• di Maria Vittoria Capitanucci
  • Storie/Idee
  • Sabato 26 agosto 2023

Breve storia dei bagni delle donne

«Solo negli ultimi anni sono apparse in tutta la loro disperante ingiustizia le lunghe file forzate di donne in attesa nei cinema o nelle fiere, costrette a osservare gli uomini passar loro allegramente davanti. Sul piano pratico gli orinatoi maschili hanno una funzionalità imparagonabile ai water presenti negli ambienti femminili, per la semplice ragione che occupano meno spazio. Per questo oggi si realizzano toilette neutre e miste o si tenta di lanciare sul mercato nuovi sistemi che permettano di farla in piedi. Del tema si occupano anche arte e architettura, come nel padiglione tedesco all’ultima Mostra di Architettura alla Biennale di Venezia. I bagni pubblici sono diventati il luogo in cui la disparità di genere si manifesta in modo architettonicamente più chiaro»

Una donna osserva l'opera "Fontana" di Marcel Duchamp alla Barbican Art Gallery di Londra il 13 febbraio 2013 (Dan Kitwood/Getty Images)
Una donna osserva l'opera "Fontana" di Marcel Duchamp alla Barbican Art Gallery di Londra il 13 febbraio 2013 (Dan Kitwood/Getty Images)
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La mia bella ma schifiltosissima mamma non fa mai pipì in viaggio o nei bar e si raccomanda di non appoggiarsi mai alla tavoletta. Ma stavolta sono sola, è il mio primo giorno di asilo, mi scappa la pipì e sono nel bagno delle femmine, e me lo godo così, seduta con le gambe a penzoloni a guardarmi attorno in questa specie di stanzina con i muri tagliati sotto e sopra, e un odore che mi si imprime e non dimenticherò mai.

Dai tempi del mio asilo Montessori degli anni Settanta sono passata da mille bagni delle donne, quelli della scuola di danza con le altre che si scaldavano tra i water, quelli delle elementari, delle medie e soprattutto del liceo, separati come d’obbligo da quelli dei maschi (ma che obbligo era? Sociale? Pratico? Religioso?) e sovrascritti di racconti, parolacce, frasi sconce, numeri, proposte indecenti e dichiarazioni d’amore, slogan politici, dove si stratificava e sentiva scorrere la storia d’Italia e forse anche di tante donne italiane.

Non ho mai vissuto la separazione come una restrizione, ma le lunghe file davanti ai bagni delle donne sono una delle costanti in cui si manifesta quotidianamente, e in maniera architettonicamente incontrovertibile, la diseguaglianza tra maschi e femmine. I bagni femminili non sono solo in numero minore in rapporto al bisogno, ma sono spesso nascosti o inspiegabilmente più lontani di quelli per gli uomini. Mio padre, che era istintivamente femminista, mi raccontava di quando, da giovane borghese romano in servizio militare, vedeva le donne calabresi dei piccoli centri scappare di casa di mattina, all’alba, velocissime come per fare qualcosa di losco, per poi scoprire che andavano semplicemente tra i cespugli a fare i loro bisogni. Erano i primi anni Sessanta del secolo scorso, non un millennio fa.

I servizi igienici pubblici per le donne sono sempre stati un fatto politico, perché sono un riflesso e uno strumento di discriminazione. Non è un caso se molte delle battaglie dei primi movimenti femministi si concentrarono anche sull’accesso ai bagni. Le suffragiste inglesi combatterono, oltre che per il voto, anche per avere bagni femminili indipendenti nelle industrie: associazioni come la Union of Women’s Liberal and Radical Associations e la Women’s Liberal Federation lottarono affinché le donne della classe operaia avessero i bagni pubblici, per esempio, a Camden o contribuirono a stilare il Public Health Act che nel 1891 impose alle autorità locali di costruire bagni pubblici sul territorio (il primo per le donne apparve nel 1893 a Londra, davanti alla Royal Court of Justice sullo Strand). Nella stessa epoca, ci furono anche rivendicazioni da parte di alcuni gruppi di prostitute per l’introduzione dei bidet nei bordelli.

