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  • Venerdì 8 settembre 2023

Il malinteso italiano sulla moda americana delle camicie di flanella

Furono associate ai Nirvana e al grunge, ma negli Stati Uniti le usano per altre ragioni: lo spiega Marta Ciccolari Micaldi nel suo libro "Sparire qui"

I Nirvana – da sinistra Dave Grohl, Kurt Cobain e Krist Novoselic – nel 1991 (© Future-Image/ZUMApress.com, ANSA)
I Nirvana – da sinistra Dave Grohl, Kurt Cobain e Krist Novoselic – nel 1991 (© Future-Image/ZUMApress.com, ANSA)
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Il cinema, la televisione e in misura minore anche la letteratura degli Stati Uniti hanno avuto e hanno una grandissima influenza su altri paesi, Italia compresa, e nei decenni del Novecento hanno costruito il ricco immaginario collettivo di ciò che consideriamo “americano”. Alcuni pezzi di questo immaginario tuttavia non rispecchiano davvero quelli che sono gli Stati Uniti, a causa di semplificazioni e fraintendimenti. Uno di questi, marginale ma esemplare, riguarda le camicie di flanella a quadri portate sopra le magliette: lo spiega Marta Ciccolari Micaldi, divulgatrice di cultura e letteratura americana molto nota come “la McMusa”, in Sparire qui (Rizzoli), un libro appena uscito che ripercorrendo i suoi viaggi negli Stati Uniti nel corso degli anni racconta di romanzi, scrittori e cultura americana. Ne pubblichiamo un estratto dal capitolo su Seattle.

***

Durante l’inverno dei miei dodici anni, quando ascoltavo i Nirvana e con loro scoprivo anche tutto il resto della scena grunge di Seattle così come facevano milioni di altri ragazzini come me, in Italia si creò un equivoco, uno dei tanti che riguardano gli Stati Uniti. O, meglio, si creò l’ennesimo frammento dell’immaginario a cui ci teniamo aggrappati, sperando che, proprio come un paracadute, ci impedisca di precipitare a terra dove le cose potrebbero essere dolorosamente diverse da come le abbiamo, appunto, immaginate.

Questo frammento allora riguardava la moda e, in particolare, le camicie a quadri di flanella. Siccome i riflettori ci avevano mostrato una Seattle degli anni Novanta in cui tutti i ragazzi, musicisti e non, le indossavano, noi subito le attribuimmo a loro, a quella specifica gente, a quello specifico spazio, a quella specifica musica. Non voglio mettermi a litigare con gli elementi che creano le mode e che legittimamente in quel caso la crearono, eppure il fatto che vent’anni dopo, ma anche cinquant’anni prima, la maggior parte delle persone di quelle parti, i ragazzi soprattutto, già o ancora le indossassero, non venne mai ritenuto altrettanto importante. Eppure per me fu una delle cose più significative da capire per iniziare a placare almeno uno dei paradossi che l’America continuava a presentarmi.

Bastava entrare in un locale qualsiasi o andare a fare la spesa al supermercato o, ancora, passeggiare al parco, per capire che la ragione per cui i ragazzi indossavano camicie simili nella primavera del 2013 non poteva risiedere nel fatto che fossero tutti fan nostalgici dei Nirvana o amici dei Pearl Jam o emuli dei Soundgarden. La ragione per cui indossavano quell’abbigliamento risiedeva altrove e precisamente nell’acqua: quella che arrivava dal cielo ma anche quella che dalla baia argentata del Puget Sound penetrava sotto le porte, tra i capelli, dentro i maglioni, tra gli interstizi. Sotto forma di umidità. La flanella è il tessuto che meglio protegge dall’umidità ed è perfetta da indossare in quei climi dove la temperatura non è mai troppo rigida ma c’è comunque bisogno di mantenersi al caldo.

In un modo per nulla lineare e per questo molto affascinante, me l’aveva insegnato uno dei miei scrittori preferiti di sempre, originario proprio di queste parti: Raymond Carver. Raccontando di suo padre in quel saggio che è un’opera miliare dal titolo Il mestiere di scrivere, Carver aveva descritto un operaio di povere origini che ogni tanto veniva impiegato in una delle attività agricole più diffuse e redditizie del suo tempo, gli anni Quaranta del Novecento: la raccolta delle mele nei pressi di Yakima. Erano gli stessi anni, più o meno, in cui sempre da quelle parti, tra lo stato di Washington e quello dell’Oregon sul fiume Columbia, altri operai coetanei del padre di Carver costruivano una delle dighe più imponenti e importanti d’America: la Grand Coulee, cantata da Woody Guthrie nella sua celebre canzone Roll on, Columbia.

Tutti questi uomini che svolgevano lavori umili in balia del clima del Pacific Northwest indossavano, raccontavano i loro cantori, delle camicie di flanella: erano pratiche, economiche, perfette per proteggersi dall’umidità. Le stesse, poi, sarebbero toccate in sorte anche ai loro figli, Raymond per primo, che per lungo tempo non poté dismettere i panni operai finché la sua scrittura finalmente non glielo permise. E poi, da loro, le camicie passarono alla generazione più giovane ancora, quella di Kurt Cobain e gli altri, che prima di dettare la moda di mezzo mondo le usavano semplicemente perché erano la cosa più comune che potessero trovare nei loro armadi, abbandonare sui loro divani, indossare nelle loro cantine, buttarsi addosso per andare a suonare in un locale qualsiasi una sera qualsiasi. Ovviamente di pioggia.

