I problemi dell’economia cinese, dall’inizio
Arrivano soprattutto dal settore immobiliare, ma ci sono anche ragioni molto più profonde, come la demografia e la fiducia della popolazione
Dopo la fine della politica zero Covid, decisa all’improvviso alla fine dell’anno scorso, gli osservatori e gli economisti si aspettavano che la Cina sarebbe tornata a crescere ai ritmi vigorosi di prima della pandemia. E invece sta conseguendo un risultato deludente dopo l’altro: il PIL cresce meno delle attese, da luglio il paese è entrato in deflazione, l’andamento dei consumi è piuttosto debole e il settore immobiliare (particolarmente importante in Cina) non si è ancora ripreso dalla crisi degli ultimi anni.
Il rallentamento dell’economia cinese è una prospettiva molto preoccupante anche per il resto del mondo. L’economia globale è strettamente interconnessa e la Cina ha un ruolo importante nei rapporti commerciali soprattutto con i paesi occidentali: per esempio, un calo consistente della domanda cinese avrebbe effetti sicuramente negativi sulle esportazioni dei paesi occidentali in Cina e potrebbe accentuare la tendenza al rallentamento globale dell’economia. Per spiegare perché l’economia cinese non cresce più come prima ci sono ragioni più recenti, e legate a tendenze di questi ultimi mesi e anni, e altre più strutturali, che invece vengono da più lontano.
Quelle recenti sono principalmente tre: il mercato immobiliare in crisi, il basso livello di consumi interni ed esportazioni in calo da tempo.
Il primo motivo, ossia l’andamento negativo del mercato immobiliare, è forse quello più rilevante e da cui dipende di più il rallentamento cinese. Il settore ha guidato la crescita cinese per anni, vale circa un quarto del PIL del paese e oggi è in grande sofferenza.
Le difficoltà del settore immobiliare sono note da anni, ma si sono aggravate di recente. Uno dei fenomeni più notevoli ed esemplari ha riguardato la crisi di Evergrande, un enorme gruppo cinese che si è rivelato essere la società di sviluppo immobiliare più indebitata al mondo: nel 2021 è fallita in Cina e recentemente ha chiesto a un tribunale di New York di poter fare ricorso al Chapter 15, una legge fallimentare statunitense simile all’amministrazione straordinaria italiana, che consente a un’azienda straniera in grave crisi di continuare a operare senza che le vengano pignorati i beni, a patto di pagare i creditori statunitensi e avviare un piano di risanamento.
Evergrande è stata un’azienda simbolo della grande crescita economica cinese, fondata per anni sul buon andamento del settore immobiliare, che il governo sosteneva grazie a un deciso piano di finanziamenti e agevolazioni. Il paese si ritrova oggi con un notevole surplus di case e con diffusissime speculazioni edilizie, una condizione per cui da anni gli economisti parlano di una bolla immobiliare che è prima o poi destinata a scoppiare.
Già a partire dalla metà dello scorso decennio, il governo cinese dovette cercare soluzioni per correggere l’espansione sproporzionata del settore immobiliare, invertendo il senso delle misure adottate negli anni precedenti per raddrizzare quello che sembrava un aumento insostenibile dell’economia nazionale ed evitare che la bolla immobiliare scoppiasse. Fino al 2021 c’era riuscito, ma poi qualcosa è cambiato.
In quell’anno Evergrande è entrata in crisi a causa di un generale e fisiologico rallentamento del mercato immobiliare, causato proprio dalle regolamentazioni più stringenti imposte dal governo per il settore: è venuto fuori che l’azienda aveva talmente tanti debiti da non riuscire ad adattarsi a un contesto di mercato più sfavorevole. Ma al fallimento hanno portato anche alcune scelte molto rischiose fatte dalla dirigenza dell’azienda, che aveva fatto investimenti pesanti anche in altri settori, dal calcio alle automobili elettriche all’industria agroalimentare.
