Ispirato a una storia vera

«Ogni anno, praticamente senza eccezioni, la classifica dei libri più venduti in Italia include quasi esclusivamente romanzi. Solo uno dei primi dieci libri più letti nel nostro Paese negli ultimi tre anni era un saggio. Non ho inclinazioni per le teorie del complotto, e non credo a un establishment letterario che decide a quale opera affibbiare una patente di “Alta Letteratura” senza lasciarsi guidare dal proprio giudizio estetico, ma i semplici dati sembrano dimostrare lo scollamento sempre più ampio tra “Paese dei lettori” e Paese dei propugnatori di una narrativa di qualità»

Due bambini della scuola Merkaz Ofek vestiti da cavallo di Troia alla parata del Purim di Elyashiv, Valle di Hefer, Israele, 19 marzo 2019 (AP Photo/Ariel Schalit)
Due bambini della scuola Merkaz Ofek vestiti da cavallo di Troia alla parata del Purim di Elyashiv, Valle di Hefer, Israele, 19 marzo 2019 (AP Photo/Ariel Schalit)
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Difficile fare a meno di notare che sempre più spesso la dichiarazione “ispirato a una storia vera” campeggia baldanzosamente sui primi fotogrammi di molti film e serial. Raccontare “fatti reali” è così frequente che spesso, come nel caso di Oppenheimer di Christopher Nolan, si lascia ai giornali il compito di spiegare che cosa sia vero e cosa no. Per quanto mi riguarda ho sempre considerato la frase di cui sopra una specie di disclaimer (antipatico ma efficace anglicismo che sta per «clausola di esclusione di responsabilità»): è un po’ come se la produzione del film in questione mi invitasse preventivamente a non pretendere chissà quali colpi di scena da una vicenda accaduta davvero, ricordandomi con una specie di bonaria pacca virtuale sulla spalla che la realtà, nonostante la nota boutade, quasi mai supera la fantasia.

La mia impressione è che in ambito letterario la tendenza sia più o meno la stessa. Dalle pagine del suo ultra citato On Writing, Stephen King, maestro inarrivabile della letteratura di alto livello inserita in una confezione di genere e dunque considerata minore/commerciale (quattro definizioni e aggettivi – di qualità, di genere, minore, commerciale – che uso per convenzione, ma delle quali non saprei circoscrivere bene i rispettivi ambiti) ammonisce i giovani scrittori a non perdere di vista l’obiettivo dell’autenticità, essendo molto probabile che i loro futuri lettori li assolveranno da parecchie colpe, dai difetti stilistici a qualche cedimento nell’architettura della trama, ma difficilmente perdoneranno loro l’affettazione e la mancanza di sincerità.

Ho l’impressione che negli ultimi anni “il consiglio del Re”, a mio parere incontestabile, sia stato interpretato e declinato proprio a favore della tendenza alla biografia, all’autobiografia, al rinnovato interesse per il romanzo storico e a tutte quelle contaminazioni letterarie che hanno una solida base “ispirata a storie realmente accadute”: l’idea di molti scrittori e scrittrici, forse, è che si rischi molto meno di essere vaghi o insinceri quando si riproducono sulla carta vicende personali, o le vite di persone famose, o si realizzi un solido ancoraggio tra fiction pura e vicende storiche più o meno note.

Insomma si scriverebbero più storie «ispirate a fatti realmente accaduti», e quindi più di sé, per essere più autentici e per suscitare la commozione collettiva in modo più immediato, senza troppo dipendere dalla qualità letteraria, adottando in qualche modo lo stesso meccanismo emotivo dei social media. È l’accusa rivolta da molti, per esempio, al memoir di Ada D’Adamo, Come d’aria, ultimo vincitore del Premio Strega. Ciò che mi sembra vagamente paradossale è accusare uno strumento concepito per produrre emozioni (molti psicologi sostengono che la narrativa serva soprattutto a questo: a promuovere l’alfabetizzazione emotiva) di aver goduto di una corrente di opinioni favorevoli basata proprio sulle suggestioni viscerali indotte nei suoi lettori. Basterebbe citare l’illustre opinione di Nabokov, secondo il quale il lettore ideale (e quindi, sotto molti aspetti, il giurato ideale) dovrebbe lasciarsi guidare dalle proprie emozioni per cogliere quelle dell’autore.

