Gli ultimi anni di Lucio Battisti
Quelli dell'isolamento, delle attenzioni morbose dei media e soprattutto dei suoi dischi più sperimentali, fino alla morte avvenuta 25 anni fa
Il 4 febbraio del 1980 fu pubblicato Una giornata uggiosa, il quattordicesimo disco di Lucio Battisti, che morì oggi 25 anni fa, e l’ultimo realizzato con la collaborazione del paroliere Giulio Rapetti, conosciuto con lo pseudonimo di Mogol. La complicità artistica tra Battisti e Mogol era durata quindici anni, e aveva creato alcune delle canzoni più amate della storia della musica leggera italiana, come “Fiori rosa fiori di pesco”, “Il tempo di morire”, “Ancora tu” e “Emozioni”. I motivi che portarono alla fine di una collaborazione così lunga e proficua non sono chiari.
Nel libro del 2016 Mogol. Il mio mestiere è vivere la vita, Mogol stesso ha spiegato che il rapporto con Battisti si incrinò per ragioni economiche, legate alla ridefinizione di accordi contrattuali sulle percentuali dei diritti d’autore da spartirsi. A questo proposito, Mogol ha scritto: «Allora c’era questa formula per cui il musicista prendeva l’8% e il paroliere il 4%, la Siae voleva così. Battisti quando ha iniziato era un dilettante, eppure io non ho mai voluto fargli firmare nessun documento sotterraneo. Sempre il 4% a me l’8% a lui. Quando abbiamo venduto i diritti dei brani alla Numero Uno ho detto che avrei scritto alla pari: 6% a lui e 6% a me, altrimenti non avrei più scritto. Da allora Lucio ha cominciato a lavorare con altri».
Battisti non si espresse mai direttamente sulla questione, ma in un’intervista del 1979, data al giornalista svizzero Giorgio Fieschi, parlò dell’esigenza di rinnovarsi, trovare altri stimoli professionali e realizzare dischi diversi dai precedenti, con nuovi suoni e nuovi testi. Disse di volere prendere una direzione artistica differente, insomma.
In effetti, dopo la fine della collaborazione con Mogol, Battisti aprì una nuova fase della sua carriera, più sperimentale in termini musicali e linguistici. Una fase che iniziò nel 1982, con la pubblicazione dell’album E già, prodotto e arrangiato dal polistrumentista inglese Greg Walsh, che aveva assistito Geoff Westley nella produzione dei due dischi precedenti, Una donna per amico e Una giornata uggiosa. Il disco fu registrato in parte agli studi della RCA di via Tiburtina a Roma e in parte agli studi Trident Studios di Londra. Il missaggio fu supervisionato dal fonico inglese Mark Ellis, conosciuto con lo pseudonimo “Flood”, un nome importante dell’industria musicale britannica: aveva infatti lavorato ad album come Movement dei New Order, All Fall Down dei The Sound e Untitled, il primo album solista di Marc Almond, già cantante dei Soft Cell.
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Spesso si parla di E già come di un album “fatto in casa”, ossia senza la collaborazione di altri musicisti. Come ricorda il giornalista Francesco Mirenzi nel libro Battisti talk. La vita attraverso le sue parole: interviste, dichiarazioni, pensieri, E già fu composto interamente con strumenti elettronici, programmati da Battisti insieme a Walsh sulla base di una serie di provini. I provini vennero elaborati in una prima fase nello studio casalingo del cantante e, in un secondo momento, furono replicati con una strumentazione più professionale, senza un lavoro ulteriore di produzione e arrangiamento. Il risultato fu un album ricercato e dai suoni elettronici, caratterizzato dall’uso dei sintetizzatori e influenzato da generi che andavano moltissimo nel Regno Unito, come la new wave e il synth pop.
E già segnò una discontinuità anche dal punto di vista dei testi, più spensierati e diretti rispetto a quelli di Mogol. Alcuni sono testi autobiografici: ad esempio, “Windsurf windsurf” parla della passione di Battisti per questo sport, condivisa con l’amico e collega Adriano Pappalardo, mentre in “Registrazione” parla direttamente dei suoi gusti musicali e degli artisti che l’hanno ispirato, come Paul McCartney, Bob Dylan e Ray Charles. Furono scritti da Grazia Letizia Veronese, la moglie di Battisti, che li firmò con lo pseudonimo “Velezia” (anche se è opinione comune che Battisti partecipò alla loro stesura).