Il tracollo finanziario di questa società ha contribuito a rendere chiaro quanto fosse profonda la crisi di tutto il settore: le aziende immobiliari cinesi erano fortemente indebitate e compromesse. Nonostante gli interventi pubblici per evitare una serie di fallimenti a catena con enormi conseguenze sulla società, il settore immobiliare è risultato talmente indebitato che in moltissimi casi le aziende di costruzione facevano fatica a finire i progetti. Chi investiva in un progetto immobiliare, o l’aveva fatto di recente, non era più sicuro che sarebbe stato effettivamente realizzato. Moltissime famiglie che avevano comprato una casa in costruzione hanno perso soldi e infine hanno smesso addirittura di pagare il mutuo, danneggiando così anche le banche. Con queste prospettive il mercato immobiliare si è fermato.
All’inizio di quest’anno il settore sembrava essersi in parte ripreso: gli interventi del governo erano infine riusciti nel loro intento di non far fallire gran parte delle società immobiliari e gli acquisti di immobili erano tornati lentamente a crescere, recuperando in parte tutti quegli acquisti che le famiglie avevano rimandato a causa della crisi immobiliare. Ma lo slancio sembra già finito: il prezzo delle nuove case è sceso a maggio rispetto al mese precedente, segno che la domanda è tornata debole. Il numero delle compravendite è per un terzo inferiore ai livelli del 2019 e anche le nuove costruzioni sono il 60 per cento in meno.
Potrebbe sembrare una crisi momentanea, che durerà qualche anno e che poi ci dimenticheremo. Ma gli effetti negativi potrebbero essere assai più duraturi: gli investimenti nel settore si ridurranno per molto tempo e, poiché è proprio questo il settore che ha trainato tutta la crescita del paese in questi anni e che vale un quarto del PIL, c’è da aspettarsi che i contraccolpi sulle prospettive future siano importanti e arrivino piano piano a tutta l’economia.
Uno di questi contraccolpi si vede già in modo evidente dal fatto che la disoccupazione sta aumentando, soprattutto tra i giovani: il tasso di disoccupazione tra i 16 e i 24 anni nelle aree urbane ha raggiunto il 21,3 per cento. Pur essendo meno di quello in Italia è un dato piuttosto pesante per la Cina e l’istituto nazionale di statistica ha perfino annunciato che smetterà di pubblicare i dati sulla disoccupazione giovanile, probabilmente per nascondere all’opinione pubblica e agli osservatori internazionali che l’economia sta andando sempre peggio.
Il secondo motivo che di recente ha contribuito al peggioramento dell’economia cinese è in parte legato proprio a questo: in una situazione di tale incertezza che famiglie e imprese cinesi preferiscono tenere fermi i propri soldi, con il risultato che i consumi e gli investimenti non crescono perché manca la fiducia in una crescita robusta. Questa dinamica peggiora ancor di più la situazione: con queste prospettive le aziende cinesi non assumono o addirittura licenziano, contribuendo quindi ad alimentare il senso di generale incertezza.
Il risultato è che l’economia cinese è una delle poche in cui i prezzi non aumentano, ma anzi si riducono. Non c’è inflazione, un fenomeno di cui vediamo ogni giorno gli effetti in Occidente, ma deflazione. Dal punto di vista di chi fa i conti ogni mese con notevoli rincari (per esempio in Italia a giugno l’inflazione è stata del 6,4 per cento) la riduzione dei prezzi potrebbe sembrare una buona notizia: le famiglie spendono meno per comprare le stesse cose di prima, diventando nei fatti un po’ più ricche. In realtà la deflazione è un pessimo segnale per l’economia.
