francisco Coloane, intellettuali, militanti di sinistra. Un medico italo-cileno, Canio Loguercio, assistette per mesi gratuitamente i rifugiati. Dopo i primi, ne arrivarono altri. Ricordò Toscano: «La seconda ondata, qualche mese dopo, era ben diversa. Gente che era stata arrestata, spesso torturata, rilasciata, nuovamente minacciata, o che aveva vissuto nascosta per mesi. Persone psicologicamente e talvolta fisicamente distrutte». Riuscì a scavalcare il muro anche Humberto Sotomayor, importante esponente del MIR, Movimiento de Izquierda Revolucionaria. Era stato ferito dai militari che tentavano di arrestarlo: venne curato in ambasciata.
Toscano e gli altri funzionari fecero comprare, a spese proprie, decine di materassi. Divisero l’ambasciata in aree: per le persone singole, per le famiglie, per le coppie. Alle persone che fuggivano veniva riconosciuto lo stato di protetto da asilo diplomatico: è un termine che viene utilizzato per indicare la protezione accordata da uno stato a una persona al di fuori del proprio territorio: sedi diplomatiche all’estero, consolati o navi situate nelle acque territoriali di un altro stato. È un tipo di protezione accordata quasi esclusivamente dai paesi dell’America Latina, dove ha acquisito il carattere di un istituto proprio del diritto internazionale sudamericano.
L’atteggiamento della giunta militare verso l’ambasciata italiana e verso quelle che ne seguirono l’esempio (come quella francese, tedesca e soprattutto quella svedese) fu prudente. Pinochet voleva accreditarsi a livello internazionale e più volte funzionari cileni andarono nell’ambasciata italiana per presentare la richiesta di riconoscimento formale del nuovo governo, che però arrivò solo anni più tardi. Per questo l’atteggiamento dei militari nei confronti dei diplomatici italiani era prudente e attendista.
Per i rifugiati, gli asilados, doveva essere richiesto un salvacondotto, un permesso per uscire dal paese. I funzionari italiani andavano al ministero degli Esteri che si trovava in un’ala della Moneda, il palazzo presidenziale, per ottenerlo. I rapporti erano estremamente tesi. Così Emilio Barbarani che arrivò a Santiago nel dicembre del 1974 come consigliere diplomatico raccontò a Milano Finanza il suo primo incontro con un generale della giunta:
Mi incontrai con il colonnello K., uno dei capi della DINA, i servizi segreti che facevano sparire gli oppositori. In realtà si chiamava Marius Jahn. È la prima volta che faccio il suo vero nome. Al nostro primo incontro lo apostrofai dandogli del criminale per la sistematica violazione dei diritti umani. Lui attaccò una tiritera sui misfatti del comunismo e dell’URSS, a partire dall’eccidio delle fosse di Katyn, e allineò sulla scrivania una fila di soldatini con le divise delle SS per farmi meglio intendere che non era aria.
Barbarani incontrò anche Augusto Pinochet che gli disse: «Quando i militari escono dalle caserme non si sa quello che succede». Il diplomatico raccontò che in quei mesi aveva sempre in tasca una pistola Smith & Wesson e che aveva fatto spostare la cassaforte davanti alla porta della sua camera per non rischiare di essere ucciso da una raffica di mitra mentre dormiva. Le auto dovevano essere sempre parcheggiate all’interno dell’ambasciata e controllate regolarmente per impedire che vi fossero piazzati ordigni esplosivi.
Una volta ottenuti i salvacondotti, gli asilados venivano caricati su auto o autobus che, scortati da militari, si dirigevano all’aeroporto. Qui i diplomatici italiani accompagnavano le persone fino alla scaletta dell’aereo ed erano a loro volta scortati da altri diplomatici europei che avevano il compito di fare da testimoni nel caso che i militari tentassero azioni di forza. Accadde anche che con un pretesto l’aereo venisse fatto tornare indietro per controllare nuovamente i documenti: azioni di disturbo per far capire ai diplomatici italiani che comunque era sempre la giunta militare ad avere il controllo di ciò che avveniva.
