Fiume grande fiume piccolo
«A inizio estate le mie escursioni oltre il perimetro dell’albergo avevano un intento scientifico, per così dire. Le cartine geografiche islandesi sono infatti discordi nel riportare il toponimo del fiume che scorre alle spalle dell’Hótel Skúlagarður. Alcune lo indicano come Litlaá, che vuol dire fiume piccolo; altre come Storá, che vuol dire fiume grande. Altre ancora lo chiamano Litlaá in corrispondenza delle prime anse e Storá più avanti. Insomma, il disaccordo è totale. Le due qualifiche di questo fiume sono proprio inconciliabili: piccolo o grande, senza compromessi»
Per una serie di circostanze impreviste, da un mese e mezzo dormo dentro un piccolo teatro islandese. In platea, proprio. Ho addossato una brandina a una delle pareti in fondo alla sala, accanto a quattro prese di corrente, e mi sono sistemato lì. Due poltroncine rosse mi fanno da armadio; le altre sono accatastate al centro, di fronte al palco, una sull’altra. Un fascio di luce penetra dalle alte finestre laterali, facendosi largo tra le pieghe sinuose di una tendina rossa fatta della stessa stoffa del sipario, aperto.
Questo teatro dove abito adesso non è in funzione: è l’appendice di una struttura di campagna risalente agli anni ’50 che nel tempo ha operato come scuola, convitto, centro ricreativo e, da ultimo, alberghetto. Le ex ritirate degli studenti sono attualmente tredici camere doppie, arredate con gusto essenziale, che da giugno a settembre accolgono i turisti che si spingono in questo lembo d’Islanda. Nel raggio di cinquanta chilometri non ci sono altre strutture ricettive di rilievo, e l’albergo si riempie quasi tutte le sere: anche per questo, in attesa che l’alta stagione diventi un po’ più bassa, io dormo nel teatro.
In cambio dell’ospitalità, do una mano con i check-in degli ospiti ritardatari, che attendo fino a notte fonda. Per il resto ho molto tempo per leggere, pensare e camminare verso il fiume. Non so se trascorrerò altre estati quassù dopo l’attuale, e mi piace l’idea che queste settimane siano una sorta di terapia d’urto: un’ultima, energica dose d’Islanda cui sottopormi nel tentativo di capire se c’è rimasto qualcosa dell’infatuazione iniziale per questo Paese; se io e questa terra supereremo la crisi del settimo anno – e magari anche se, strada facendo, mi tornerà un po’ di voglia di scriverne.
A inizio estate le mie escursioni oltre il perimetro dell’albergo avevano un intento scientifico, per così dire. Le cartine geografiche islandesi sono infatti discordi nel riportare il toponimo del fiume che scorre alle spalle dell’Hótel Skúlagarður. Alcune lo indicano come Litlaá, che vuol dire fiume piccolo; altre come Storá, che vuol dire fiume grande. Altre ancora lo chiamano Litlaá in corrispondenza delle prime anse e Storá più avanti. Insomma, il disaccordo è totale. Non si tratta di aggettivi interscambiabili, derivanti come talvolta capita da interpretazioni leggermente diverse delle fonti. Uno dice piccolo, un altro modesto: ci può stare. No. Le due qualifiche di questo fiume sono proprio inconciliabili: piccolo o grande, senza compromessi.
Qual è la verità? Cosa succede a un certo punto a questo schrödingeriano corso d’acqua che è allo stesso tempo trascurabile e grandioso? C’è un valico oltre il quale la portata cambia drasticamente, il letto s’amplia, dal pelo dell’acqua spuntano draghi fiammeggianti e il mistero viene risolto? Dalle mappe non si deduce molto, e internet non offre spiegazioni. Non è una questione di vita o di morte, questa del fiumicciatolo islandese piccolo o grande, me ne rendo conto. Ma è bastata a solleticare quella che nel suo nuovo libro Patrik Svensson definisce «linfa vitale», «impulso potente e indomabile», «volontà di comprendere fine a se stessa»: la mia intorpidita curiosità. Inoltre, non è che quest’estate avessi di meglio da fare.