In età romana la distinzione tra latrine maschili e femminili non esisteva: l’unica distinzione era nella turnazione dell’uso dei bagni termali. Le donne avevano accesso alle meravigliose terme pubbliche esattamente quanto gli uomini come si evince dai testi del tempo, da Olimpiodoro a Petronio. Con l’affermarsi del cristianesimo l’idea del bagno pubblico tramontò progressivamente in tutto l’Occidente. Fu il mondo islamico a ereditare la tradizione romana. Nel VII secolo d.C. gli arabi trovarono nella Siria strappata ai bizantini i complessi termali e ne mantennero viva la funzione, legando a essa anche la ritualità islamica del ghusl e wudu, le purificazioni che precedono la ṣalāt, la preghiera obbligatoria quotidiana.

L’hammam prevede, almeno nei casi di bagni pubblici, accessi separati tra uomini e donne alla medesima struttura o a due corpi distinti ma attigui, benché quello maschile sempre di maggiori dimensioni. Anche privatamente l’hammam non è negato alle donne, anzi, nel caso specifico dell’harem, il luogo inviolabile o proibito destinato a mogli e concubine, la condizione di esclusione e confinamento delle donne in alcuni casi finì paradossalmente per ribaltarsi, trasformando un luogo e simbolo di sottomissione in un centro di potere perfino politico, come accadde in forma estrema durante il Sultanato delle donne che governò l’impero Ottomano tra Seicento e Settecento (come racconta, per esempio, Heather Madar in Before Odalisque: Renaissance Representations of Elite Ottoman Women, 2011).

In Occidente la distinzione dei bagni veri e propri in base al sesso è una ‘conquista’ più recente, inizialmente in forma privata con le prime stanze da bagno della nobiltà. Nel Seicento e Settecento i gabinetti erano luoghi d’incontro, studioli separati in cui gli uomini discutevano di politica, caccia e filosofia, mentre le donne non si sa di che. Ma per il resto del popolo questa separazione non esisteva per la semplice ragione che non esistevano nemmeno i bagni, solo alcune latrine comuni. L’idea del bagno pubblico si affermò solo a partire dall’Ottocento, inizialmente nel Regno Unito e solo in seguito nelle altre capitali europee, dove i primi servizi pubblici, riservati esclusivamente agli uomini, iniziarono a esistere intorno al 1870.

Il primo bagno pubblico con sciacquone, realizzato da un idraulico di Brighton, fu una delle grandi invenzioni presentate alla mitica Esposizione Universale di Londra del 1851, dove però di certo i bagni per donne non c’erano. In quegli anni a Londra si sviluppò una timida costellazione di “sale d’attesa pubbliche” destinate ai soli uomini, il che dimostrava che alle donne era impedito uguale accesso agli spazi pubblici e ai luoghi di lavoro. Da qui la nascita della Ladies’ Sanitary Association, un’organizzazione che lottò per la realizzazione dei primi bagni pubblici per donne o almeno per il loro diritto a usare i servizi igienici maschili già esistenti (una richiesta inimmaginabile per il tempo), contro cui furono mosse numerose azioni di sabotaggio da parte degli uomini.

Del resto chi frequentava i pub, i caffè e i circoli? Chi viaggiava a quel tempo? Chi giungendo a Londra, poteva aver bisogno di precipitarsi alla toilette della stazione della metropolitana nel quartiere Clapham, di recente trasformata nel pub WC, o nell’ex bagno pubblico maschile inaugurato a fine Ottocento nella centralissima Foley Street, che oggi è l’attuale e trendy Attendant? Ben presto bagni pubblici furono inaugurati a Berlino e poco più tardi in Italia, nel 1911 a Bologna, nel 1924 a Milano e poi a Roma, Brescia, Verona, Padova, Pisa, Ancona, Napoli e Palermo grazie a una intuizione dell’imprenditore Cleopatro Cobianchi che, proprio in seguito a un viaggio a Londra, decise di importare in Italia gli alberghi diurni. Erano per tutti, e a ingresso unico, ma con una serie minore di cabine destinate alle donne. Il successo fu tale che dalle stazioni si diffusero in altri luoghi della città, come a Milano lo storico Diurno Venezia (il cui tocco architettonico si deve in parte al giovane Piero Portaluppi), ipogeo come il moderno Diurno Cobianchi, posto con la sua scala a tenaglia sotto i portici di piazza Duomo. Oltre ai bagni, avevano docce, bagni in tinozza, postazioni per manicure e parrucchieri, nonché agenzia viaggi, deposito bagagli, lavanderia, cabina telefonica, lucidatura di scarpe. Insomma, erano anche un po’ uffici.