I militari riuscirono anche a infiltrare due uomini, che si finsero richiedenti protezione, tra le persone dell’ambasciata. Erano in realtà agenti della DINA, la Direcion de Intelligencia National, il servizio segreto creato dai militari golpisti. Altri agenti della polizia segreta si presentarono in ambasciata dicendo di non sopportare più la violenza e le torture a cui dovevano sottoporre i dissidenti. Furono sistemati in un’area dell’ambasciata lontano dagli altri perché non c’era nessuna certezza che non fossero realtà infiltrati.
Ogni tanto fuori dal muro di cinta le forze dell’ordine attorno all’ambasciata sparavano per evitare che le persone entrassero. I diplomatici italiani hanno raccontato che però c’erano alcuni carabineros che, di fatto, si giravano dall’altra parte quando vedevano persone che scavalcavano il muro. Una notte un rifugiato che era seduto a cavalcioni del muro in attesa della propria famiglia vide arrivare un uomo di corsa che gli tese la mano e gli disse: «Aiutami, compagno». Lui gli prese la mano per aiutarlo a scavalcare il muro ma fu tirato giù a forza. L’uomo che chiedeva aiuto era in realtà un agente della DINA. Il rifugiato sparì e di lui non si seppe più nulla.
La notte del 4 novembre 1974 il corpo di una giovane donna venne lanciato oltre il muro dell’ambasciata. Si chiamava Lumi Videla, aveva 26 anni, era una studentessa di sociologia e militante del MIR. La mattina successiva la polizia entrò nell’ambasciata. Il giorno dopo i giornali di regime scrissero che la donna era morta durante un’orgia avvenuta all’interno della sede diplomatica.
In realtà Lumi Videla era stata arrestata dalla DINA il 21 settembre, torturata per un mese e mezzo e morta per le violenze subite. Un sacerdote fece arrivare a Roberto Toscano documenti che provavano l’omicidio da parte della polizia segreta. Il diplomatico rivelò tutto a un giornalista. Da quel momento a Toscano venne fatto capire che la sua permanenza in Cile poteva diventare molto rischiosa. Una settimana dopo fu richiamato a Roma, su sua richiesta.
Dell’inchiesta sulla morte di Lumi Videla fu incaricato un giudice, Juan Araya, che interrogò persino i bambini rifugiati e alla fine stabilì, coraggiosamente, che la ragazza non era mai stata vista da nessuno in ambasciata.
Nella sede diplomatica in quel periodo c’era un capomissione, Tomaso de Vergottini, in sostituzione dell’ambasciatore Behmann Dell’Elmo, che però non era accreditato. A seguire la vicenda fu un altro diplomatico, Emilio Barbarani, che scrisse poi un libro, Chi ha ucciso Lumi Videla?. Barbarani raccontò poi quello che accadeva in quel periodo all’interno dell’ambasciata:
Metà del personale non parla e non collabora con l’altra metà per motivi politici: i conservatori sono ai ferri corti con i progressisti, i “pinochetisti” contro gli “antipinochetisti”. Infine una segretaria, “intoccabile” perché figlia di un influente personaggio locale, è considerata una presunta informatrice della Dina, la famigerata polizia segreta di Pinochet. L’atmosfera è surreale.
Nel 1975 un altro profugo “sospetto” si presentò in ambasciata a chiedere aiuto. Disse di chiamarsi Daniel Ramirez Montero, in realtà era un agente della polizia politica cilena: si chiamava Rafael González Verdugo. Si scoprì poi che era uno dei responsabili dell’uccisione dell’americano Charles Horman, la cui storia è descritta nel film Missing di Costa-Gavras.
Raccontò ancora Barbarani:
C’era la ricerca con ogni mezzo degli oppositori di sinistra, soprattutto miristi [membri del MIR, ndr] e comunisti, il loro arresto, l’interrogatorio, le torture, spesso la morte. Dai centri di detenzione e tortura, come la famigerata Villa Grimaldi, alcuni uscivano vivi, ma segnati per sempre nell’anima e nel corpo da tracce indelebili. Altri soccombevano, come Lumi Videla e il marito, anch’egli dirigente del Mir, Sergio Pérez. I più fortunati riuscivano a rifugiarsi in una delle ambasciate di Santiago, finché rimasero aperte. Poi continuarono a entrare in quella italiana, le cui porte per un lungo periodo furono spalancate per tutti.
