Il «tragico geodestino» di Craco
La più nota “città fantasma” d'Italia, in Basilicata, ha una storia piena di accidenti geologici, ma oggi ne trae vantaggio con il turismo
di Giuseppe Luca Scaffidi
Ci sono tante storie diverse sui luoghi abbandonati, disabitati o semplicemente dimenticati in giro per il mondo. Alcune risalgono a molti secoli fa, altre sono più recenti, ma tutte raccontano di eventi, naturali o causati dall’uomo, che hanno modificato radicalmente la vita di chi viveva in quei luoghi. Craco, un comune in provincia di Matera, è la più nota “città fantasma” in Italia. Il suo centro storico si spopolò a partire dal 1963, a causa di una frana, fino a diventare quasi disabitato nel 1980 quando, in seguito al terremoto in Irpinia e in Basilicata, furono disposte le ultime ordinanze di sgombero.
Negli ultimi anni Craco è diventata una meta turistica sempre più conosciuta: accoglie ogni anno migliaia di turisti, che hanno la possibilità di passeggiare tra le strade del borgo abbandonato e ammirarne i monumenti, come la chiesa di San Nicola, i palazzi Maronna, Grossi, Carbone e Simonetti e l’imponente torre normanna che svetta sulla parte più alta del borgo, edificata attorno al 1040 per controllare il territorio circostante e farsi trovare pronti in caso di attacchi nemici.
Diversi geologi hanno approfondito lo studio delle tappe che portarono allo spopolamento del centro storico di Craco. Uno di loro è Giuseppe Locoratolo, un esperto di movimenti franosi lucani. «Attorno all’anno mille, i fondatori della città ci avevano visto giusto: decisero di costruire gli edifici che oggi compongono la città vecchia sulle rocce conglomeratiche», spiega. Il conglomerato su cui poggia il centro storico di Craco è infatti composto da rocce solide e cementate, molto valide dal punto di vista geotecnico e perfette per costruire un paese. «Lo dimostra il fatto che all’interno della città vecchia, al netto dell’ovvio degrado dovuto alla mancata manutenzione degli edifici, è ancora tutto in piedi».
Il “tragico geodestino di Craco”, come lo definisce Locoratolo, iniziò in un secondo momento, quando il paese cominciò ad allargarsi. «A un certo punto, per via dell’aumento demografico, Craco ha dovuto ampliarsi: il versante nordorientale era troppo ripido per costruire delle case, così si decise di allargare il paese a partire da quello sudoccidentale, più funzionale allo scopo dal punto di vista della pendenza. In questo versante, però, non ci sono rocce dure, ma terreni argillosi che, al contrario del conglomerato su cui poggia il centro storico, presentano caratteristiche molto scadenti».
In gergo tecnico, queste argille sono definite “varicolori”: semplificando, si tratta di depositi argillosi di colore variabile, dal rosso violaceo al verde. A causa delle loro scarse proprietà geotecniche, queste argille sono molto sensibili all’azione erosiva degli agenti atmosferici. «Ovviamente, ai tempi, chi decise di allargare il paese non poteva sapere che le costruzioni edificate su quelle argille, prima o poi, avrebbero ceduto», spiega Locoratolo. «Alla base delle cause delle frane che occorrono a Craco e in tutta la restante parte del territorio, tra Matera e Stigliano, c’è un fenomeno geologico che interessa un’area molto ampia, tra la catena appenninica e l’inizio delle Murge baresi: il cosiddetto sollevamento tettonico regionale».
In sostanza, da circa 800mila anni (un’età abbastanza recente dal punto di vista geologico), questa zona si sta sollevando, nel vero senso della parola. Quando un territorio si solleva i fiumi che vi scorrono, per continuare a sfociare nel mare, finiscono per incidere la roccia che si trova sotto il loro stesso alveo: col tempo, continuando a scavare, formano delle valli più o meno profonde. «Quando i fiumi incidono un territorio composto da rocce dure e valide dal punto di vista geotecnico, le valli che si vengono a creare risultano molto strette, e i loro versanti quasi verticali. Questo perché l’acqua è riuscita a scavare soltanto lo stretto necessario per farsi spazio e raggiungere il mare», spiega Locoratolo. «È lo stesso processo che, ad esempio, ha dato luogo alla formazione delle gravine [incisioni erosive scavate dalle acque meteoriche nella roccia calcarea, ndr] che si possono osservare a Matera, Laterza, Castellaneta e Massafra».
