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  • Martedì 5 settembre 2023

Il ruolo degli scienziati nella società, secondo Oppenheimer

Una riflessione del 1953 raccolta insieme ad altre sette lezioni in un libro pubblicato da Utet

J. Robert Oppenheimer nel 1957 (AP Photo/John Rooney, File, LaPresse)
J. Robert Oppenheimer nel 1957 (AP Photo/John Rooney, File, LaPresse)

Le grandi attenzioni dedicate all’ultimo film di Christopher Nolan hanno avuto ripercussioni anche sulle librerie, dove nelle ultime settimane sono comparsi o ricomparsi vari libri dedicati a J. Robert Oppenheimer, il fisico statunitense considerato il “padre della bomba atomica”. Uno è Oppenheimer (Garzanti), la biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin che nel 2006 vinse un premio Pulitzer: è il libro su cui Nolan ha basato la sceneggiatura del film. Ma ce n’è anche uno di cui Oppenheimer è l’autore: s’intitola Quando il futuro sarà storia (Utet) e raccoglie otto lezioni e conferenze che lo scienziato tenne tra il 1947 e il 1954, quindi dopo l’uso delle prime bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Il libro, per cui ha scritto un’introduzione Emanuele Menietti del Post, mostra in che modo Oppenheimer si impegnò per la creazione di un organo internazionale di controllo sulla proliferazione delle armi atomiche, e quali furono le sue riflessioni sul ruolo degli scienziati nella società dopo l’esperienza del Progetto Manhattan. Pubblichiamo un estratto della settima lezione, un discorso pronunciato il primo gennaio 1953, che parla proprio di questo.

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Che cos’è che mi preoccupa in modo speciale? […] Per dirla con estrema e brutale semplicità, il punto fondamentale è che lo scienziato, nella società odierna, non ha più posto di quanto ne abbiano l’artista o il filosofo.

Naturalmente viene pagato, viene sostenuto e perfino, per ragioni che spesso non comprende, rispettato. Ma non è inserito nella società, nel senso che le sue idee, il suo lavoro, non oltrepassano gli stretti limiti della sua professione; non fanno parte della vita intellettuale e culturale del suo tempo. Resto sempre stupito dall’ignoranza, dall’incredibile ignoranza riguardo alle nozioni più elementari del mio campo di studi, che regna tra gli storici che frequento, tra gli statisti che conosco, tra i miei amici industriali. Non hanno alcuna idea di cosa si stia studiando nella fisica, e credo abbiano idee assai vaghe anche riguardo alle altre scienze.

Da parte mia, so che è solo per una buona dose di fortuna e di duro lavoro che possiedo qualche nozione rudimentale di ciò che si studia nelle altre stanze di quel grande edificio chiamato scienza. Leggo la “Physical Review” e mi impegno seriamente a comprendere i suoi articoli, ogni due settimane, e penso quindi di avere almeno un’idea di ciò che si sta facendo nelle varie branche della fisica; ma in generale sappiamo poco gli uni degli altri, e il mondo esterno non sa nulla di noi. Credo che questo stato di cose possa variare leggermente da luogo a luogo. Forse in Inghilterra, dove esiste una sorta di tendenza nazionale a rifiutarsi di lasciare che le cose diventino oscure e inaccessibili, tradizionalmente ci si sforza un po’ di più per far sì che le persone istruite abbiano un’idea di quello che stanno facendo matematici, astronomi e fisici; che non conoscano semplicemente i frutti secondari del loro lavoro, le applicazioni pratiche, ma ciò che gli scienziati pensano.

Questa stupefacente ignoranza generale delle idee e delle ultime scoperte scientifiche e tecniche è in netto contrasto con ciò che succedeva due o tre secoli fa, e alcuni dei motivi per cui questo accade sono evidenti. Io credo, però, che la scienza attuale sia più acuta, più ricca, più importante per la vita dell’uomo e più utile alla sua dignità, rispetto a quella che ebbe un così grande effetto sull’epoca dell’Illuminismo; un effetto che investì forme e modelli, tradizioni e speranze – riflesse nella nostra costituzione – della società umana. La scienza non procede all’indietro, e non c’è dubbio che la meccanica quantistica rappresenti un’analogia con la vita umana più interessante, più istruttiva, più notevole di quanto potesse mai esserlo la meccanica newtoniana. Non c’è dubbio che perfino la teoria della relatività, che è stata così ampiamente volgarizzata e così poco compresa, potrebbe essere di grande interesse per il popolo in generale. E che le scoperte della biologia, dell’astronomia e della chimica arricchirebbero la nostra intera cultura, se solo fossero comprese.