Il vero cambio di direzione, però, arrivò nel 1986 con la pubblicazione di Don Giovanni. Un album importante perché fu il primo realizzato con la collaborazione del poeta e paroliere romano Pasquale Panella. I due si erano conosciuti tre anni prima, quando Battisti stava lavorando alla produzione e agli arrangiamenti di Oh! Era ora, il sesto album di Pappalardo.
La prima grande novità rispetto ai dischi prodotti negli anni Sessanta e Settanta riguardò proprio i testi: se quelli di Mogol erano incentrati su spaccati di vita quotidiana e prediligevano parole semplici in cui tutti potessero facilmente identificarsi, la scrittura di Panella era decisamente più “misteriosa”, ricca di giochi di parole spesso al limite della comprensione. Canzoni come “Le cose che pensano”, “Fatti un pianto” e “Madre pennuta” spiazzarono gli ascoltatori tradizionali di Battisti per la loro complessità: i versi erano surreali e inaccessibili, quasi ermetici, simili a flussi di coscienza pieni di libere associazioni, calembour e nonsense.
Se i testi segnarono una rottura rispetto alla produzione precedente, la musica di Don Giovanni non aveva lo stesso livello di sperimentazioni di E già, e fu un parziale ritorno a ciò a cui erano abituati gli ascoltatori di vecchia data, di nuovo con una prevalenza di strumenti analogici rispetto a quelli elettronici. La supervisione fu affidata nuovamente a Walsh, ma all’album presero parte diversi musicisti: Ray Russell alla chitarra, Robin Smith al pianoforte, Andy Pask al contrabbasso, Gavyn Wright al violino, Guy Barker alla tromba, Phil Todd al sax, Ted Hunter al corno e Skaila Kanga all’arpa.
L’incontro con Panella diede inizio a un nuovo periodo nella carriera musicale di Battisti, quello dei cosiddetti “dischi bianchi”, chiamati così per via delle copertine minimaliste e, per l’appunto, su sfondo bianco. A Don Giovanni seguì L’apparenza, album del 1988 in cui di nuovo tornarono le influenze del synth pop e dell’elettronica di E già e che diede ancora più centralità alla scrittura criptica e surreale di Panella.
Tra le altre cose, L’apparenza fu l’album che ribaltò lo schema compositivo che Battisti aveva seguito fino a quel momento: se in Don Giovanni Panella scrisse le parole sulla musica composta con Battisti, proprio come faceva Mogol, a partire da questo album furono le musiche a venire adattate ai testi.
L’apparenza fu inoltre il primo lavoro di Battisti a uscire su compact disc, supporto che nel mercato discografico all’epoca cominciava a sostituirsi al vinile, e l’ultimo, per una parentesi di sei anni, a portare il marchio Numero Uno, l’etichetta per cui Battisti incideva dal 1971. A L’apparenza seguirono La sposa occidentale (1990), Cosa succederà alla ragazza (1992) e l’ultimo album di Battisti, Hegel (1994).
In tutti i casi si trattò di album complessi e sperimentali, difficili da apprezzare al primo ascolto e poco convenzionali per il panorama discografico italiano di quel periodo. La struttura delle canzoni era molto diversa da quella tipica dei tormentoni del tempo: non c’erano quasi mai ritornelli, le melodie erano spesso poco orecchiabili, la voce di Battisti quasi asettica e, soprattutto a partire da La sposa occidentale, venne soppresso l’utilizzo di strumenti non elettronici.
Escludendo E già e Don Giovanni, che però beneficiarono di un pubblico ancora molto affezionato alla discografia di Battisti e Mogol, gli album bianchi non ottennero un buon riscontro in termini di vendite, anche per la mancanza quasi assoluta di promozione. Se oggi la maggior parte delle persone parla di questi dischi in termini entusiastici, quando uscirono furono accolti con grande scetticismo dalla critica e soprattutto dal pubblico, che li considerava troppo cervellotici e indecifrabili e desiderava un ritorno di Mogol e delle atmosfere degli anni Sessanta e Settanta.
Anche i testi di Panella ricevettero diverse stroncature: spesso la critica musicale, sforzandosi di attribuire un qualche tipo di significato alle canzoni del “periodo bianco”, le liquidava frettolosamente come senza senso. Intervistato da Rolling Stone, Panella ha detto che il suo obiettivo era quello di «liberare Battisti dai falò, dai pianobar e dalle parole dei critici» attraverso i suoi testi.