Al contrario, nel caso di Craco, «le acque dei due fiumi che insistono sul territorio, il Covone e il suo affluente Peschiera, hanno attraversato un territorio composto da argille morbide. Quando un fiume attraversa un territorio costituito da rocce morbide, come per l’appunto le argille varicolori di Craco, le valli che i fiumi formano risultano molto ampie, e i loro versanti più inclinati».
Per rendere l’idea, Locoratolo suggerisce di immaginare un triangolo rovesciato in cui l’inclinazione dei due lati aumenta di poco, ma costantemente. «Col tempo, dato che l’acqua continua a scavare, i versanti raggiungono un valore di pendenza insostenibile. Ed è ciò che è successo a Craco: a un certo punto, la resistenza dei terreni è stata superata e le case sono cadute giù». Le frane sono parte attiva della storia geologica di Craco: «I primi movimenti franosi documentati risalgono al 187o. Inoltre nel 1888 fu costruito un grande muro di sostegno a valle della strada provinciale, segno che ai tempi erano fenomeni piuttosto conosciuti».
Ci sono poi alcuni fattori antropici che, negli anni, hanno contribuito a riattivare i movimenti franosi: «Ad esempio, nel 1954, fu costruito un campo sportivo: gli escavatori spostarono ingenti volumi di terra per rendere pianeggiante la superficie del campo e, in questo modo, riattivarono la frana».
Secondo Locoratolo, il vero evento scatenante risale al 1959: «Nell’arco di appena tre giorni, dal 23 al 25 novembre di quell’anno, piovvero più 400 millimetri di acqua, e l’accelerazione dei movimenti franosi fu fortissima». L’idea di trasferire l’abitato cominciò a prendere forma il 30 dicembre del 1963, quando Walter Brugner, geologo del Servizio Geologico d’Italia, andò a Craco per fare un sopralluogo. «La sera stessa, Brugner andò in comune a riferire i risultati della sua analisi, esponendo tutte le criticità del versante su cui sorge Craco e accennando per la prima volta alla possibilità di “spostare” il paese».
L’anno dopo un altro esperto del Servizio Geologico d’Italia, Amedeo Balboni, individuò il nuovo sito in cui trasferire l’abitato di Craco: un territorio poco più a valle, che oggi si chiama Craco Peschiera e conta poco più di 600 abitanti. Nel 1965, con decreto del Presidente della Repubblica, Craco venne incluso, sentito il parere favorevole del Consiglio superiore dei lavori pubblici, tra gli abitati da trasferire “a cura e spese dello Stato”. Iniziarono gli sgomberi e la popolazione fu trasferita più a valle, in una tendopoli realizzata nel territorio che oggi corrisponde alla località Craco Peschiera.
Tre anni dopo, in seguito a quelle che Giuseppe Lacicerchia, sindaco di Craco per tre mandati, definisce «aspre vicende politiche locali», un nuovo decreto divise l’abitato in due zone: una parte da trasferire ai sensi del decreto di tre anni prima e un’altra da sottoporre a lavori di consolidamento. «Le conseguenze del decreto del ’68 furono nefaste», dice Lacicerchia. «Non furono realizzati dei programmi abitativi razionali e decine di famiglie furono costrette a emigrare per via dell’assenza di case, dato che gli alloggi popolari realizzati a cura e spese dello Stato non bastarono».
Alcune persone continuarono a vivere nel centro storico fino al 1980 quando, in seguito al terremoto in Irpinia e in Basilicata, l’amministrazione dispose in via cautelare le ultime ordinanze di sgombero. Lacicerchia ricorda anche una storia particolare, ossia quella dell’ultimo abitante di Craco: «L’ultima persona a vivere nel centro storico fu un certo Pietro Turzio: viveva in un locale al piano terra del palazzo Rigirone Cammarota, quello che ospitava il municipio e la caserma dei carabinieri. Rimase lì per una ragione molto pragmatica: gli era stata assegnata una casa a Craco Peschiera, ma si trattava di un alloggio inadatto alle sue esigenze, dato che era al terzo piano e suo padre aveva bisogno di assistenza costante. Per lungo tempo, Turzio rimase di fatto l’ultimo abitante di Craco: si spostò solo nel 1995, quando gli fu assegnato un nuovo alloggio popolare più a valle».