Dagli anni Dieci del Novecento in tutti gli edifici pubblici in Europa, Italia compresa, e nel Sud, Centro e Nord America, ma anche nelle colonie orientali francesi e inglesi, i bagni delle donne sono ormai una realtà. È l’epoca dei primi moderni cinematografi, kursaal, stazioni, caffè e ristoranti, in Italia per la delizia dei progettisti del periodo eclettico/liberty, l’art nouveau italiana, che si dedicheranno a dettagli ornamentali naturalistici in ferro e stucchi nei bagni severamente differenziati tra i generi, con toilette per il trucco per le signore. Ma l’idea del bagno come luogo e rifugio specificamente femminile si afferma soprattutto nel privato. Come non cedere al fascino indiscreto della borghesia quando si ripensa ai bagni privati delle signore Necchi, le due sorelle proprietarie nell’omonima villa disegnata negli anni Trenta sempre da Piero Portaluppi, la prima nel centro di Milano con piscina, con i bagni in marmo rosa per la moglie e verde per il marito. Non è un fenomeno solo borghese. L’architettura del Ventennio fascista enfatizza le differenze di genere costruendo edifici distinti per le Giovani Italiane e i Balilla, bagni separati ovunque (anche nelle Case del Fascio) e un vasto programma di bagni pubblici nelle strade, naturalmente solo per maschi, da affiancare ai già esistenti vespasiani.

Nel dopoguerra il tema è quello sostanziale della casa per tutti, e il problema della differenza di accesso ai servizi scompare. Si sperimentano nuovi sistemi di lavabi, rivestimenti, specchi e linee di sanitari (come quelli bellissimi della designer e artista Antonia Campi per SCI e poi per Ginori, disegnati da una donna ma non necessariamente destinati alle toilette femminili) ma nei bagni pubblici si continua ad applicare la medesima formale separazione tra uomini e donne. Che non viene messa in discussione neppure dalla rivoluzione del costume e dalla contestazione degli anni Sessanta e Settanta che pure mettono in crisi certezze e prerogative borghesi a favore di scelte collettive e condivise, che in architettura e nel design si esprimono, per esempio, nel lavoro degli inglesi Archigram, degli italiani Superstudio e Archizoom o dei Metabolisti giapponesi.

– Leggi anche: Il problema della fila nei bagni per le donne

Curiosamente neppure il femminismo, che permise un balzo in avanti incommensurabile, si occupò dei bagni. Al contrario delle suffragiste britanniche e delle studentesse statunitensi che nello stesso periodo versarono barattoli di finta urina nell’aula magna per protestare contro l’assenza di bagni per donne ad Harvard, o fondarono il Committee to End Pay perché anche i bagni femminili fossero gratuiti, le femministe italiane non sono passate alla storia per aver rivendicato bagni adeguati.

È soltanto negli ultimi vent’anni che la disparità di accesso ai servizi igienici è ritornata a essere un tema politico, per esempio è al centro del primo capitolo di Invisibili di Caroline Criado-Perez. Come ha raccontato Giulia Siviero sul Post, il New York Times aveva definito il 2015 “the Year of the Toilet”, individuando nel tema del bagno un baluardo della differenza sociale di genere, sottolineando la necessità politica e sociale di superare la divisione. L’argomento è stato ripreso, circa un anno dopo, dalla giornalista Jeannie Suk sul New Yorker: «Quando uomini, gay o etero possono stare tranquillamente fianco a fianco negli orinatoi, perché donne e uomini non possono condividere lo stesso bagno, soprattutto in luoghi chiusi che rispettino la loro privacy?». Per Suk la distinzione delle toilette secondo i due generi ‘tradizionalmente intesi’ non ha semplicemente a che fare «con la discriminazione che essa stessa comporta e con il conseguente rispetto dei diritti delle persone intersessuali, transessuali e transgender, ma anche con una visione paternalistica nei confronti delle donne».

