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  • Giovedì 7 settembre 2023

Com’è cambiata Berlino negli ultimi 15 anni

Lo racconta lo scrittore Vincenzo Latronico, che ci vive da tempo e le ha dedicato il suo ultimo libro

Il Landwehrkanal a Berlino, il 27 giugno 2020 (Steffi Loos/Getty Images)
Il Landwehrkanal a Berlino, il 27 giugno 2020 (Steffi Loos/Getty Images)
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Lo scrittore Vincenzo Latronico è tra gli italiani che negli ultimi decenni sono andati a vivere a Berlino da giovani, e poi ci sono rimasti per un po’ – nel suo caso dal 2009 al 2014 e poi dal 2020 a oggi – e così ne hanno potuto osservare le più recenti grandi trasformazioni. Latronico ne parla nel suo nuovo libro La chiave di Berlino (Einaudi), dove spiega cosa è cambiato con la gentrificazione, cioè quel processo per cui in un quartiere un tempo povero arrivano ad abitare persone benestanti e aprono locali e negozi costosi, che ha riguardato gran parte della città e di cui Latronico aveva già scritto anche sul Post.

Pubblichiamo un estratto del libro in cui ai cambiamenti concreti della città, dove quindici anni fa abitazioni a basso costo e altri spazi erano abbondanti e relativamente economici, mentre oggi sono scarsi, è affiancato il modo in cui Berlino è cambiata anche nell’immaginario comune.

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L’idea di una trasformazione tanto rapida da generare un costante senso di perdita è in qualche modo intrinseca alla storia delle metropoli, sorte là dove era tutta campagna; tanto piú una metropoli come Berlino, distrutta e ricostruita due volte, scissa e suturata, che attira e respinge i nuovi abitanti come una marea che scende e che sale. Il flusso cominciato negli anni Ottanta e mai interrotto è andato a costituire una vera e propria stratificazione sociale in base al periodo d’arrivo, con quella koinè di pietre miliari a segnalare l’appartenenza di rango che ha continuato ad aggiornarsi: dopo chi ha fatto in tempo ad atterrare a Tegel prima che chiudesse, c’è chi solo a BER; ma anche: chi ha fatto la Love Parade; chi ha scaldato la casa a carbone; chi ha avuto la doccia in cucina; chi ha pagato l’affitto in marchi; chi ha potuto occupare; chi ha visto il Muro; chi ha visto Bowie. Io sono arrivato nel 2009, e in questa lista, oltre a Tegel, ho solo un altro sí.

Questa successione cronologica diventa una gerarchia di legittimità, perché l’anzianità, nella nostra mente, si traduce in accesso a un’esperienza urbana in qualche modo piú autentica. Già Hessel [Franz Hessel (1880-1941), autore di un libro su Berlino scritto nel 1929, ndr], descrivendo la decadenza berlinese come una sorta di attrazione turistica, aggiungeva: «Qualche anno fa doveva essere tutto molto piú peccaminoso». Chi arriva a Berlino ha sempre la sensazione di arrivare un po’ troppo tardi, come se il fatto stesso di poterla esperire privasse la città di ciò che ha di piú vero. Questo valeva per me che a ventiquattro anni invidiavo chi era atterrato a Tempelhof; vale per me che a trentotto invidio l’appartamento in cui viveva quell’altro me.

La stratificazione nel tempo delle ondate di arrivi si propaga anche nello spazio, perché negli anni il polo d’attrazione degli expat si è spostato sulla mappa in modo abbastanza preciso. Compone una spirale centrifuga, in senso orario: la Kreuzberg di Bowie a fine anni Ottanta; Mitte della KW negli anni Novanta; poi la Prenzlauerberg dei miei affittuari italiani; Friedrichshain dove poco dopo avrebbe aperto il Berghain; la Neukölln del canale quando sono arrivato io. Non si tratta solo di una serie di aneddoti: le date (1987, 1992, 2001, 2006, 2010) segnano il momento in cui ognuno di questi quartieri ha registrato il picco di nuovi esercizi commerciali. Questa suddivisione dei flussi ha generato sacche specifiche e omogeneità sorprendenti, un equivalente per gli expat di quello che erano le Little Italy dell’immigrazione novecentesca. Ad esempio, a Prenzlauerberg si addensano gli artisti, soprattutto europei, nati intorno agli anni Settanta; il proprietario della casa in cui ho passato il secondo lockdown apparteneva alla stessa ondata di arrivi berlinesi dell’artista che aveva affittato a me e Andrea nel 2009. I loro appartamenti erano di quelli che avevano contribuito a definire l’immaginario che avrebbe colpito anche me.

L’omogeneità sociale dei vari quartieri fa sí che essi, per dir cosí, invecchino assieme ai loro abitanti. Nel periodo del mio primo arrivo, la generazione che aveva riempito Prenzlauerberg cominciava a stufarsi dei party e metteva radici: d’un tratto fiorivano i passeggini con le ruote tassellate da mountain bike nelle piazzette di quello che ironicamente veniva chiamato Pregnancyberg. Il tempo passa. Ora, una decina d’anni dopo, il picco di passeggini è sul Landwehrkanal. […]

– Leggi anche: In fila a Berlino, per una casa

L’evoluzione che ho raccontato è l’evoluzione recente di tutte le grandi città occidentali. Il vuoto di cui Berlino era piena – un vuoto simbolico e fisico – ha fatto sí che il processo qui fosse piú rapido e violento; ma non è unico, perché nulla è piú unico. Questo processo è quello che si definisce con l’urticante termine di «gentrificazione».