Anche la scelta di trasferire la popolazione a Craco Peschiera si rivelò infelice: «La pianura che Balboni indicò come un buon posto per realizzare il paese è ottima per prevenire le frane, ma lo è decisamente meno per quanto concerne le alluvioni. Il fiume Peschiera presenta infatti una coltre alluvionale che si riempie d’acqua e che, puntualmente, finisce per allagare le case degli abitanti», spiega Locoratolo. «Anche gli alloggi furono realizzati in maniera superficiale e in assenza di qualsiasi prevenzione: basti pensare che buona parte delle case popolari costruite a Craco Peschiera presenta dei locali interrati. Oggi quei locali sono dotati di pompe idrovore che servono a tirare fuori l’acqua che si insinua al loro interno». Ecco perché, quando parla di Craco, Locoratolo utilizza spesso l’espressione “tragico geodestino”: «Rende bene l’idea di un paese sfuggito a una frana e trasferito in un’area a rischio alluvionale».
Le particolari condizioni che determinarono il trasferimento dell’abitato di Craco hanno dato luogo a una circostanza particolare: le case che si possono vedere nel centro storico, benché inagibili, sono ancora oggi di proprietà delle persone che vi abitavano. Chi viveva nella città vecchia prima del 1963 può tornare a visitare la propria abitazione due volte l’anno, ottenendo un permesso dal comune.
Se lo spopolamento di Craco fu drammatico per le persone costrette ad abbandonare le proprie case, dal punto di vista dell’economia locale rappresentò un’occasione importante per valorizzare il territorio: negli anni, il fascino della “città fantasma” iniziò a suscitare l’interesse di molti.
Tra le altre cose, Craco divenne particolarmente apprezzata dall’industria del cinema. Diversi produttori scelsero di ambientare parte dei propri film all’interno del borgo, attratti da un centro storico suggestivo e particolare e da un paesaggio molto caratteristico, dominato dai “calanchi”, dei solchi creati dall’erosione degli strati superficiali del terreno, che si producono principalmente per l’effetto dello scorrimento delle acque su rocce argillose.
Ad esempio, Alberto Lattuada girò a Craco alcune scene del film La lupa (1953). In Cristo si è fermato a Eboli, film di Francesco Rosi del 1979, il luogo in cui Carlo Levi (Gian Maria Volonté) incontra il segretario comunale, una volta giunto in paese, è Corso Umberto, la strada principale. Il centro storico di Craco compare anche in King David (film del 1985 diretto da Bruce Beresford, girato principalmente a Matera), Sole anche di notte dei fratelli Taviani (1990), Ninfa Plebea di Lina Wertmüller (1996), Terra bruciata di Fabio Segatori (1999), Nativity di Catherine Hardwicke (2006), Quantum of Solace di Marc Forster (2008) e Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo (2010). Fu girata nel borgo anche una parte del kolossal di Mel Gibson La passione di Cristo, in particolare la scena dell’impiccagione di Giuda.
Se il cinema colse le potenzialità di Craco già a partire dagli anni Cinquanta, per il rilancio del sito come meta turistica fu necessario aspettare qualche decennio: dopo la frana, anche a causa dell’impreparazione delle amministrazioni, l’attenzione verso il borgo fu generalmente bassa, e il centro storico versò per circa trent’anni in uno stato di completo abbandono. La situazione cambiò nel 1995, quando Lacicerchia fu eletto sindaco di Craco per la prima volta: «Nel 1993 la legge Ronchey diede vita a un periodo di forte innovazione nella gestione dei servizi museali: prima di allora il patrimonio culturale non era ancora un tema centrale delle politiche pubbliche», racconta. «L’idea di valorizzare la città vecchia di Craco partì da lì».
Lacicerchia sottolinea come, fino agli inizi degli anni Novanta, i furti all’interno del borgo fossero un fenomeno frequente: «La città vecchia era sottoposta a un saccheggio costante. Venivano rubati mattoni, tegole e soprattutto balconi, remunerativi perché realizzati in ferro battuto. Una volta alcune persone smontarono pezzo per pezzo il portale della Chiesa: per fortuna una cittadina ci avvisò e riuscimmo a bloccarli per tempo».