Improvvisamente sono apparse in tutta la loro disperante ingiustizia le lunghe file forzate di donne in attesa nei cinema o nelle fiere, costrette a osservare gli uomini passar loro allegramente davanti. Sul piano pratico gli orinatoi maschili hanno una funzionalità, e determinano una socialità, imparagonabili ai classici water presenti negli ambienti femminili, per la semplice ragione che occupano meno spazio. Per questo si realizzano toilette neutre e miste o si tenta di lanciare sul mercato nuovi sistemi che permettano di farla in piedi. Del tema si occupano anche arte e architettura: emblematico il caso del padiglione tedesco all’ultima Mostra di Architettura alla Biennale di Venezia intitolato Open for Maintenance e centrato sul riuso dei materiali di risulta dei padiglioni precedentemente smantellati, in cui era presente un piccolo ‘corner’ con toilette utilizzabile da tutte e tutti, quale parte integrante dell’installazione stessa.

I bagni pubblici sono diventati il luogo in cui la disparità di genere si manifesta in modo architettonicamente più chiaro. La gestione dell’acqua e l’accesso ai servizi igienici sono citati nel Rapporto mondiale delle Nazioni Unite sullo sviluppo delle risorse idriche 2023 come temi cruciali per la promozione dell’uguaglianza di genere nel mondo. A Mumbai, dove i servizi igienici per le donne sono meno numerosi di quelli per gli uomini e costano di più, ha preso avvio la campagna del “Diritto alla pipì”, che in qualche modo richiama la protesta del 1973 delle studentesse di Harvard. Ma i bagni pubblici sono anche il campo in cui è messa in discussione la tradizionale distinzione binaria dei generi, rappresentata da icone che appaiono sempre più inadeguate e anacronistiche.

In linea con quanto avviene da sempre su treni e aerei, e in molti bar, dove la distinzione tra bagni per maschi e per femmine non è contemplata, la tendenza dei bagni comuni si sta affermando ovunque: negli uffici pubblici (nel 2016 la Casa Bianca ha aperto la sua prima “gender-neutral toilet” e nel 2018 il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha introdotto toilette no-gender nel municipio), nei teatri, nei musei (per esempio dal 2016 il Whitney e l’American Folk Art Museum di New York) e in moltissime scuole, anche italiane. I bagni pubblici sono anche sempre stati luoghi di rischio per le donne, che possono subire molestie e stupri (paradossalmente è proprio la sicurezza l’argomento usato da chi, da destra, si oppone all’istituzione dei bagni unisex e al diritto delle persone transgender di utilizzare i bagni pubblici in linea con la loro identità di genere). La verità è che i bagni delle donne non sono mai appartenuti davvero alle donne perché sono stati costruiti, immaginati e progettati dagli uomini, in alcuni casi persino inventati per rinchiuderci le donne, come negli harem, e che ci si sono introdotti, fisicamente o virtualmente, scrivendo e disegnando, sbirciando, a volte violentando.

Al di là di ogni precedente affermazione, c’è un ulteriore aspetto, più leggero, da considerare: negli ultimi cento anni l’esistenza di toilette per le donne separate ha almeno messo le donne al riparo da una negligenza maschile. Si materializza così, d’improvviso, il ricordo del frame di un documentario in cui un giovane elefantino alle prime armi perde il controllo della propria proboscide facendola roteare come nemmeno uno sbandieratore del Palio di Siena… l’unico aspetto positivo, e l’unico argomento a favore della distinzione tra i bagni, è la prevalente tendenza dei maschi a non mantenere in condizione decorose gli spazi comuni tra individui di generi diversi.

– Leggi anche: Non potremmo usare tutti gli stessi bagni, uomini e donne?

Maria Vittoria Capitanucci
Maria Vittoria Capitanucci

Insegna Storia dell’Architettura Contemporanea presso il Politecnico di Milano, Facoltà di Design e AUIC. È stata co-curatrice di mostre, iniziative culturali e lezioni presso la Triennale di Milano, la Biennale di Venezia e il MAXXI di Roma. Collabora con riviste specializzate, è autrice di saggi apparsi su atti di convegni internazionali nonché di volumi sul periodo post-bellico in Italia e sull’architettura contemporanea. Tra i suoi libri Vito e Gustavo Latis (Skira, 2008) e Il professionismo colto nel dopoguerra (Rcs periodici, 2013)

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