Un’altra canzone dei Beirut
Conclusiva di una conclusione promettente
Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, pubblicata qui sul Post l’indomani, ci si iscrive qui.
Vince Clarke, fondatore dei Depeche Mode, poi degli Yazoo e poi dei trascurati qui ma esaltati in patria Erasure, farà ora il suo primo disco a suo nome, e ha pubblicato una inconsueto pezzo strumentale.
Questa non l’avevo mai vista, David Tennant che canta la più famosa canzone di Neil Tennant. E così ho scoperto che David Tennant ha preso il suo nome – nome d’arte – da Neil Tennant.
Hanno fatto quella cosa che un gran numero di persone qualunque si riunisce per cantare una canzone in coro, con Africa dei Toto, ma stavolta erano 18mila in 15 diversi posti del mondo. Bello.
La sera che è morta Sinead O’Connor, Damien Rice lo ha saputo dal pubblico mentre era sul palco a Valencia, e ha fatto Nothing compares to you.
C’è la prima canzone del nuovo disco dei Rolling Stones. Non saprei. Qui loro che presentano il disco con Jimmy fallon, oggi.
Un gruppo di musicisti ha creato una “coalizione per il controllo delle armi” negli Stati Uniti e terrà concerti per questa campagna: ci sono Billie Eilish, Peter Gabriel, Nile Rodgers, Rufus Wainwright.
Prima parziale rassegna di telegrafiche recensioni dei documentari sulla musica che ho guardato in una settimana d’agosto, con la premessa di un criterio di giudizio: i documentari sulla musica possono essere delle piatte esposizioni cronologiche della storia di una band o di un tema, oppure avere un twist, un’idea, una svolta, un aspetto inatteso, e nel secondo caso saperlo sfruttare meglio o peggio.
How can you med a broken heart, sui Bee Gees: per un bel po’ sembra del primo tipo, ascesa al successo dritta e senza grandi ostacoli, e poco coinvolgente; poi le cose cominciano a complicarsi, tra i rapporti fraterni, le crisi di pubblico, i cambi di mode, la rinascita, e la guerra contro la disco, e diventa avvincente, oltre a fare un gran lavoro di legittimazione del loro disprezzato secondo periodo.
What drives us : lo ha fatto Dave Grohl dei Foo Fighters, e il fatto che sia lui a intervistare i musicisti funziona molto perché loro gli parlano come a un collega o un amico, e non come a un giornalista o videomaker, e le conversazioni sono divertenti. L’idea iniziale è raccontare le gavette in giro nei “van” di band e musicisti di varia fama, poi si finisce a parlare di un po’ di tutto e sono quasi tutti molto simpatici.
Love to love you, su Donna Summer: qui il twist fatica ad arrivare e il non prevedibile dovrebbero essere certe sue sofferenze ma non così avvincenti, e la storia non è ricca abbastanza da reggere una durata così lunga. Si imparano cose su di lei, e che era molto poco diva e recitava molto la parte, ma questo finisce per renderla più una persona “normale” e quindi meno affascinante.
If you could read my mind, su Gordon Lightfoot: senza grandi twist, interessante per quanto racconta del suo status di eroe nazionale canadese che qui non è per niente percepito, e lui è molto simpatico. Ma io ho sempre fatto fatica a condividere le esaltazioni della sua creatività, salvo che per pochissime canzoni.
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