Il rugby italiano e la piramide rovesciata
Per come si è evoluto negli ultimi decenni, il movimento dipende dalla Nazionale maschile, che però non trova ancora sostegno nel movimento
di Pietro Cabrio
Sabato la Nazionale maschile di rugby debutta nella decima edizione della Coppa del Mondo. A Saint-Étienne, in Francia, gioca contro la Namibia nella prima delle due partite della fase a gironi che può realisticamente pensare di vincere. L’altra è contro l’Uruguay e con ogni probabilità non ce ne saranno altre alla portata, perché a completare il girone ci sono Francia e Nuova Zelanda, due nazionali che oltre a essere nettamente superiori sono lì per vincere il titolo mondiale.
Ai quarti di finale si qualificano soltanto le prime due di ciascun girone e per quanto riguarda il gruppo A — quello dell’Italia — viene difficile immaginare che quei due posti non verranno occupati appunto da Francia e Nuova Zelanda. Nonostante questo l’Italia si presenta alla Coppa del Mondo con l’entusiasmo della seconda squadra più giovane del torneo e con l’obiettivo di superare il girone, e non potrebbe essere altrimenti: è il suo obiettivo da sempre, dato che in nove partecipazioni non lo ha mai raggiunto.
Come succede per il torneo Sei Nazioni, quindi, l’Italia partecipa alla Coppa del Mondo pur conoscendo bene i suoi limiti e mettendo già in conto delle sconfitte, più o meno pesanti. Questa specie di rassegnazione è diventata ormai piuttosto tipica del rugby italiano e all’apparenza potrebbe sembrare un controsenso, se non addirittura contraria ai principi della competitività (specialmente per quanto riguarda il Sei Nazioni, che a differenza della Coppa del Mondo non è un torneo aperto a tutti e ha cadenza annuale).
Eppure il movimento rugbistico italiano non può pensare di rinunciare a questi impegni, in particolare al Sei Nazioni, nonostante le grandi difficoltà evidenziate nel corso degli anni. Per come si è evoluto negli ultimi decenni, il movimento è diventato economicamente dipendente dalla sua Nazionale: una sorta di piramide rovesciata se paragonata al normale funzionamento degli altri sport.
Nel calcio, nel basket e negli altri principali sport di squadra italiani, le nazionali sono soltanto la punta di sistemi molto più ampi che partono dai settori giovanili e arrivano al professionismo. In questi sistemi le Nazionali beneficiano di ciò che viene generato ai livelli inferiori, sia dal punto di vista sportivo che prettamente economico, tramite ricavi commerciali, diritti televisivi e altri incassi che ricadono poi su tutto il sistema.
Nel rugby invece la Nazionale maschile è sia la principale fonte di entrate sia la principale voce di spesa. Lo ha ribadito di recente anche il presidente federale Marzio Innocenti: «Continuiamo a investire sull’alto livello perché è fondamentale per raggiungere le risorse che ci servono».
Lo scorso anno le manifestazioni internazionali — quindi le partite dell’Italia — hanno portato nelle casse della Federazione oltre 24 milioni di euro, che come si legge nell’ultimo bilancio rappresentano «il 64 per cento del valore complessivo della produzione federale». Nello stesso bilancio il Sei Nazioni e i grandi appuntamenti internazionali sono definiti «asset strategici per la continuità e la sostenibilità dell’intero movimento nazionale».
Questa situazione si è venuta a creare negli ultimi vent’anni, ossia dall’ingresso dell’Italia nel Sei Nazioni che ha portato un movimento ancora giovane e fragile in una competizione ricca e seguita, ma anche di altissimo livello in quanto disputata da movimenti molto più radicati e competitivi. Fino a quel momento il rugby italiano dipendeva dal suo sistema territoriale, a cui erano rivolte tutte le sue attenzioni. L’ingresso nel Sei Nazioni ha spostato progressivamente le attenzioni verso la Nazionale, rovesciando il sistema con tutti i rischi del caso.
