Da dove arriva la crisi di Tim

Era una delle più importanti compagnie di telecomunicazioni al mondo, mentre oggi deve vendere la sua rete per ripianare debiti che si trascinano da vent'anni

(EPA/DANIEL DAL ZENNARO)
(EPA/DANIEL DAL ZENNARO)
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Negli ultimi anni la società italiana di telecomunicazioni Tim è stata al centro di una serie di trattative per vendere il suo bene più importante, la sua rete: da giugno è in corso un negoziato in esclusiva per cederla al fondo statunitense KKR, e nell’operazione sarà coinvolto anche il ministero dell’Economia, che acquisterà il 20 per cento dell’azienda in cui confluirà tutta l’infrastruttura. L’accordo fra governo e KKR per un’offerta comune era stato trovato due settimane fa, ma prima di essere ufficializzato doveva passare dal Consiglio dei ministri: il passaggio è avvenuto lunedì sera.

L’operazione era stata molto seguita perché di interesse nazionale, visto che la rete di Tim è l’insieme di strutture che permettono di parlare al telefono e di usare la connessione internet in Italia. Ma anche perché coinvolge una delle più importanti società italiane che però sta attraversando una profonda crisi da tempo. Negli ultimi vent’anni, Tim è passata dall’essere una società tecnologica in grado di competere con le più grandi al mondo, al trovarsi costretta a vendere il proprio bene più importante per ripianare i miliardi di euro di debiti che ha accumulato nel tempo.

Tim è un’azienda privata solo dal 1997: prima era pubblica, si chiamava Telecom Italia e venne quotata in borsa dopo la decisione del governo di Romano Prodi di privatizzarla, sulla scia di una tendenza in atto anche all’estero nel settore delle telecomunicazioni. Allora era una compagnia telefonica di successo e, come ricorda Bloomberg, tentò addirittura di comprare la società Apple, che stava cercando di affermarsi sul mercato ancora dominato dalla IBM. Una delegazione dell’azienda si presentò dal cofondatore e amministratore delegato, Steve Jobs, con un piano per acquistare la società per 5 miliardi di dollari, ma Jobs rifiutò.

Telecom Italia allora valeva circa 90 miliardi di euro, aveva un debito trascurabile, deteneva partecipazioni in moltissimi gruppi tecnologici in tutto il mondo e dava lavoro a più di 120mila dipendenti. Dal 2019 la compagnia si chiama Tim e oggi è gravata da oltre 30 miliardi di euro di debito, controlla solo una società al di fuori del suo mercato nazionale – in Brasile – e ha un terzo dei dipendenti. È la società europea di telecomunicazioni più indebitata e la vendita della rete era considerata inevitabile per ripianare i conti.

Dopo la privatizzazione, nel 1999 la partecipazione di controllo dell’azienda fu acquistata dalla società informatica Olivetti, con una storica operazione del manager Roberto Colaninno: una cosiddetta “scalata ostile”, espressione con cui si definisce l’acquisto delle azioni di un’azienda quotata in borsa contro la volontà dei vertici di quella stessa azienda.

L’operazione di Colaninno è il primo e fondamentale passaggio che ha portato Telecom Italia e poi Tim alla crisi di oggi. Fu una delle più controverse operazioni ostili della storia recente italiana, perché venne compiuta su una società di interesse strategico per il paese, oltretutto con il beneplacito del governo di Massimo D’Alema che si disinteressò delle forti opinioni contrarie di molti dirigenti pubblici di allora. Tra questi c’era anche quella di Mario Draghi, che era direttore generale del Tesoro, ma anche la stampa e in generale l’opinione pubblica pensavano che fosse una pessima idea avallare l’operazione.

Questa operazione consistette in un’offerta pubblica di acquisto (OPA), formalmente presentata da Tecnost, società di proprietà di Olivetti. Venne finanziata quasi tutta a debito per un valore di 102mila miliardi di lire, circa 85 miliardi di euro di oggi. Di suo Olivetti ci mise solo una piccola quota, ricavata peraltro dalla vendita di Omnitel e Infostrada a una concorrente di Telecom Italia, Vodafone. La parte rimanente fu coperta da un grosso prestito di un gruppo di banche, sia italiane che straniere.

A questo punto la storia si fa intricata, ma per individuare l’origine del debito di Tim è necessario capire il sistema “a piramide” con cui Colaninno riuscì a concludere l’OPA ostile.

