In Italia la giustizia minorile non è fatta per punire
È considerata un'eccellenza proprio perché orientata al recupero più che alla pena, ma ora il governo vuole inasprirne alcune fasi
Giovedì il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto-legge contenente varie misure pensate per contrastare la criminalità minorile e la cosiddetta povertà educativa: tra queste c’è un allargamento del numero di reati per i quali si potrà chiedere la custodia cautelare in carcere e dei casi in cui sarà possibile l’arresto in flagranza. Questa operazione del governo segue un dibattito sulla criminalità minorile e l’abbandono scolastico che esiste da sempre, ma si è intensificato nelle ultime settimane per vari casi di cronaca che hanno coinvolto persone giovani o giovanissime.
Le misure proposte nel decreto-legge del governo puntano a inasprire alcuni aspetti della giustizia minorile, che si basa su principi diversi da quelli della giustizia ordinaria per adulti: innanzitutto sull’obiettivo di recuperare e reinserire i minori che hanno commesso reati, prima che punirli. La giustizia minorile italiana è considerata da molti giuristi un’eccellenza in Europa proprio per come riesce ad applicare questi principi, tenendo il più possibile i minori fuori dalle carceri e proponendo in molti casi percorsi di “messa alla prova”, che se portata a termine in modo soddisfacente si conclude con un’estinzione del reato.
L’associazione Antigone, che dal 1991 si occupa dei diritti delle persone che si trovano nel sistema penale italiano, ha commentato il decreto-legge dicendo che «il sistema della giustizia minorile italiana è un sistema che funziona, dove la detenzione negli istituti di pena è dal 1988 sempre più residua» e che «punire un ragazzo non è mai la risposta, specie a quell’età».
In Italia il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità ha uffici separati da quelli della giustizia ordinaria, cioè quella degli adulti. Nel caso dei processi penali si occupa di valutare la responsabilità di ragazzi e ragazze tra i 14 e i 18 anni accusati di aver commesso un reato. Sotto i 14 anni, infatti, in Italia le persone non sono imputabili, che vuol dire che anche se vengono accusate di qualcosa mancano i presupposti per poterle processare. Nei casi in cui il minore di 14 anni sia ritenuto pericoloso il giudice può decidere di applicare alcune misure di sicurezza, come la libertà vigilata o il collocamento in comunità.
Nei giorni scorsi l’idea di abbassare la soglia dell’imputabilità da 14 a 12 anni è stata sostenuta soprattutto da Matteo Salvini, leader della Lega e ministro per le Infrastrutture e i Trasporti, ma alla fine non è stata inclusa nel decreto-legge. Nella proposta del governo si parla invece di allungare la lista dei reati per cui i minori possono essere arrestati in flagranza, a cui si aggiungono tra gli altri lo spaccio di sostanze stupefacenti anche in piccole quantità e la resistenza a pubblico ufficiale.
È previsto inoltre l’inasprimento delle pene per reati di spaccio anche di quantità modeste e per il porto abusivo di armi per cui è prevista una licenza. Il numero di reati per i quali sarà possibile chiedere per un minore la custodia cautelare – cioè la detenzione che viene ordinata dal giudice prima del processo o della fine delle indagini se si teme che l’imputato possa commettere altri reati, scappare o inquinare le prove – è aumentato, passando da quelli che prevedono pene di almeno 9 anni a tutti quelli che prevedono pene dai 6 anni in su.
Il decreto prevede poi una lunga serie di altre misure, tra cui la possibilità di dare anche ai minori il cosiddetto Daspo urbano, pene fino a due anni di carcere per i genitori i cui figli non rispettino l’obbligo di frequenza a scuola e la possibilità dei questori di vietare l’uso dello smartphone a minori che abbiano compiuto dei reati.
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Il Codice del processo penale minorile che regola la giustizia minorile in Italia risale al 1988 e in Europa è considerato un modello virtuoso di applicazione delle direttive pubblicate in quegli stessi anni da organismi internazionali ed europei: in particolare la “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia” del 1989 e le “Regole minime delle Nazioni Unite per l’amministrazione della giustizia minorile”, le cosiddette “Regole di Pechino” del 1985. Questi documenti insistono sull’importanza di trovare soluzioni alternative al carcere per i giovani, che tutelino lo sviluppo della persona e del suo benessere e che prevedano la partecipazione attiva del minore, che va ascoltato e coinvolto.
Cristina Maggia, presidente del tribunale per i minorenni di Brescia e presidente dell’Associazione Italiana Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia, aveva spiegato al Post per un articolo contenuto nella rivista Cose spiegate bene. E giustizia per tutti che «la legge italiana era, ed è ancora oggi, molto avanti su questo: nei momenti di confronto internazionali a cui ho partecipato in passato ho notato un’abissale differenza tra l’attenzione italiana alla condizione dei soggetti fragili e l’approccio più poliziesco della maggior parte degli altri paesi europei».