Quando i prezzi calano vuol dire che l’economia è appunto in una condizione di debolezza: i consumi non sono abbastanza sostenuti e chi vende prodotti o servizi si ritrova nella condizione di abbassare i prezzi pur di riuscire a vendere. Ma con il tempo le persone iniziano a perdere il lavoro, diventano generalmente più povere, smettono di spendere e l’economia si ritrova in un circolo vizioso da cui è difficile uscire. In più si genera una sensazione di sfiducia nella crescita: le persone tendono a risparmiare non solo per precauzione ma anche perché pensano che i prezzi continueranno sostanzialmente a scendere. A livello individuale fanno una considerazione sensata, ma a livello collettivo questo ragionamento è molto dannoso per l’economia.
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Il terzo motivo per cui la Cina non cresce più come dovrebbe riguarda il fatto che le esportazioni cinesi sono da tempo in calo. La Cina un tempo era conosciuta con l’espressione “la fabbrica del mondo”, perché molte aziende vi avevano spostato le produzioni, aprendo stabilimenti o filiali, o compravano direttamente dalle industrie cinesi merce di vario tipo, dai prodotti finiti a basso costo alle materie prime o semilavorati (ossia pezzi intermedi necessari alla produzione di prodotti finiti). Da tempo sembra che il paese abbia in parte perso questo ruolo, sia per le politiche molto stataliste e interventiste del governo (che hanno reso molto difficile per le aziende straniere fare affari nel paese) sia per la guerra commerciale che è in corso con gli Stati Uniti.
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Ma oltre questi fattori congiunturali, per quanto seri e destinati a durare a lungo, ci sono anche dinamiche strutturali che potrebbero aver cambiato definitivamente il ritmo di crescita dell’economia cinese. Il rallentamento generale della Cina, rispetto ai ritmi di crescita molto vivaci a cui si era abituati, è comunque in corso da almeno un decennio, sebbene siano stati molti i tentativi del governo di arginarlo.
Non ci sono rimedi semplici e alla portata per impedire questa decelerazione, che è fisiologica ed era prevista. Molti analisti vedono una causa nell’invecchiamento rapido della popolazione per effetto dell’aumento del benessere e degli effetti perversi della politica del figlio unico, che hanno anticipato significativamente la transizione demografica da paese giovane a paese vecchio. L’invecchiamento della popolazione porterà con sé una serie di importanti implicazioni economiche e politiche, tra cui la diminuzione della forza lavoro, l’indebolimento dei consumi, il calo del risparmio delle famiglie e la crescita della spesa per la sicurezza sociale.
Secondo alcune stime, la Cina potrebbe già adesso non essere più il paese più popoloso del mondo, ed essere stata superata dall’India.
Nel lungo termine, l’invecchiamento della popolazione cinese potrebbe portare la forza lavoro a ridursi del 15 per cento nei prossimi 15 anni, secondo alcune stime citate dall’Economist. Ed è proprio per far fronte a questo scenario che nel 2015 è stata abolita la politica del figlio unico, anche se finora con scarsi risultati.
Rispetto ad altri paesi che stanno a loro volta sperimentando l’invecchiamento della popolazione, la Cina soffre del problema aggiuntivo di «essere invecchiata prima di essere diventata ricca», una condizione che rende ancora più difficile la sfida demografica, secondo un rapporto dell’ISPI.
Secondo Alessia Amighini, esperta di Asia dell’ISPI e autrice della pubblicazione, la Cina dovrà fare molti cambiamenti politici per continuare a registrare una robusta crescita economica: dovrebbe accelerare ulteriormente il ritmo della sua riforma di liberalizzazione dei mercati; proteggere i diritti di proprietà intellettuale e sostenere l’innovazione e l’aggiornamento industriale; considerare di abbandonare il sistema di registrazione delle famiglie, superando le principali barriere per l’urbanizzazione.
In più, di fronte a una popolazione sempre più vecchia, il governo dovrebbe anche cercare di bilanciare il fondo pensionistico, trasferendo più beni di proprietà dello stato, ritardando l’età pensionabile e unificando gli standard pensionistici per i diversi gruppi di pensionati. Solo se le riforme progrediranno in tal senso, l’economia cinese potrà continuare a crescere in maniera consistente.
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