Già qualche anno prima che iniziasse il periodo dei “dischi bianchi”, della vita privata di Lucio Battisti si sapeva pochissimo. L’intervista con Fieschi del 1979 viene citata moltissimo ancora oggi anche perché coincise con la scomparsa mediatica del cantante, che aveva deciso di interrompere ogni collaborazione con le televisioni e le radio italiane già agli inizi degli anni Settanta. L’ultima apparizione in Rai fu quella del 23 aprile 1972, durante la trasmissione Teatro 10 condotta da Alberto Lupo, in cui Battisti si esibì nel famoso (e unico) duetto con Mina.
Nel libro Quel gran genio, la giornalista musicale Marta Blumi Tripodi ricorda come, agli inizi della sua carriera, Battisti fosse ben disposto a parlare con radio e giornali: «C’è chi sostiene che si rese addirittura volontariamente protagonista di alcuni finti scoop orchestrati ad arte: il caso più celebre è quello del presunto flirt con la cantante inglese Julie Driscoll, che nacque e tramontò nell’arco di un istante, ma durò a sufficienza per finire al centro di un servizio fotografico posato di Tv Sorrisi e Canzoni». Il suo atteggiamento cambiò agli inizi degli anni Settanta, perché «si era reso conto che la sua franchezza veniva spesso travisata sia dai cronisti che dai lettori».
L’allontanamento di Battisti spinse i media a ricercare, spesso in maniera morbosa, qualsiasi tipo di informazione relativa all’intimità del cantante. Come scrive ancora Tripodi, «giornalisti e fotografi vivevano il suo rifiuto come un insulto al loro mestiere, una minaccia all’esistenza stessa delle cronache di costume. Come se Battisti non capisse che anche loro dovevano lavorare, e che il loro lavoro era parlare di lui».
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Spesso i paparazzi si appostavano davanti alla villa in cui viveva con sua moglie a Molteno, in provincia di Lecco, sperando di fotografare qualche attimo della sua vita privata. «Quando non riuscivano a reperire informazioni di prima mano, chiedevano a chi sembrava saperla un po’ più lunga: vicini di casa, conoscenti, amici, impiegati dell’etichetta di Mogol e Battisti. I resoconti che ne risultavano erano spesso coloriti e fantasiosi».
Quando Battisti rifiutava di farsi intervistare, i giornali non la prendevano per nulla bene. A questo proposito, nel suo libro Tripodi cita alcuni articoli che rendono l’idea di quali fossero i toni che la stampa del tempo riservava a Battisti.
Ad esempio in uno di questi, pubblicato sulla rivista Sogno nel 1972, si legge: «Night club (un ritrovo assai esclusivo, nel cuore di Milano), notte alta. Lucio è seduto a un tavolo con un gruppo di amici. Fotografo e redattrice (a una voce): “Scusi, Battisti, dovremmo rivolgerle qualche domanda e scattarle alcune foto. Sa, il nostro direttore…”. Battisti (secco): “Non faccio mai foto. E non concedo interviste. Ho altro da fare”. Niente foto, dunque, niente intervista. Perfino Bob Dylan, perfino Donovan, perfino i Beatles in talune occasioni sono usciti dai loro fortini dorati, ma lui no, lui non si concede. Il signor Battisti non ha tempo da perdere. Viene da chiedersi perché questa divinità vaga e irraggiungibile dell’olimpo canzonettistico abbia scelto di fare il cantante». «Quando era agli inizi, e le interviste le cercava anche se già cercava di condizionarle parlando soltanto della sua bravura e delle sue idee artistiche», scriveva sempre Sogno, «non smentiva la versione (fornita dagli uffici stampa) che avesse compiuto severi studi musicali diplomandosi in un Conservatorio, e avesse anche perfezionato la sua esperienza all’estero. C’era ben poco di vero».