La particolarità del rugby italiano è resa ancora più evidente dai numeri e dal confronto tra le entrate economiche e il numero effettivo di praticanti. Secondo i dati del CONI in Italia nell’ultimo anno prima della pandemia c’erano 71mila persone che giocavano a rugby su oltre 4 milioni di atleti tesserati complessivi in tutti gli sport. Il rugby risultava il diciassettesimo sport più praticato in Italia dopo vela (146mila praticanti), tiro a segno (75mila), tennis (340mila), sport invernali (73mila), sport equestri (109mila), pesca sportiva (168mila), calcio (1 milione e 62mila), pallavolo (322mila), basket (296mila), nuoto (166mila), motociclismo (105mila), arti marziali (120mila), golf (90mila), ginnastica (141mila), danza (81mila) e atletica (270mila).
Se si considera però che in Italia non si gioca a rugby per svago, e che quindi il numero di atleti tesserati corrisponde grossomodo al numero totale di praticanti, anche sport come il ciclismo e la pesistica — che contano rispettivamente 71mila e 64mila tesserati — arrivano a contare più praticanti complessivi. Si può dire quindi che il rugby sia all’incirca il ventesimo sport più praticato in Italia, eppure la sua Federazione è tra le prime cinque per valore delle entrate (45 milioni di euro nel 2022).
Come ribadito nell’ultimo bilancio, la maggior parte di queste entrate viene dagli eventi internazionali e dal Sei Nazioni in particolare. I contribuiti annuali del CONI, invece, sono tutto sommato in linea con lo spazio occupato dal rugby nel panorama sportivo italiano: lo scorso anno la FIR ha ricevuto quasi 6 milioni di euro, ossia il quattordicesimo contributo più alto su un totale di 288 milioni di euro distribuiti a tutte le federazioni.
Il rugby italiano ha quindi saputo crearsi la sua ricchezza, e lo ha fatto principalmente ottenendo l’ingresso nel Sei Nazioni: un traguardo meritato sul campo dalle generazioni di giocatori che raggiunsero grandi risultati tra gli anni Ottanta e Novanta, ma agevolato anche dal fatto di rappresentare un paese che era una grande opportunità di espansione commerciale per un torneo che oggi vale circa 3 miliardi di euro.
Dai grandi benefici economici derivati dall’ingresso del Sei Nazioni, tuttavia, la Federazione non è riuscita a sviluppare adeguatamente il suo movimento e in questo modo è finita per avvitarsi su sé stessa. La priorità è diventata il sostentamento della Nazionale, anche a discapito della base: i campionati, per esempio, continuano a non avere la forza per gestirsi da soli e dipendono ancora dalla Federazione. I risultati sono abbastanza eloquenti: per sette anni l’Italia non ha vinto una sola partita al Sei Nazioni, mentre in Coppa del Mondo si è sempre fermata ai gironi, vedendosi peraltro scavalcata da movimenti più giovani ma in salute, come il Giappone (e nel ranking mondiale anche dalla Georgia).
Questa stagnazione del sistema continua quindi ad essere in un certo senso mascherata dal prestigio dato dalla partecipazione a certi tornei, ma non potrà andare avanti così ancora per molto. I numeri del rugby italiano sono sostanzialmente fermi da anni, mentre a livello globale sono in aumento: entro il 2025 la Federazione mondiale punta a raggiungere i 10 milioni di atleti (nel 2021 erano 7,8 milioni) e ci sono paesi che crescono in fretta, molti dei quali in Europa.
Intanto, per tenere alto il livello della Nazionale non potendo ancora contare su una produzione adeguata di giocatori per le competizioni a cui partecipa, la Federazione continua a fare affidamento sulla Benetton Treviso, la squadra di club più grande d’Italia che però non gioca nel campionato italiano, e su giocatori con origini italiane cresciuti e scovati all’estero. Dei 33 convocati per la Coppa del Mondo in Francia, 16 sono della Benetton, 8 si sono formati in altri paesi e 3 sono equiparati, cioè convocati per aver giocato per un certo periodo in Italia pur non avendo né origini né cittadinanza.
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