Esclusa una manciata di fattorie disseminate oltre il finestrone della sala colazioni, c’è quasi nulla nelle immediate vicinanze dell’hotel. Per raggiungere le attrazioni più famose dell’area occorrerebbe una macchina, o una bicicletta: ma non le ho. A dieci chilometri da qui si trova Ásbyrgi, un impressionante canyon scavato dal fiume Jökulsá tra i nove e i duemila anni fa in una sequenza di catastrofiche inondazioni seguite a eruzioni vulcaniche subglaciali. Se siete cultori della poesia nordica, potreste esservi imbattuti in Ásbyrgi leggendo una delle odi di Einar Benediktsson, neoromantico, che lo definì «la perla della nostra orgogliosa terra». Se siete appassionati di post-rock, è probabile che abbiate ammirato il canyon nel video di quella che penso sia la più riuscita esecuzione live di Hoppípolla dei Sigur Rós.
Poco oltre Ásbyrgi, procedendo verso l’entroterra, dominano gli spruzzi iridati di Dettifoss, la cascata più poderosa del continente. Di quale continente, be’, è un’ottima domanda, dal momento che quest’area giace per intero nella Zona Vulcanica Nord, vale a dire nell’estremo più settentrionale della faglia a forma di boomerang che incide l’Islanda, tagliandola geologicamente in due: di qui il Nordamerica, di là l’Eurasia. Noi ci troviamo nel mezzo, nella terra di nessuno dove l’Islanda, lacerazione dopo lacerazione, viene generata.
Ovunque nei campi attorno a me sono spaccature, gole, caverne, piccole e grandi crepe che ho l’impressione riproducano in superficie le rotture occorse dentro di me negli ultimi tempi, la mia fiducia nel futuro fatta a pezzi dalle sciagure climatiche e geopolitiche di un mondo che mi atterrisce ogni giorno di più, in cui è sempre più insicuro vivere – figurarsi scrivere. La provvisorietà ultima di ciascuno, questa condizione che ci qualifica come umani e che l’Islanda per prima mi ha aiutato ad abbracciare, col tempo l’ho in qualche modo digerita: ma che la fine autoindotta di tutto fosse un’eventualità realizzabile a breve termine, addirittura nell’arco della mia stessa vita, questo non l’avevo messo in conto. Ed eccomi a vagare in questo regno di mezzo.
Mi aggiro tra i cespugli di salice e betulla nana che spennellano di verde una superficie altrimenti scurissima, nera come le tonnellate di basalto finissimo che lo Jökulsá ha depositato instancabile in quest’area – la quale è, prima di tutto, il suo scenografico commiato alla terra: il suo delta. Jökulsá vuol dire “fiume del ghiacciaio”, dove il ghiacciaio è l’immenso Vatnajökull, che domina (ancora non per troppi decenni, temono concordi gli scienziati) il sud-est dell’Islanda.
Lo Jökulsá scorre pertanto da sud verso nord, erodendo gli altipiani lavici, scavando scenografiche gole e infine immettendosi, a meno di otto chilometri dal mio teatro, nel mar di Groenlandia: il suolo che calpesto l’ha generato lui, letteralmente, nel confusionario andirivieni tipico dei fiumi glaciali. Sebbene tracce dello Jökulsá siano ovunque intorno a me, non è il suo corso a definire i confini del territorio di pertinenza dell’Hótel Skúlagarður. Questi sono segnati a sud e ovest dalla strada numero 85 (che collega il villaggio di Húsavík, dove ho vissuto per quasi sei anni, all’estremo sperone nordorientale dell’isola), mentre a nord e est da un altro fiume, decisamente più corto e meno rilevante dello Jökulsá, quello dal doppio nome cui accennavo prima. Sono le sponde di questo fiume misterioso che raggiungo tutti i pomeriggi, ed è qui che sono seduto a prendere appunti per questo resoconto sulla differenza che c’è – se c’è – tra il grande il piccolo, il cruciale e l’irrilevante.