In un altro articolo, pubblicato su Novella, i toni erano questi: «È individualista, orso e non si affeziona quasi a nessuno. Ha pochissimi amici e anche con quelli non è molto espansivo. Loro però, pur conoscendo tutti i suoi difetti, lo amano lo stesso e di tanto in tanto cercano la sua compagnia. Non è generoso, non è buono ma non è neppure cattivo, dicono. Nel lavoro è estremamente intransigente e poco comprensivo per gli errori degli altri» E ancora: «Vive esattamente come non piace alle femministe. È il maschio di casa, autoritario ed esclusivista. Fa le vacanze sulla riviera adriatica in un posticino riservato e tranquillo, dal quale non escono né sua moglie né suo figlio per paura di essere sorpresi da qualche fotografo. In casa gira in ciabatte e con un paio di vecchi pantaloni. Con lo stesso abbigliamento qualche volta va a fare la spesa. È parsimonioso, quasi tirchio. Non è colto ma è estremamente intelligente».
Anche la morte di Battisti, avvenuta il 9 settembre del 1998 quando aveva 55 anni, fu molto dibattuta dalla stampa, che la descrisse come “misteriosa”. Questo perché, sebbene fosse ricoverato all’ospedale San Paolo già dal 29 agosto, non si conoscono tuttora con certezza le cause della morte. Il bollettino medico del ricovero non fu mai reso pubblico, e la famiglia ha sempre mantenuto riserbo sulla questione. Ai tempi si susseguirono diverse voci, che però non furono mai confermate e crearono grande confusione: all’inizio i giornali parlarono di un linfoma maligno al fegato, mentre nei giorni successivi si sparse la voce di una glomerulonefrite, una malattia che colpisce i reni.
Repubblica nel 1998 scrisse che l’ultimo aggravamento era avvenuto la notte prima della sua morte. Sempre stando a quanto riportato da Repubblica, il cappellano del San Paolo che gli diede l’estrema unzione parlò di «un viso scavato e di occhi che non cercavano più nulla». Il quotidiano descrisse anche un Battisti «intubato, appeso a fili», che durante il ricovero avrebbe accettato di sottoporsi a «una terapia sperimentale». Repubblica parlò anche dell’atteggiamento della moglie e della sua scelta di non parlare con la stampa: «la moglie Grazia Letizia Veronese ribadisce: nessun contatto con i cronisti e con nessuno. Alla camera mortuaria viene affisso un cartello che dice: la salma può essere “vegliata e visitata” solo da Luca Battisti (il figlio), Grazia Letizia Veronese (la moglie), Alba Rita Battisti (la sorella), Marco e Sergio Veronese (due cognati). Aumenta l’avvilimento in tutti, che rischia di portare al peggio: nella camera ardente c’è anche un ragazzo di 19 anni, morto la notte precedente». Ai funerali, che si celebrarono in forma privata a Molteno, furono ammesse soltanto 20 persone, tra le quali Mogol.
Dopo la morte di Battisti, i diritti sulla sua musica sono stati gestiti dalla società Edizioni Musicali Acqua Azzurra, presieduta dalla moglie. La storia dei diritti sulle canzoni di Battisti è spesso discussa perché, per anni, Edizioni Musicali Acqua Azzurra si è rifiutata di renderle disponibili sui servizi di streaming musicale, scelta molto insolita e secondo molti controproducente in termini economici.
Nel luglio del 2016 il tribunale di Milano accolse parzialmente una causa di Mogol, che aveva chiesto un risarcimento di 8 milioni di euro alla società per avere ostacolato il suo sfruttamento commerciale del repertorio di Battisti. A Mogol furono concessi 2,8 milioni di euro di risarcimenti, e visto che la Edizioni Musicali Acqua Azzurra non poteva pagarli fu messa in liquidazione nella primavera del 2017.
Nel 2019 la società decise di affidare alla SIAE il mandato per raccogliere e ripartire i diritti degli album realizzati con Mogol sulle piattaforme online. Continuano invece a non essere disponibili le canzoni scritte con Pasquale Panella, quelle dei “dischi bianchi”, perché fanno capo a un altro editore, Aquilone, che non ha ancora dato mandato per le piattaforme online.
Si è tornati a parlare dei diritti sulle canzoni di Battisti anche in settimana, quando la Corte d’appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, ha respinto la richiesta di risarcimento da 8,5 milioni avanzata dalla Sony Music ai danni di Grazia Letizia Veronese e del figlio di Battisti, Luca. I fatti risalgono al 2017, quando l’etichetta fece causa agli eredi di Battisti per aver opposto un diritto di veto a qualsiasi forma di sfruttamento economico delle opere musicali del cantante: un’accusa simile a quella avanzata da Mogol.