Il debito per finanziare l’operazione era di Olivetti, che lo aveva contratto attraverso una sua controllata, Tecnost. Tuttavia Olivetti era a sua volta controllata dalla società finanziaria lussemburghese Bell, in cui Colaninno e il manager Emilio Gnutti avevano coinvolto un grosso gruppo di investitori. La Bell, infine, era di proprietà di due altre società, la Fingruppo di Colaninno e la Hopa di Gnutti: con questa specie di scatole cinesi era idealmente possibile ottenere il controllo di Telecom acquisendo una partecipazione in queste due società al vertice.

Era chiaro che sarebbe stata un’operazione rischiosa. D’Alema avrebbe potuto fermarla attraverso il cosiddetto golden power, uno strumento a disposizione del governo per limitare l’influenza degli azionisti (oggi principalmente stranieri) in quelle società e in quei settori che il governo considera strategici per il paese. Il governo tuttavia rimase neutrale e definì “capitani coraggiosi” gli imprenditori che avevano preso parte alla scalata.

Nel 2003 Telecom e Olivetti vennero fuse, e anche allora ci furono contestazioni. Di fatto con la fusione il debito contratto da Olivetti per l’OPA ostile del 1999 ricadde sulla stessa Telecom, che non riuscì mai a liberarsi del tutto di quel peso.

Gli avvicendamenti societari di quegli anni avvennero in un momento di transizione per tutto il settore europeo delle telecomunicazioni, quando alcune aziende si fusero o ne acquistarono altre per creare gruppi societari più grandi, in grado di dominare sul mercato. Telecom Italia però rimase in disparte e quindi subì la concorrenza di quei gruppi, con la conseguenza che negli anni successivi diminuirono le vendite e si ridussero i guadagni. La proprietà cambiò più volte, e anche nella dirigenza mancò un minimo di continuità che avrebbe permesso di stabilizzare la situazione.

Ma tutto questo spiega solo in parte la crisi di Tim. Un’altra ragione, più recente, sta nelle caratteristiche del mercato italiano delle telecomunicazioni, dove la concorrenza è una delle più alte d’Europa.

Per esempio, gli abbonamenti mensili per i servizi di rete fissa in fibra possono costare dai 20 ai 25 euro, circa un quarto di quanto paga la maggior parte dei consumatori statunitensi. E la concorrenza si è ulteriormente inasprita negli ultimi anni con l’arrivo di nuovi operatori. Soltanto per fare un esempio, nel 2018 l’azienda francese Iliad si inserì nel mercato della telefonia mobile, dando un notevole impulso alla concorrenza del settore con offerte a basso costo.

Tim si è trovata a competere in questo mercato e ad affrontare i cambiamenti del settore delle telecomunicazioni in condizioni di forte indebitamento, e quindi senza spazio di manovra, senza poter intraprendere un nuovo corso aziendale che le avrebbe permesso di adattarsi alla concorrenza. La vendita della rete è stata quindi una scelta obbligata per rimettere a posto i conti.

Nel negoziato le offerte più rilevanti erano state presentate da due soggetti, in competizione tra loro: il primo è il fondo statunitense KKR, mentre il secondo è una cosiddetta “cordata” formata dal fondo australiano Macquarie e da Cassa Depositi e Prestiti, l’istituto finanziario controllato dal ministero dell’Economia. Da giugno Tim aveva deciso di trattare in esclusiva con KKR.

L’operazione prevede l’acquisto di NetCo, una nuova società che includerà tutta l’infrastruttura di rete di Tim, le attività di FiberCop (azienda che si occupa dello sviluppo e della posa dei collegamenti in fibra ottica, di cui Tim è la principale azionista e di cui KKR ha già il 37,5 per cento delle quote) e una partecipazione in Sparkle (società che gestisce infrastrutture di rete internazionali, di proprietà di Tim).

La vicenda societaria di Tim si inserisce in un contesto più ampio in cui diversi governi, non solo quello italiano, stanno tentando di acquisire di nuovo un controllo su un settore fondamentale per lo sviluppo del paese, dal momento che dalla rete passano tutte le comunicazioni. Inoltre il controllo pubblico potrebbe garantire l’arrivo dell’infrastruttura nelle zone periferiche, che oggi non sono coperte o che sono servite male.

Il governo acquisterà il 20 per cento della rete di Tim con un investimento che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha quantificato in un massimo di 2,2 miliardi di euro. Il Consiglio dei ministri di lunedì sera ha approvato due decreti: con uno ha formalizzato l’accordo con KKR, con l’altro ha stanziato i fondi necessari per l’offerta. Il valore della vendita della rete non è ancora del tutto definito, ma si parla da mesi di una cifra compresa fra i 20 e i 23 miliardi di euro.

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