Per tutto luglio le mie spedizioni al fiume sono state vane, frustrate dalla strenua opposizione portata da individui che bazzicano il Litlaá da molto prima di me. Lungo le sponde di questo fiume nidifica infatti la sterna artica, e fidatevi: non avete voglia di relazionarvi con sterne artiche che pattugliano i propri siti riproduttivi. Longilinee, dotate di ali più lunghe affusolate di quelle dei gabbiani e di una coda biforcuta, le sterne artiche sono un prodigio della natura. Sono considerate l’essere vivente che affronta le migrazioni più lunghe di tutti su questo pianeta. Andata e ritorno dal Circolo Polare Artico all’Antartico, seguendo circonvolute rotte modellate in base ai venti dominanti: il totale ammonta a più di settantamila chilometri all’anno. Moltiplicati per la speranza di vita media di una sterna, che si aggira sui trent’anni, significa che nel corso della propria esistenza ciascuno di questi frenetici viaggiatori percorre una distanza pari a circa sei volte quella tra la Terra e la Luna, in un perenne inseguimento della luce e dell’estate, l’unica stagione che una sterna conosce.
Quest’estrema abitudinarietà si riflette in una monogamia di massima e nella tendenza a tornare ogni anno nei medesimi siti di nidificazione, che evidentemente a un certo punto le sterne devono considerare di loro esclusiva proprietà. Si spiega anche così la loro aggressività, inusuale per un uccello di quelle dimensioni. La sterna artica non si fa alcuna remora ad attaccare nemici molto più grandi di lei, siano essi rapaci, gatti, volpi o esseri umani. Online si trovano video di sterne intente ad aggredire niente meno che orsi polari. Innervosite dall’appropinquarsi alla propria prole di estranei, usano il loro puntuto becco rosso, perfetto per la pesca subacquea, come arma contundente: puntano ripetutamente la testa degli invasori, non di rado fino a farla sanguinare.
Per questo in Islanda è sconsigliato avventurarsi in aree ad alta densità di sterne, o comunque non senza caschetto da bici in testa e bastone di difesa tra le mani. Inconfondibile il suo verso intimidante: un urlo acuto, stridulo, che in lingua islandese le ha procurato l’onomatopeico nome di kría. Minacciosa la sua danza di guerra: un movimento sincopato in cui a fasi di sospensione aerea seguono puntate vieppiù precipitose verso terra, manovre degne di una sequenza di Hitchcock o di quel videogioco di uccelli furiosi popolare qualche anno fa. Nel momento in cui, un giorno di inizio luglio, giunto sulle rive del Litlaá ho scorto una dozzina di sterne alzarsi in volo una dopo l’altra, come a trasmettersi l’allarme a vicenda, e cominciare a venire a turno verso di me, indugiando cinque-sei metri sopra il mio capo nel chiaro tentativo di prendere le misure prima di lanciare l’offensiva, ho compreso che la mia esplorazione del fiume era conclusa ancor prima di cominciare: me la sono svignata, e a passo svelto.
Respinto dai volatili, ho riparato presso gli umani. La settimana dopo sono andato a trovare una dei circa sessanta residenti totali che popolano l’unità amministrativa cui fa capo il mio albergo. Sigþrúður Stella Jóhannsdóttir (d’ora in avanti solo Stella) abita poche fattorie più in là ed è esperta di botanica artica. È cresciuta qui, ha frequentato le medie a Skúlagarður, è salita sul palco del mio teatro per tre recite di fine anno: confidavo che una con un curriculum del genere fosse in grado di aiutarmi a risolvere il mistero del Litlaá. Abbiamo chiacchierato per un’ora nel suo giardino in una rara giornata senza vento, mentre il cane Bolti ci implorava di lanciare il più lontano possibile la sua inseparabile palletta di gomma.
Per prima cosa Stella mi ha spiegato che il Litlaá è un fiume tutt’altro che banale. Ha la peculiare caratteristica di originare da due sorgenti diverse, distanti tra loro poche decine di metri ma per il resto antitetiche: una sotterranea, l’altra superficiale; una calda, l’altra fredda. La sorgente sotterranea, di origine geotermale, si trova a dieci minuti a piedi da dove sto io, ai margini di una parvenza di centro abitato (sei fattorie e una guesthouse) chiamato Keldunes. A Keldunes tre secoli fa nacque il governatore Skúli Magnússon, grande modernizzatore dell’Islanda e dedicatario del mio alberghetto: Skúlagarður si traduce come “giardino di Skúli”.