Una volta arrivata nella sede storica del Crocodile, uno dei locali di Seattle in cui i Nirvana cominciarono a essere i Nirvana e io andai a bere una birra in compagnia della mia nuova persona e del nostro computer, attaccate alle pareti notai le immagini di Charles Peterson, il fotografo che negli anni Novanta ritrasse il grunge meglio di tutti gli altri, e nell’abbigliamento dei ragazzi e delle ragazze di quelle famose fotografie in bianco e nero vidi chiaramente la discendenza dai loro nonni e dai loro padri. Erano tutti vestiti allo stesso modo: jeans e camicia a quadri, una divisa da lavoro, uno stile di vita, un modo di abitare lo spazio liminale tra natura e civiltà. E non finiva li: mi girai attorno, nel locale, e ritrovai la stessa divisa addosso alle persone che in quel momento lo popolavano. Le camicie erano in genere migliori, alcune portavano addosso dei marchi di moda o di tendenza, ma il tessuto, i colori, le fattezze erano incredibilmente gli stessi.

La moda di Seattle non era una moda, allora, ma una lunga saga generazionale. Come era riuscito a raccontare con una grazia speciale Charles D’Ambrosio, lo scrittore di Seattle coetaneo dei musicisti del grunge che io avevo sempre considerato un Carver a colori. In uno dei suoi racconti, infatti, era riuscito a identificare il nocciolo di quel legame tra padri, figli e umida operosità del Pacific Northwest e l’aveva incastonato non in una camicia a quadri ‒ che lui però di certo indossava mentre scriveva ‒ bensì nel regno perfetto di una certa, modesta nostalgia: un negozio di macchine da scrivere.

Era una tipica giornata grigia di Seattle. Davanti al negozio c’era una fermata d’autobus, e spesso la gente che entrava a curiosare fra le macchine da scrivere lo faceva solo per cercare riparo dal freddo. Al soffitto era appeso con dei tubi filettati un grosso calorifero, un catafalco squadrato con le bocchette spioventi che ronzava tepore, e i ragazzetti bagnati si raccoglievano nel punto giusto, a faccia in su, sotto le correnti oblique di aria calda. Drummond li lasciava stare. Trovava piacevole quell’atmosfera e quel ritmo familiari, il battere dei tasti racchiuso nel battere più ampio della pioggia. Quasi tutti quelli che entravano nel negozio lasciavano sui fogli almeno una parola: il proprio nome, un balbettio, una citazione. Anche i ragazzi che battevano una fila di lettere senza senso riuscivano a comunicare la propria smania o il proprio dolore tramite un tocco anemico o una martellata rabbiosa. I colpi mesti di un ditino rigido, il pugno violento della frustrazione, le note esitanti e pasticciate che diventavano un torrente quando la macchina reagiva con sensibilità alla mano: tutto questo formava come un’unica riga di testo, una frase senza interruzioni. Per quel che Drummond poteva ricordare, lui aveva sempre avuto pezzi di macchina da scrivere in tasca e inchiostro nelle pieghe delle dita e un leggero velo di lubrificante Remington sulla pelle. Le sue mani macchiate non erano che una replica di quelle del padre, una copia dell’originale che ancora gli pareva di vedere, con tutte le chiazze viola lasciate dai nastri di seta, le tozze dita dalle unghie blu-nere che stringevano una pagnotta bianca e soffice quando la prima squadra Drummond e Figlio, in pausa pranzo, mangiava panini ripieni di mortadella e cetrioli sottaceto il sabato pomeriggio.

È difficile non sentirsi ammantati da qualcosa in questa città, è probabilmente uno degli effetti collaterali dell’umidità e della vita nella terra di mezzo: le cose hanno la capacità di spargersi attorno a te, di spalmarsi su di te, di appiccicarsi sulla tua pelle come il lubrificante sulle dita di Drummond. Io indossavo camicie a quadri di flanella da quando avevo memoria, mi facevano sentire parte di una tribù e adesso anche figlia di una stirpe: altre emozioni simili a quella erano pronte a cospargersi su di me in quei giorni passando sempre attraverso i vestiti, appiccicandosi addosso, impregnandosi. L’aroma dei tè giapponesi e dei ravioli cinesi nel quartiere orientale: non sapevo che quelle comunità erano eredi di una storia dell’orrore tutta americana anche se così simile a quella europea, con campi di detenzione costruiti durante la Seconda guerra mondiale per rinchiudervi un popolo nemico, quello giapponese; il profumo degli spiedini di salmone grigliato nel ristorante di fianco all’albergo: sul Pacifico il pesce ha un sapore che non ha in nessun’altra parte del mondo e così anche le mani che lo cucinano; l’odore di salsedine sui traghetti e sui battelli, i mezzi di trasporto più usati per muoversi tra le diverse sponde della baia: la poesia e la pop culture hanno uno strano modo di fondersi a Seattle, il ferry boat è quasi un simbolo della serie tv Grey’s Anatomy (un altro grigio) ma non per questo sulle acque di tutti i giorni perde di magnetismo e leggiadria, anzi; il retrogusto di muffa e fragola del muro di chewing-gum, un’attrazione di dubbio gusto della zona centrale frequentatissima dai turisti: è proprio vero che questo posto genera e attira stranezze, sembra un fattore imprescindibile del suo codice genetico; la fragranza del futuro che plasma interi edifici e spesso sembra avere provenienza aliena: forse è questo il modo che Seattle ha per asciugare via le lacrime della sua stessa disperazione e guardare avanti.

Pubblicato per Rizzoli da Mondadori Libri S.p.A.
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