Il primo intervento importante riguardò il restauro dell’antico monastero di San Pietro. Fu edificato nel 1630 per ospitare i frati francescani minori: apparteneva all’ordine anche un personaggio di spicco della storia di Craco, l’importante agronomo Nicola Onorati, noto anche con lo pseudonimo di “Columella”. Tra le altre cose, come riporta il chirurgo veterinario Andrea Alfonso Vachetta nel suo libro Elementi di patologia chirurgica degli animali domestici, Onorati fu il primo a comprendere che la pianta Rumex acetosella (acetosa rossa) rovinasse lo smalto e altre parti dei denti degli animali da allevamento a causa dell’acido ossalico. «Decidemmo di restaurarlo e di farne un info point per agevolare l’esperienza di tutti quei turisti che visitavano Craco per la prima volta. Il monastero è, ancora oggi, un’infrastruttura fondamentale per l’economia locale: i primi rudimenti sulla storia di Craco, compresa la storia di Onorati, di solito si apprendono lì».
Nel 1999, alla fine del primo mandato, Lacicerchia fondò assieme a Locoratolo la società Craco Ricerche: «Abbiamo creato questa società con due finalità: aprire un centro visite nella città vecchia e fare di Craco un laboratorio di ricerca e progetti nel campo delle tecnologie per la difesa del suolo». Nei successivi dieci anni, però, il piano per lo sviluppo di Craco si arenò: «Gli interventi in campo turistico e culturale non hanno avuto alcuno sviluppo, se non poche collaborazioni nel campo della produzione cinematografica».
Lacicerchia fu eletto per un secondo mandato nel 2009: «Quando sono rientrato in carica, in sinergia con Craco Ricerche, abbiamo ripreso le fila del progetto iniziato quindici anni prima, preparando il terreno per il potenziamento del sito: abbiamo istituito il Parco Museale Scenografico, avviato interventi di messa in sicurezza e recupero edilizio per rendere il centro storico visitabile in piena sicurezza e creato la “Craco Card”, un lasciapassare che dava accesso ai luoghi e ai servizi erogati nel Parco e nel Museo».
Nel 2010, il Centro Storico di Craco è stato inserito nella Watch List del World Monuments Fund, un’organizzazione privata con sede a New York che si occupa di preservare i manufatti architettonici storici e i siti con rilevanza storico-culturale in tutto il mondo. Nel 2014 il centro storico di Craco è stato dichiarato di notevole interesse pubblico dal ministero della Cultura, che lo ha posto sotto tutela secondo il Codice dei beni culturali e del paesaggio. «Col tempo abbiamo raggiunto risultati inimmaginabili fino a pochi anni prima. Il flusso turistico è aumentato moltissimo: in 7 anni, dall’apertura dei percorsi di visita nel 2012 e fino al dicembre del 2019, Craco ha accolto circa 30mila visitatori annui provenienti da tutto il mondo».
Per rendere Craco un posto ulteriormente attrattivo dal punto di vista turistico, Lacicerchia ha puntato molto sulla valorizzazione del concetto di “ghost town”: «Grazie alla collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Tito abbiamo dato avvio a un progetto per la realizzazione di un centro di documentazione digitale sul patrimonio storico culturale di Craco e delle altre ghost town dell’area del Mediterraneo». Il progetto si chiama Begin, ed è stato finanziato dalla regione Basilicata. L’obiettivo è la creazione di una rete di ghost town che coinvolga Craco e altre due “città fantasma” del Mediterraneo: Vilarinho das Furnas, un borgo abbandonato che si trova nella parte settentrionale del Portogallo, e Himara, un comune albanese nella prefettura di Valona, in corrispondenza della costa ionica del sud-ovest dell’Albania. «Vogliamo approfondire lo studio di questi siti per creare un centro di documentazione interamente dedicato ai paesi fantasma dell’area euro-mediterranea, diffondendo così delle buone pratiche per la geo-conservazione dei paesi abbandonati».
Oltre a curare la gestione integrale del sito, Craco Ricerche ha prodotto e distribuito prodotti audiovisivi, organizzato percorsi multimediali e digitali e ha dato avvio alla realizzazione di un archivio storico del sito. «Quando ho iniziato a fare il sindaco, la questione della memoria storica era centrale: la popolazione di Craco stava già invecchiando, e la maggior parte delle persone che vivevano nel centro storico era emigrata al Nord Italia e all’estero: ricostruire un senso di comunità era un compito difficile. La creazione di un archivio era funzionale a questo scopo».