I diplomatici raccontarono anche di momenti di tensione con gli stessi rifugiati. Come il 4 settembre 1974, quando quando gli asilados organizzarono una festa per l’anniversario della vittoria di Allende alle elezioni del 1970. Furono appesi striscioni e cartelloni dal lato della strada e i militanti di sinistra cantarono l’Internazionale.
Non erano però solo i diplomatici a tentare di fornire aiuto ai cileni perseguitati dalla dittatura.
È poco ricordata la storia di suor Valeria Valentin, partita da Badia, in provincia di Bolzano, come missionaria in Cile. Lì iniziò a lavorare nelle baraccopoli di Santiago, soprattutto con un frate, Carlo Pizzinini. I due poi abbandonarono la vita clericale e si sposarono, continuando a lavorare nei quartieri più poveri della capitale. L’11 settembre 1973 Valeria Valentin era segretaria personale del vescovo Fernando Aritzià, che i militari golpisti chiamavano “il vescovo rosso”. L’ex suora, con l’aiuto del vescovo e di altri membri della Chiesa, costituì una rete clandestina per aiutare le vittime, o chi rischiava di essere vittima, dei militari. La chiesa in Cile era divisa in due: da una parte chi si era schierato contro la giunta e dall’altra chi, come il nunzio apostolico Dos Santos, collaborava invece con Pinochet.
Valeria Valentin, con l’aiuto di altri oppositori, nascondeva i ricercati dal regime in case sicure, in ospedali o nei conventi. Poi di notte li accompagnava all’ambasciata italiana o in altre ambasciate che accoglievano i perseguitati, spesso aiutandoli materialmente a scavalcare il muro.
Fu arrestata una prima volta e fu sottoposta a un interrogatorio di 12 ore. Appena rilasciata riprese ad aiutare i dissidenti. Fu arrestata una seconda volta. Fu il cardinale Silva Henriquez a telefonare direttamente a Pinochet dicendo che Valeria Valentin aveva agito «nel nome della Chiesa» e minacciando una crisi con il Vaticano se non fosse stata rilasciata subito. La liberarono, ma scortarono lei e il marito all’aeroporto perché lasciassero immediatamente il Cile.
Raccontò Valeria Valentin a un giornalista:
Vidi la repressione: venivano ammazzati tutti gli oppositori del regime, persone povere, operai, studenti. Noi avevamo scelto l’opzione radicale a favore della gente oppressa e agivamo in nome del Vangelo. Nel primo periodo della dittatura si vedevano i cadaveri galleggiare sul fiume che attraversa Santiago; colpivano un po’ qua e un po’ là per dare l’esempio. Ho cominciato l’attività subito, perché i fatti erano chiari. C’era il coprifuoco e bambini poveri vivevano sulla strada, non erano abituati a stare chiusi nelle loro baracche, la strada era il loro parco giochi. Ho visto con i miei occhi i militari uccidere un bambino e ferirne un altro. l nucleo centrale della nostra rete era composto da 10-12 persone. Tra loro, ricordo Mariano Puga, Pepe Aldunate, Roberto Bolton, Raffael Moroto. Credo che abbiamo salvato più di 300-400 persone, forse più. Non ho mai fatti i calcoli.
Per comunicare con l’ambasciata Valeria Valentin usava un linguaggio in codice: le dicevano: «Due Marlboro, tre Hilton…». La cifra indicava quanti potessero quella notte scavalcare il muro senza che fossero sorpresi dal giro della guardie. La marca delle sigarette indicava la via dove doveva avvenire il tentativo di scavalcare il muro. Chiesero a Valeria Valentin: «Rifarebbe tutto?». «Sì», rispose, «senza nessuna esitazione».