A Lampedusa migranti e turisti non si incrociano quasi mai
I due sistemi di accoglienza sull'isola convivono senza praticamente entrare in contatto, a parte pochissime occasioni
di Luca Misculin
A Lampedusa, la piccola isola italiana più vicina alle coste della Tunisia che alla Sicilia, la stagione turistica inizia in primavera e raggiunge il suo picco nella settimana centrale di agosto, come in molti posti di mare. Negli anni più floridi sull’isola arrivano a convivere anche 30mila turisti, perlopiù italiani, a fronte di circa seimila residenti. Quest’anno il mese di agosto sta registrando meno presenze rispetto al 2022, come sta capitando un po’ in tutta Italia: ma i lidi, i ristoranti e gli alberghi sono comunque piuttosto pieni, e di sera la via principale dell’abitato, via Roma, si trasforma in una lunga distesa di ristoranti, bar e negozi di souvenir.
A poche centinaia di metri in linea d’aria dalla fine di via Roma nell’unico molo dell’isola, chiamato Favaloro, arrivano via mare quasi giornalmente centinaia di migranti. Partono dalla Tunisia, il paese che nel 2023 è diventato il principale luogo di partenza per chi cerca di raggiungere l’Italia via mare. La scorsa settimana a Lampedusa sono arrivati circa 4.600 migranti, circa il 70 per cento della popolazione dell’isola. E soltanto nella giornata di venerdì 25 agosto sono sbarcate 1.826 persone. Il molo Favaloro è pieno di barche di migranti ancorate in attesa di essere smaltite.
Ad oggi si stima che siano più di duemila le persone morte nel Mediterraneo centrale, quindi partite dal Nordafrica per cercare di raggiungere l’Italia. Ma è una stima per difetto: secondo Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), i barchini di ferro usati spesso per cercare di raggiungere Lampedusa dalla Tunisia «hanno probabilmente causato tanti naufragi di cui non si è saputo nulla».
Eppure un turista o una turista potrebbe passare settimane sull’isola senza rendersi conto di cosa stia accadendo a pochi metri di distanza.
Più in generale, diverse persone che vivono o lavorano sull’isola raccontano che fra le esperienze di chi arriva via mare a bordo di un barchino di ferro e quelle di tutte le altre persone sull’isola ci siano pochissimi punti di contatto. Emma Conti, che da un anno lavora sull’isola per Mediterranean Hope, il programma per migranti e rifugiati della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, racconta: «Tutto è pensato per avere due canali paralleli che raramente si incontrano. È un peccato che non esistano luoghi di incontro, e questo genera diffidenza e ostilità verso le persone sbarcate», dice Conti.
La stragrande maggioranza di migranti che sbarcano a Lampedusa arriva nel molo a bordo di imbarcazioni trainate o scortate dalle due autorità italiane più coinvolte nei soccorsi, la Guardia Costiera e la Guardia di Finanza. I cosiddetti sbarchi autonomi sono rarissimi.
Non appena un’imbarcazione di migranti raggiunge la zona SAR dell’Italia, un’area dove cioè le autorità italiane si impegnano a mantenere attivo un servizio di ricerca e salvataggio, i barchini vengono raggiunti e condotti nel molo. In questo passaggio a volte c’è un occasionale contatto con turisti e lampedusani: il molo si trova all’estremità dell’insenatura del cosiddetto “porto nuovo”, da dove partono i pescatori e soprattutto d’estate le decine di barche a noleggio che portano i turisti in giro per l’isola.
Le imbarcazioni dei turisti e dei migranti passano vicine per pochi secondi: poi le prime proseguono verso il mare aperto o il porto, le seconde vengono fatte attraccare al molo.
Le operazioni di sbarco per ogni singola imbarcazione possono durare da pochi minuti a diverse ore, a seconda dei numeri degli arrivi, della disponibilità del personale sanitario dell’isola e delle condizioni meteo. Il molo Favaloro è una zona militare e l’ingresso è delimitato da un cancello. A volte capita che durante uno sbarco si formino capannelli di turisti e curiosi. Conti passa parte delle sue giornate al molo a distribuire coperte o bottigliette d’acqua alle persone appena sbarcate. A volte qualcuno la ferma. «C’è chi fa un commento un po’ razzista, oppure ci sono persone genuinamente interessate che ci chiedono cosa facciamo, come stavano le persone sbarcate, chi erano», racconta.
Gli spazi del molo Favaloro però favoriscono la formazione di grandi gruppi di persone. L’ingresso è sulla curva di una strada in salita che porta verso la parte occidentale dell’isola. È un punto di passaggio a più di 15 minuti a piedi dalla fine di via Roma: se ci si passa distrattamente a fianco, in auto o in motorino, dalla strada non si nota nulla di particolare se non uno sbiadito murales a favore dell’accoglienza.
Una volta concluse le operazioni di sbarco i migranti vengono fatti salire a bordo di piccoli pullman della Croce Rossa, l’ente che da inizio giugno ha preso in gestione l’hotspot, cioè il centro di prima accoglienza dell’isola, su incarico diretto del governo.