La sorgente fredda del Litlaá è invece un lago che fino a 47 anni fa non esisteva nemmeno. Si formò nel gennaio 1976 in seguito a un terremoto di magnitudo 6.3, una delle più violente spezzature occorse sull’isola in tempi storici: la placca eurasiatica e quella nordamericana scattarono in direzioni opposte, la terra di mezzo sprofondò (subsidenza, dicono i geologi) e una delle innumerevoli falde acquifere serpeggianti nel sottosuolo lavico conobbe la luce sotto forma di lago. Si chiama Skjálftavatn e significa “lago della scossa”. Il giorno della scossa Stella si trovava nell’auletta che oggi è la reception dell’albergo: aveva lezione di danese, ricorda alla perfezione il grido di paura lanciato dalla sua compagna di banco. Che il sisma avesse partorito un lago nuovo di zecca sarebbe stato scoperto soltanto a primavera, quando lo scioglimento del manto di neve invernale svelò ai fattori di Keldunes quattro chilometri quadrati di acqua azzurrissima.
La confluenza di queste due sorgenti fa sì che la temperatura media del Litlaá si attesti sui 10-12 gradi per quasi tutto l’anno. Non troppo alta, non troppo bassa: una specie di paradiso per i salmerini e le trote di mare, che lo prendono letteralmente d’assalto. Il Litlaá è uno dei fiumi più pescosi d’Islanda, e dalle sue acque è stata estratta nel 2004 la trota di mare più in carne mai pescata sull’isola: dieci chili e mezzo.
Ma quindi, ho chiesto a un certo punto a Stella, questo nostro fiume gravido di pesce è piccolo o grande? E allora Stella mi ha sorriso e mi ha spiegato che fino a due secoli e mezzo fa i corsi d’acqua in questione erano due. Il Litlaá era un affluente dello Storá, il quale effettivamente era grande: era uno dei rami in cui si distendeva lo Jökulsá, il fiume che viene dal ghiacciaio, prima di raggiungere il mare. Dopo che il più recente dei suoi cambi di corso ha indirizzato lo Jökulsá più a est, dove scorre oggi, allo Storá di imponente è rimasto il nome, ricordo di un passato di grandezza che non è detto non torni, un giorno. Nell’attesa, le denominazioni originarie vengono mantenute entrambe: il Litlaá diventa Storá nel punto in cui un tempo s’immetteva nel corso d’acqua maggiore. «Sembra che qui intorno non succeda nulla, ma in realtà non c’è mai da annoiarsi», ha sintetizzato Stella prima di congedarsi e andare a raccogliere i primi mirtilli dell’anno.
Confortato dalla soluzione dell’enigma – e dalla dipartita delle sterne artiche verso i loro lidi antartici – dai primi di agosto in avanti ho finalmente potuto risalire il corso del Litlaá. Con un caffè in una mano e app d’identificazione di piante e fiori nell’altra, ho preso a seguire la piccola traccia nell’erba, non più larga di un palmo, che segue pedissequamente l’andamento del fiume, sempre a mezzo metro dalla riva o poco più. In islandese si chiama kindastígur, il sentiero delle pecore, dal momento che sono esse a marcarlo, tra una ruminata e l’altra, nella loro splendente stagione di libertà. Essere pecora in Islanda d’estate, quando il sole non tramonta e il mondo è una tavola imbandita, credo sia tra le esperienze sensoriali più appaganti che un essere vivente possa sperimentare su questo pianeta.
Non che per gli umani sia un supplizio, beninteso: tuttora graziata dalla devastazione delle peggiori heat waves, il massimo che si sperimenta in Islanda nella bella stagione è un gradevole calduccio, il tepore di quei giorni di luce piena in cui le acque del Litlaá sono il paradigma della trasparenza, al punto che dalle rive è possibile distinguere a uno a uno i filamenti verticali della verdeggiante foresta subacquea tra i cui mini-fusti svicola, di tanto in tanto, la sagoma argentea di un salmerino. I pescatori non li vedo quasi mai: frequentano la sponda opposta del fiume e arrivano verso l’ora del tramonto, quando io ho il mio daffare in reception.