Una ricerca dei sociologi David Comer Kidd ed Emanuele Castano della New School for Social Research di New York, apparsa qualche anno fa sul Guardian, conferma che la narrativa migliora le capacità individuali di comprendere/accogliere le emozioni e i sentimenti altrui, ma sottolinea che questo genere di competenza è ottimizzata solo dalla «letteratura di qualità». Che s’intende per tale? La risposta dei due ricercatori è comprensibilmente lacunosa (migliaia di critici si accapigliano sulla questione da sempre), ma sembra comunque vagheggiare l’idea di una certa complessità/profondità del testo, in qualche modo collegata alla teoria nabokoviana di interpretazione individuale dell’opera che deve necessariamente tendere alle intenzioni originali dell’autore: quest’ultima affermazione parrebbe sottintendere che in un libro di scarso valore le finalità dell’autore sono talmente palesi che a chi legge è richiesto pochissimo sforzo.

Quello che mi sembra stia accadendo in Italia, e forse anche altrove, è che il concetto di qualità letteraria tenda a sovrapporsi alla non fiction, quasi che inventare storie sia diventato in qualche modo disdicevole. Negli ultimi anni molti scrittori e scrittrici italiane stanno progressivamente abbandonando la fiction pura – i classici romanzi – in favore della saggistica, delle biografie e della narrativa contaminata da vicende biografiche: non escludo che abbiano ritenuto concluso il loro percorso di apprendimento emotivo e ora preferiscano utilizzare i libri come veicolo di acquisizione o sviluppo di altri tipi di consapevolezza; mi chiedo persino se non siano animati da un’inconscia aspirazione ad ascendere verso una letteratura di maggior qualità, e se ormai considerino in qualche modo limitante avvicinarsi alla pagina scritta per sentirsi raccontare una storia di pura invenzione invece di approfittarne per imparare qualcosa sul riscaldamento globale, la botanica o la trasmigrazione delle anime.

Naturalmente non c’è modo di dimostrare che la saggistica rovelliana di Sette brevi lezioni di fisica o la cronistoria giornalistica di V13 (impreziosita dalle solite raffinate interpolazioni di Carrére) siano qualitativamente migliori di un classico simenoniano come Le vacanze di Maigret. Mi chiedo quali modalità stiano adoperando (stiamo tutti adoperando) per istituire un criterio di gerarchizzazione e scegliere, poi, in conformità. Possono essere utili le parole del sommo Martin Amis nel suo ineguagliabile L’informazione: «Non si può dimostrare, provare, stabilire – non si può sapere se un libro è bello. Una frase, un verso, un modo di dire: nessuno lo sa. I filosofi della letteratura di Cambridge hanno passato cent’anni a sostenere il contrario, e non sono approdati a niente». Qualche riga sotto Amis attribuisce a Frank Raymond Leavis (critico letterario, nato e vissuto proprio a Cambridge) una sentenza ancora più tranchant: «Leavis ha detto che la letteratura non si può giudicare, ma la vita sì, quindi, ai fini del giudizio, vita e letteratura sono la stessa cosa». Poco oltre lo stesso Amis sembra dissentire, ma la sua recentissima autobiografia mi induce a pensare che negli ultimi anni persino lui non avesse più certezze in proposito.