La cooperativa che gestiva l’hotspot prima della Croce Rossa era stata più volte criticata dalle persone attive nell’accoglienza sull’isola perché usava furgoncini sempre stracarichi. La Croce Rossa invece usa diversi pulmini, che quindi hanno iniziato a essere una presenza visibile sull’isola, tutti molto riconoscibili perché a lato hanno dipinto il caratteristico logo a croce rossa. «Possiamo spostare fino a 100 persone contemporaneamente su pulmini di dimensioni ridotte, adatte al contesto dell’isola», spiega Francesca Basile, responsabile dell’unità operativa migrazioni della Croce Rossa Italiana.
In questo tratto i pulmini rimangono sulla strada principale dell’isola, di gran lunga la più trafficata: per via della posizione piuttosto vicina all’abitato e della visibilità dei pulmini della Croce Rossa, è il momento in cui è più probabile che i non migranti incrocino i migranti, anche se dietro ai vetri di un piccolo pullman.
I pullman percorrono quindi i due chilometri e mezzo che separano il molo dall’hotspot. Costeggiano a destra il porto nuovo, poi a sinistra il campo di calcio dell’ASD Lampedusa, la squadra locale. Dopo una rotonda i pullman si infilano in una strada un po’ malmessa che sale per una piccola collina, in una zona dell’abitato chiamata contrada Imbriacola. Qui si trova ormai da molti anni l’hotspot dell’isola, in una zona priva di alberghi o case vacanze. A seicento metri di distanza in linea d’aria c’è una discarica. Da via Roma è impossibile distinguere l’hotspot a occhio nudo.
Negli anni i lampedusani hanno mostrato sempre più segnali di insofferenza per l’arrivo di migliaia di migranti sull’isola, che secondo alcuni di loro “rovinerebbe” la sua immagine.
Da poco più di un anno il sindaco di Lampedusa è Filippo Mannino, 40enne avvocato ex leader del Movimento 5 Stelle sull’isola, oggi capo di una coalizione civica alleata col centrodestra. Il suo vicesindaco è un attivista locale della Lega molto noto tra gli isolani per la sua ostilità agli sbarchi. Ancora qualche settimana fa Mannino ha lasciato intendere che una gestione dei migranti troppo visibile sia negativa per il turismo. «L’obiettivo del governo e di questa amministrazione deve essere quello di ridurre al minimo l’impatto dell’accoglienza su questo territorio, perché di fatto noi viviamo di turismo e di quello vogliamo continuare a vivere», ha detto al TgLa7.
Fra le altre cose Mannino ha mantenuto in vigore un’ordinanza che vieta di fatto alle persone ospitate nell’hotspot di uscire, nominalmente per ragioni sanitarie. Fino a qualche anno fa le persone all’interno dell’hotspot riuscivano a scendere dalla collina grazie a un buco nella recinzione di cui era a conoscenza tutta l’isola, anche i gestori del centro. Nel 2020 un’ordinanza emessa dall’allora sindaco Totò Martello per il contenimento della pandemia aveva vietato ogni uscita dall’hotspot, e il buco era stato riparato. Oggi riesce a uscire dall’hotspot soltanto chi ha le forze e le risorse per scavalcare la recinzione ed eludere i controlli dell’esercito, che pattuglia l’esterno dell’hotspot.
Lunedì scorso quattro ragazzi nordafricani visibilmente usciti dall’hotspot si sono seduti a un tavolino nel retro di un bar poco frequentato nel centro di Lampedusa. Hanno ordinato dei caffè, fumato e bevuto dell’acqua che si erano portati dietro. Nei giorni precedenti alcuni giovani nordafricani erano stati avvistati fuori dal centro, in un’altra zona periferica di Lampedusa.
L’unico luogo in cui con una certa costanza si incontrano sia i lampedusani sia i turisti sia i migranti è il poliambulatorio dell’isola. Il poliambulatorio è diviso in tre sezioni: quella che si occupa dei lampedusani, la Guardia medica dedicata ai turisti – attiva ogni anno da metà giugno a metà settembre – e l’unità che segue i migranti, sia sul molo con un primo intervento sia in poliambulatorio, per i casi più gravi. Le tre sezioni occupano locali diversi del poliambulatorio ma la sala d’aspetto è comune: può capitare che si ritrovino uno accanto all’altro il turista ferito da un riccio di mare e la donna arrivata dalla Libia dopo mesi nei centri di detenzione per migranti.
E poi c’è il cimitero. C’è un unico stanzino che funziona da camera mortuaria, dove i corpi recuperati in mare dalle autorità vengono sistemati accanto a quelli degli abitanti dell’isola. Il cimitero è piccolo, in certi casi le tombe dei migranti si trovano accanto o poco distanti da quelle di tutti gli altri.
Anche Basile ritiene che il sistema dell’accoglienza «viva parallelamente» a tutto il resto, sull’isola. Aggiunge che esiste un ultimo punto di contatto: il porto commerciale, dove si imbarcano sia i migranti che vengono trasferiti nei centri di accoglienza sulla terraferma dalla prefettura di Agrigento, sia i turisti che arrivano o rientrano a casa dopo un periodo sull’isola. «Sono momenti ordinati, in cui tutti quanti si stanno imbarcando su una nave dopo avere affrontato un viaggio: forse, per questo, possono anche fare riflettere».