Solo come d’Islanda e in pochi altri luoghi si può essere, nella settimana di prova gratuita dell’app di riconoscimento botanico ho imparato a distinguere piante dai nomi incredibili: coda di volpe dei prati, centocchio, parnassia palustre, ventaglina, caglio zolfino. A ridosso dell’alveo, ho conosciuto la grazia blu del nontiscordardimé delle paludi. Ho eletto a mia graminacea preferita l’agrostide capillare, fitta e sottile, apprezzata nei campi da golf di tutto il mondo, i cui slanciati capellini producono da lontano un’esotica aura viola. È attraverso uno di questi campicelli di agrostide che si accede al mio cantuccio fluviale preferito.
Ci troviamo a metà strada tra l’hotel e le due sorgenti del Litlaá: qui la brughiera degrada verso il fiume a balzi, l’ultimo dei quali forma, a ridosso dell’acqua, una specie di gradinata, simile a quelle di certi non più moderni palazzetti dello sport, sulla quale viene spontaneo accomodarsi. La seduta è soffice, abbellita da cespuglietti di ranuncoli e trifogli. Di fronte, il Litlaá avanza gorgogliando attraverso un arcipelago di isolette, a loro volta fiorite, distribuite senza apparente criterio tra una sponda e l’altra. Una famiglia di morette s’intrattiene come d’abitudine nei pressi della più grande di esse, aggirandola al pari di automobiline in una rotatoria, tra inintelligibili mormorii. L’impressione, forse la più caratterizzante dell’esperienza islandese nel suo complesso, è che tutto sia stato piazzato lì un attimo prima, per te e nessun altro; che tu sia l’osservatore zero di quadretti talmente idilliaci da incutere quasi timore, spaventosi nella loro perfezione e nel risvolto di inquietudine che inevitabilmente contengono: perché c’è sempre un filo di malinconia nella bellezza, di fine in ogni inizio, ed è nel connubio tra sublime e provvisorio che riconosciamo i passaggi qualificanti delle nostre esistenze.
Credo che l’intento ultimo di chi a vario titolo utilizza un linguaggio codificato per universalizzare un sentimento privato sia provare a prolungare nel tempo e nello spazio questi frangenti di cui percepiamo l’irripetibilità nel momento stesso in cui accadono. Ciò che mi ha sempre sedotto di quest’isola è la costanza con cui riproduce simili passaggi: la facilità con cui sottopone, attraverso i suoi contrasti, al fuoco vitale dell’ispirazione. Se tuttavia alcuni anni fa la mia fascinazione per la transitorietà di tutto ciò che esiste in Islanda era più che altro platonica, diluita dal conforto dei tempi geologici (dalla ragionevole certezza che né la piena dello Jökulsá che inonderà il nord-est, né l’eruzione del Katla che renderà inabitabile il sud avverranno a stretto giro), oggi la prospettiva concreta della distruzione del nostro pianeta o della nostra specie produce l’effetto psicologico di accrescere a dismisura il valore del tempo che ci è concesso: spenderlo nei luoghi che hanno il potere di smuovere qualcosa di incandescente dentro di noi assomiglia sempre più a un’urgenza. Ciascuno ha il suo posto d’elezione, l’angolo di mondo che lo spinge a scandagliarsi, a ricomporsi e spezzettarsi ancora, talvolta persino a scrivere: per me, non so ancora per quanto, continua a essere l’Islanda.
Da qualche settimana, a queste latitudini è tornata la notte. L’estate è agli sgoccioli, come la libertà delle pecore. Gli uccelli migratori sono andati via quasi tutti. Tra poche settimane sarà la volta dei pescatori e dei turisti: io a quel punto lascerò il teatro, non senza un pizzico di nostalgia, e mi trasferirò in una delle ex camere degli studenti. Dalla numero 13, in fondo a sinistra, la vista si apre su una placida ansa del Litlaá. Oltre l’ultima fattoria, in un pianoro senza più alcun segno di civiltà, il piccolo fiume diventa grande, fa una svolta a est e si getta nel fiume che viene dal ghiacciaio. Fluiscono insieme verso la vastità del mar di Groenlandia.
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