Cosa dovrei concluderne? Ogni anno, praticamente senza eccezioni, la classifica dei libri più venduti in Italia include quasi esclusivamente romanzi. Solo uno dei primi dieci libri più letti nel nostro Paese negli ultimi tre anni era un saggio; nel 2020, Spillover era addirittura al primo posto, ma dubito che l’epidemia di Covid non abbia contribuito a promuovere, anche qui emotivamente, il bestseller di Quammen. Non ho inclinazioni per le teorie del complotto, e non credo a un establishment letterario che decide a quale opera affibbiare una patente di “Alta Letteratura” senza lasciarsi guidare semplicemente dalla stella polare del proprio giudizio estetico, ma i semplici dati numerici sembrano dimostrare lo scollamento sempre più ampio tra “Paese dei lettori” e Paese dei propugnatori di una narrativa di qualità – siano essi giornalisti, recensori, critici, intellettuali o giurati delle dozzine di premi che si assegnano ogni anno in Italia.

Ora, non so fino a che punto l’élite letteraria condizioni direttamente le scelte stilistiche e tematiche di vecchi e nuovi scrittori, ma il mio sospetto è che si stia sovrapponendo all’obiettivo di salvaguardare la purezza della letteratura di qualità l’ambizione, di gran lunga più temeraria, di imporre una tendenza: la quale tendenza, al momento, sembra volersi assumere proprio il rischiosissimo azzardo di escludere la fiction pura dalla categoria della letteratura di qualità. Una specie di secessio plebis al contrario: finché i beniamini del pubblico saranno talentuosi giallisti, tiktoker e troniste assistite da ghostwriter di indubbia bravura, l’establishment reagirà tutelando produttori di saggi, biografie e raffinate contaminazioni tra fiction e reale, con il rischio concreto di legittimare involontariamente il classismo e l’esclusività.

Non credo sia sensato pretendere dai gusti di critici e recensori una vasta rappresentatività dei gusti prevalenti del pubblico, ma sospetto che la direzione presa sia esattamente quella opposta: in pratica il ripiegamento su sé stessa della società letteraria ha creato le condizioni per ignorare quasi completamente le preferenze della stragrande maggioranza del pubblico. E mi chiedo quanto ciò sia produttivo, se è vero che una delle funzioni di critica, intellettuali e premi letterari è proprio quella di convincere quella stessa maggioranza che esistono alternative di pregio, ma altrettanto divertenti, ai libri che legge di solito.

Chiudo con un aneddoto personale. Lo scorso autunno ho avuto un interessante colloquio telefonico con un carissimo amico, un giornalista che si occupa da anni di cinema e libri per alcuni giornali locali: reduce dal festival del cinema di Venezia, mi aveva tessuto lodi sperticate del vincitore (Tutta la bellezza e il dolore di Laura Poitras, intenso documentario sulla battaglia della fotografa e attivista Nan Goldin contro la famiglia Sackler, proprietaria della Purdue Pharma e responsabile della micidiale «epidemia degli oppioidi»): tale era il suo entusiasmo da spingersi a vaticinare che persino il destino della letteratura ne sarebbe uscito, in qualche modo, segnato: erano ormai troppi gli indizi secondo cui alla fiction e all’intrattenimento, seppur di alto livello, si sarebbero sostituiti storie vere e di forte impatto civile. Buffo che qualche mese dopo l’Academy Award non abbia tenuto in minimo conto le sue opinioni e abbia inaspettatamente premiato con ben sette Oscar quell’autentica carnevalata di Everything, everywhere, all at once, film divertente e senza troppe velleità artistiche ma oggettivamente originalissimo. Risposta del pubblico: poco più di un milione e mezzo di euro di incasso globale per l’intenso documentario della Poitras, quasi cento volte tanto per la carnevalata originalissima.

Originalissima e tutt’altro che «ispirata a una storia vera». Chissà se troveremo mai un punto d’incontro.

– Leggi anche: In Italia tutti scrivono di sé

Fabio Bacà
Fabio Bacà

È nato nel 1972 a San Benedetto del Tronto, dove vive, scrive e insegna ginnastiche dolci. Nel 2019 Adelphi ha pubblicato il suo esordio, Benevolenza Cosmica a cui è seguito nel 2021 il suo secondo romanzo, Nova, finalista ai premi Strega e Campiello.

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