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Attualmente in Italia è molto raro che una persona che ha commesso un crimine da minorenne finisca in carcere. Secondo i dati esposti nel VI Rapporto sulla giustizia minorile in Italia pubblicato da Antigone a gennaio del 2022 i detenuti in un Istituto penale minorile (IPM) in Italia erano 308 ragazzi e 8 ragazze per un totale di 316 persone: il numero più basso dal 2007. Le carceri minorili sono 17 – di cui uno esclusivamente femminile a Pontremoli, in provincia di Massa-Carrara –, mentre le comunità che si occupano di accoglienza di giovani sottoposti a provvedimenti penali sono centinaia e a gennaio 2022 ne ospitavano 923.
Tra i detenuti, meno della metà è minorenne e la maggior parte ha dai 19 ai 24 anni: si tratta di persone divenute maggiorenni durante l’esecuzione della pena e che possono rimanere in un IPM fino ai 25 anni. Dei 316 detenuti di gennaio 2022, 140 erano stranieri, molti provenienti dai Balcani e dall’Africa settentrionale e accusati prevalentemente di reati contro il patrimonio, cioè furti e rapine. L’alto numero di minori non italiani si spiega col fatto che queste persone sono solitamente più sole e per i tribunali proporre percorsi alternativi al carcere è più difficile se l’imputato non ha una famiglia o un posto dove vivere.
Il rapporto di Antigone spiega che «il sistema della giustizia penale minorile riesce a residualizzare la detenzione, trovando per i ragazzi risposte alternative: in carcere si va poco e spesso per periodi brevi».
In effetti, dei 316 giovani che si trovavano nelle carceri minorili all’inizio del 2022 circa la metà era in custodia cautelare. Nel rapporto di Antigone si spiega che l’Istituto penale minorile «è una tappa generalmente breve di un percorso più lungo, che si svolge soprattutto altrove, nelle comunità e sul territorio. Per questo motivo, anche quando si finisce in IPM, non è affatto detto che poi lì si sconti la pena o il resto della misura cautelare. Quando la condanna diventa definitiva, il sistema tende a trovare una diversa collocazione per il ragazzo».
A guardar bene, anche i minori che finiscono per scontare una pena sono solo una parte di tutti quelli che iniziano un processo penale. Una caratteristica della giustizia minorile italiana rispetto agli altri paesi europei, infatti, riguarda la cosiddetta “messa alla prova”, cioè la possibilità per l’imputato minorenne di ottenere una sospensione del processo per al massimo tre anni e l’inserimento in un percorso psicoriabilitativo personalizzato, che viene elaborato dall’Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni (USSM) insieme alla famiglia, al minore, all’avvocato e ai giudici.
La peculiarità della messa alla prova italiana rispetto a soluzioni simili presenti in altri paesi europei è che viene proposta prima della sentenza e che, se svolta in modo ritenuto soddisfacente dai giudici, si conclude con un’estinzione del reato. Vuol dire che il giovane che fa una messa alla prova con esito positivo ne esce con la fedina penale pulita. Un’altra peculiarità italiana è che la messa alla prova per i minori può essere proposta a prescindere dalla gravità del reato che si commette – anche per casi di omicidio – e da quanti reati abbia commesso in passato.
Il decreto-legge introduce una novità anche sulla messa alla prova, che potrà essere iniziata già nella fase delle indagini preliminari con lavori di pubblica utilità, mentre finora veniva proposta dopo l’inizio del processo.
I dati del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità mostrano che la percentuale di messe alla prova che si concludono positivamente, quindi con l’estinzione del reato, è pari a circa l’80 per cento: una percentuale che si è mantenuta stabile dal 2003 al 2018.
Può succedere però che la messa alla prova non vada a buon fine. In questi casi il tribunale emette una sentenza di condanna e decide la pena, per la quale si cerca comunque di ricorrere a misure alternative al carcere. Alcuni giovani vengono affidati ai servizi sociali o alle comunità, quindi scontano la pena in una condizione di libertà controllata. Altri vengono messi agli arresti domiciliari, ma si cerca di evitarlo.
In caso di fallimento della messa alla prova, il tribunale può anche ricorrere alla sospensione condizionale della pena o al perdono giudiziale. Nel primo caso l’esecuzione della pena viene sospesa e dopo alcuni anni, se il minore non ha commesso altri reati dello stesso tipo, quel reato si considera estinto. Il perdono giudiziale esiste solo nella giustizia minorile e consiste nella rinuncia a condannare il minore da parte del tribunale, per favorirne il recupero sociale: può essere concesso solo per reati poco gravi e solo una volta.