Tra le persone che emigrarono all’estero dopo la frana del 1963 c’è anche Joe Rinaldi: nacque a Craco nel 1961 e visse nel centro storico fino al 1967, quando suo padre decise di spostarsi a Toronto per cercare lavoro. Rinaldi tornò a visitare Craco nel 1989, quando aveva 28 anni. In un primo momento, racconta, rivedere il centro storico fu straniante: «Quando rividi per la prima volta la mia casa rimasi senza parole: nel paese non c’era più nulla. I luoghi della mia infanzia erano quasi completamente scomparsi».
L’abitazione in cui Rinaldi trascorse i primi anni della sua vita si trova in Corso Umberto I, la strada principale del paese. «Era piccolissima, ma ci vivevamo in dieci: io, i miei genitori, mia nonna, i miei fratelli e le mie tre sorelle». Quando il centro storico era ancora abitato, Rinaldi era ancora un bambino. «Ero molto piccolo, ma ricordo tutto: le partite a calcio con gli altri bambini, gli animali che passeggiavano per il centro e i preparativi per la festa della Madonna della Stella». Nella città vecchia c’era anche un cinema: chi, come Rinaldi, abitava a Craco prima del 1963 ne parla spesso con nostalgia e affetto, perché ai tempi avere in città un luogo del genere non era la norma, tanto più in un paesino così piccolo (poco più di duemila abitanti): «Era un’attrazione grandiosa e quasi avveniristica, lo percepivamo come un’innovazione».
Nei primi anni Duemila, facendo un po’ di ricerche, Rinaldi riuscì a entrare in contatto con altri crachesi residenti in Canada e negli Stati Uniti, come Fred Spero, Lina Camporlengo e Robert Rubertone. «Abbiamo iniziato a sentirci spesso e a scambiarci informazioni su Craco via email. Col tempo, abbiamo creato una comunità di persone accomunate dalla volontà di riconnettersi con le proprie radici», racconta. Negli anni, complice il passaparola, questa comunità di crachesi all’estero si è allargata sempre di più, fino alla fondazione, nel 2006, della Craco Society, un’associazione nata per preservare la cultura, le tradizioni e la memoria storica di Craco.
«Siamo dei fanatici di Craco» dice Rinaldi. «Ci occupiamo di fare ricerca per ricostruire gli alberi genealogici dei crachesi emigrati negli Stati Uniti e in Canada, preserviamo la cultura e le tradizioni del paese, ci incontriamo per festeggiare insieme le ricorrenze e traduciamo in inglese ogni tipo di documento utile a soddisfare la nostra curiosità».
Tra le altre cose, la Craco Society ha tradotto il volume Note storiche sul comune di Craco, scritto da Dino D’Angella, ai tempi professore di storia delle scuole superiori, nel 1986. Attualmente, il libro è irreperibile in italiano: «La “colpa” è nostra: prima di procedere alla traduzione, abbiamo comprato le ultime copie disponibili su Amazon» dice Fred Spero, i cui nonni si spostarono da Craco per trasferirsi negli Stati Uniti agli inizi del Novecento. «La cosa di cui andiamo più fieri è la serie di filmati di repertorio che abbiamo pubblicato sul nostro sito e su YouTube». Le riprese più antiche risalgono al 1929: furono registrate da una giovane coppia di crachesi che viveva a New York. «Visitarono Craco per la loro luna di miele: una scelta un po’ inconsueta, che però ci ha regalato una testimonianza unica».
Nel 2007 Spero, Rinaldi, Camporlengo, Rubertone e gli altri componenti della Craco Society si incontrarono ad Albany, la capitale dello stato di New York, per prendere parte al primo raduno dell’associazione. «Fu uno dei giorni più belli della mia vita: capii che eravamo riusciti a costruire un senso di comunità fortissimo. L’anno dopo organizzammo un viaggio di gruppo e, per la prima volta, visitammo Craco tutti insieme», racconta Rinaldi.
Il prossimo 22 ottobre i componenti della Craco Society si incontreranno al 113 di Baxter Street, a New York, per celebrare la festa di San Vincenzo, il patrono locale: «È una ricorrenza importante e molto piacevole: riunirci ci permette di ricreare una “nostra” Craco anche all’estero».