– Leggi anche: La storia di Robert Oppenheimer

Ciò che forse è più fastidioso è che esiste un abisso tra la vita dello scienziato e la vita di un uomo che scienziato non è, un abisso pericolosamente profondo. L’esperienza scientifica – urtare ripetutamente il piede contro qualcosa e poi accorgersi che in realtà si sta urtando contro un sasso sconosciuto fino a poco prima – è difficile da comunicare attraverso la volgarizzazione, l’educazione o le conferenze come questa. Spiegare a un uomo cosa si provi a scoprire qualcosa di nuovo sul mondo e sulla natura è altrettanto difficile che descrivere un’illuminazione mistica a un ragazzino che non ha la minima idea di cosa possa essere una simile esperienza.

L’Illuminismo fu un periodo storico particolare, pieno di speranze ma anche alquanto superficiale; e quante delle idee di quell’epoca derivassero da una grande considerazione per la scienza può dirlo con diritto solo uno storico. Ma sappiamo che gli stessi uomini che scrissero di politica e di filosofia – seppure con risultati non sempre felici – scrissero anche di scienze naturali, di fisica, di astronomia e di matematica. Sappiamo che, su due piani molto differenti, Franklin e Jefferson riuscirono a coprire tutta la strada che va da un vivo, e in certi casi pratico, interesse per la scienza fino al mondo degli affari; ed è evidente quanto i loro scritti siano pervasi della luce che l’uno getta sull’altro.

La scienza a quei tempi era connessa con le arti pratiche, oltre a essere molto vicina al senso comune; e da sempre la scienza consiste quasi unicamente nell’applicazione oltremodo accurata, paziente e continua delle arti pratiche e del senso comune. Ora, però, la catena si è allungata a dismisura. Il solo processo di condurre un ragazzo attraverso gli anelli elementari di questa catena consuma così tanta parte della sua vita, ed è un percorso così sfibrante sia per lo studente che per l’insegnante, che il semplice metodo della comunicazione e della comprensione, sufficiente nel XVII e XVIII secolo, ora non è più abbastanza.

Questo problema è stato studiato da molta gente competente, e non pretendo di parlare di alcunché di nuovo o di strano. Penso che l’idea di istituire corsi di laboratorio sia stato un tentativo di introdurre i giovani all’esperienza di scoprire veramente qualcosa; tuttavia la mia paura è che, trattandosi di esperimenti di cui il professore conosce già la risposta, l’intera operazione non sia più la stessa: è un’imitazione, non qualcosa di reale e originale.

Suppongo che tutti abbiate letto gli eloquenti appelli che diversi scienziati, di cui il più noto è forse il rettore Conant, hanno lanciato per tentare di comunicare qualche nozione fondamentale della scienza mediante quello che è essenzialmente il metodo storico. I loro scritti, a mio avviso, dimostrano che la scienza in quanto attività umana è trattabile con il metodo storico, ma non che il metodo scientifico, o una qualsiasi scoperta scientifica, sia comunicabile con gli stessi mezzi. Sono molto preoccupato che i nostri indirizzi educativi, lungi dal fare di noi una parte del mondo in cui viviamo, nel senso molto particolare di poter condividere idee ed esperienze con i nostri simili, possano addirittura condurci nella direzione opposta.

Tutto ciò è molto strano: viviamo in un mondo che è stato assai influenzato dalla scienza, e il nostro modo di pensare, le nostre idee e i termini in cui siamo portati a parlare delle cose, il concetto di progresso, il concetto di una fratellanza di discepoli e scienziati così familiare alla vita cristiana – tutti questi elementi possiamo ritrovarli in origine in un’epoca in cui la scienza era compresa e studiata anche da uomini d’affari, da artisti, da poeti. Ma oggi viviamo in un mondo in cui i poeti e gli storici e gli uomini d’affari sono orgogliosi di non avere la minima intenzione di mettersi a imparare anche la più semplice nozione scientifica, considerandola come l’estremità di una galleria troppo lunga perché una persona assennata possa anche solo cominciare a percorrerla. Per questo motivo la nostra filosofia – se ne possediamo una – è piuttosto anacronistica e, secondo me, del tutto inadeguata ai nostri tempi.

Credo che, qualunque cosa si possa aver pensato della rivoluzione cartesiana e di quella newtoniana nella vita intellettuale europea, i tempi in cui costituivano tutto ciò che era sufficiente sapere sono passati ormai da un pezzo. Un’analisi molto più sottile della natura della conoscenza umana e dei suoi legami con l’universo è ormai necessaria, se vogliamo rendere giustizia alla saggezza della nostra tradizione e alla brillante e sempre varia fioritura di scoperte che è la scienza moderna.

La ricerca è azione; e il problema che voglio porvi e con cui voglio salutarvi è quello di come comunicare questo senso di azione ai nostri simili che non sono destinati a dedicare le loro vite alla ricerca professionale di nuove conoscenze.

Copyright © 1955, Simon & Schuster
This edition published by arrangement with Berla & Griffini Rights Agency
Per l’edizione italiana:
© 2023, De Agostini Libri S.r.L.

Per cortesia dell’editore.

– Leggi anche: Chi è chi in Oppenheimer