C’è una prospettiva, ovvia, da cui è un cambiamento negativo: è quella di chi c’era prima, di chi è escluso dal lusso delle cose o emarginato da quello delle immagini, ed è vittima della scarsità. C’è una prospettiva, altrettanto ovvia, da cui questa è una trasformazione positiva: è quella di chi arriva dopo, e cerca il lusso materiale o quello simbolico, e dalla scarsità si sente lusingato, perché la vive dalla parte opposta della barricata. Sono prospettive relative: quello che per qualcuno è arrivato dopo arriva comunque prima di tutti quelli che lo seguiranno. Sono anche prospettive politiche: la sopravvivenza di spazi non ottimizzati per l’estrazione di profitto può essere un segno di inefficienza o un margine di libertà.

Il discorso sulla gentrificazione di norma si ferma qui, ed è questa condanna all’aporia a renderlo urticante: nella conclusione ognuno trova esattamente ciò che ha portato alle premesse. Ma provando a svilupparlo oltre appare qualcosa. Se si sospende la valutazione su ogni questione legata al denaro quello che resta è un processo di ottimizzazione, cioè di appiattimento verso l’alto delle possibilità. Quello che è successo a Berlino è che è diventata migliore in generale – ha piú offerta culturale e culinaria, strade piú sicure, palazzi piú belli – ma ha perso ogni unicità nel particolare. Non è piú una serie specifica di sacche di marginalità, di ricchezza, di cultura, di lusso o di inefficienza determinate dalla storia del Novecento; è un esemplare ottimizzato di metropoli occidentale.

Ma anche questa lamentazione è posticcia. I berlinesi veri si infuriano o si disperano per l’impennata dei costi e l’improvvisa scarsità abitativa, ma non portano il lutto per la perdita di una qualche mitologica autenticità, il cui pensiero gli pare anzi un po’ una truffa per babbei. «Nella maggior parte dei casi», scrive Kensche nella biografia di Ellen Allien [una dj berlinese nata nel 1968, ndr], parlando senza volerlo di me, «sono proprio quelli che si sono insediati da pochi anni a lamentarsi degli affitti piú cari. Ellen non fa parte di questo coro. Si ricorda sin troppo bene la tristezza di Berlino Ovest quando era un posto dimenticato da Dio che nessuno voleva, o poteva, visitare. Ora la sua città natale è una metropoli come New York».

Indubbiamente, vivere a Berlino oggi è molto piú piacevole di un tempo, nella misura letterale in cui offre moltissimi piaceri, estetici e gustativi, perlomeno a chi se li può permettere. Come nota Ellen, questo fa della città una metropoli internazionale: gli stessi piaceri sono offerti in certe zone di Stoccolma, di Milano, di New York, di Parigi, di Londra, a chi ci abita o ci passa per turismo. E i modi di vivere il quartiere dei turisti e dei nuovi abitanti sono sorprendentemente simili: gli stessi caffè monorigine, gli stessi laptop e vini naturali, lo stesso arredamento in casa o in Airbnb. Escluso qualche accidente storiografico ridotto ad aneddoto pittoresco per insaporire l’esperienza del luogo – il Muro i rave Ich bin ein Berliner i bombardamenti di caramelle –, passeggiando lungo il Landwehrkanal non si trova nulla di sostanzialmente diverso da ciò che offre l’Isola a Milano, Williamsburg a Brooklyn, Grünerløkka a Oslo.

L’omogeneità di cui sto parlando, quella celebrata da Ellen Allien e lamentata dai nostalgici e ritrovata da chiunque prenda un EasyJet per una capitale europea, è diversa dall’uniformità imposta dall’alto alle identiche filiali di una multinazionale, che oggi ci sembra livellante e superficiale. Al contrario, ciò che comunicano l’Isola e Prenzlauerberg e Grünerløkka – nonostante siano estremamente simili – è individualità, un carattere unico e speciale. Questa somiglianza di unicità diverse è quindi da intendersi come la risultante di coevoluzioni parallele, come quando piú matematici senza parlarsi giungono a soluzioni identiche per il medesimo problema. Il problema è come massimizzare l’estrazione di profitto. La soluzione è sostituire alla realtà un’immagine.

Al contrario della realtà, che è letteralmente ovunque, l’immagine certifica che quel pezzo di realtà è unico, speciale. Questo vino è fatto a mano con tecniche ancestrali. La pasta madre di questa pizza è vecchia di cent’anni. In questo quartiere gli artisti hanno occupato le fabbriche. In questa città c’è stato il Muro. In un’epoca in cui il conformismo e l’uniformità ci fanno pensare alle dittature o al consumismo cieco del Novecento, il modo migliore di certificare che qualcosa è speciale è mostrarlo autentico, cioè raccontarne una storia.

È la storia che è stata raccontata a me, nel 2009, sulla città povera e sexy, piena di artisti e di vuoto. È la storia che riecheggia nei libri che ho citato. È la storia che viene raccontata oggi ai programmatori che accettano un salario piú basso che negli Stati Uniti per godere dell’atmosfera vibrante e trasgressiva della città. È la storia di cui ho sentito un bisogno disperato da quando mi sono ritrasferito a Berlino nel 2020, non appena ho avuto la percezione che quella che mi aveva attratto lí dieci anni prima non era piú vera.

È il 2023. Non l’ho ancora trovata.

© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency