Il caso dell’infermiera inglese che ha ucciso sette neonati in ospedale
Lucy Letby è stata condannata all'ergastolo, in uno dei processi che hanno suscitato più indignazione nella storia recente del Regno Unito
Lunedì un tribunale di Manchester, in Inghilterra, ha condannato all’ergastolo Lucy Letby, l’infermiera britannica accusata di aver ucciso sette neonati nell’ospedale in cui lavorava e di aver cercato di ucciderne altri sei. Il processo a Letby è uno dei più commentati della storia recente del Regno Unito, e probabilmente quello che ha suscitato maggiore indignazione sui media e in generale nell’opinione pubblica per via della brutalità dei crimini a lei attribuiti, commessi contro neonati indifesi e apparentemente senza un movente.
Letby è accusata di aver ucciso i neonati iniettando aria nelle loro vene o nello stomaco, alimentandoli con più latte del necessario o avvelenandoli con insulina. Durante le udienze si è sempre dichiarata innocente, anche se nella sua abitazione sono state trovate le prove di quella che sembra essere un’ammissione di colpa. Lo scorso venerdì era stata giudicata colpevole senza che fosse comunicata la pena. Con la chiusura del processo negli ultimi giorni si è tornati a parlare di una storia che in realtà era nota da alcuni anni e di cui si era molto discusso.
Molte delle attenzioni di questi giorni si sono concentrate sulla figura di Letby, una donna con una vita all’apparenza ordinaria e che si presenta in modo molto diverso dall’immagine stereotipata che si ha abitualmente degli assassini spietati: eppure i suoi crimini la rendono una delle serial killer più feroci della storia britannica (in criminologia si considera “serial killer” una persona che uccide almeno due persone in tempi diversi). Letby è la quarta donna di sempre a ricevere una condanna a vita nel Regno Unito (anche gli altri tre casi riguardavano serial killer), un tipo di pena che non prevede sconti o possibilità di trascorrere la detenzione fuori dal carcere, se non in rarissimi casi.
Letby ha 33 anni ed è originaria di Hereford, una cittadina nell’ovest dell’Inghilterra, vicina al confine col Galles e non lontana da Birmingham. Le indagini sul suo conto erano cominciate dopo che tra il 2015 e il 2016 il reparto di neonatologia dell’ospedale di Chester, città poco a sud di Liverpool, aveva rilevato una percentuale insolitamente alta di morti tra i neonati. Diversi medici avevano iniziato a preoccuparsi per il fatto che molti bambini cominciavano a star male inaspettatamente e peggioravano in poco tempo, morendo senza che si riuscissero a trovare soluzioni. Altri stavano male e poi guarivano, in entrambi i casi senza che si capisse bene come e perché.
Inizialmente era stata aperta un’indagine su tutti i dipendenti del reparto dell’ospedale, compresa Letby che lavorava lì dal 2011: ma a un certo punto le indagini si concentrarono solo su di lei, che risultò essere l’unico fattore comune di tutti i casi di bambini che erano stati male. Fu arrestata per la prima volta nel 2018, venendo rilasciata quasi subito su cauzione. Fu poi arrestata altre due volte, l’ultima quando venne incriminata nel novembre del 2020.
In una delle perquisizioni a casa sua la polizia aveva trovato degli appunti interpretati come un’ammissione dell’uccisione dei neonati. Uno diceva: «Non merito di vivere. Li ho uccisi di proposito perché non sono in grado di prendermene cura». In altri si definiva una persona orribile e malvagia. Nonostante il ritrovamento di questi appunti, nelle udienze dal 2020 a oggi Letby ha continuato a dichiararsi innocente.
Le accuse iniziali erano di omicidio nei confronti di 7 neonati e di attacchi vari nei confronti di altri 10 (alla fine è stata condannata per 7 omicidi e 6 tentati omicidi), tutti avvenuti tra il giugno del 2015 e il giugno del 2016. Nella maggior parte dei casi fu accusata di aver iniettato aria nel loro sangue o nei loro stomaci, in altri di aver dato loro troppo latte e in altri ancora di averli avvelenati con l’insulina. Il neonato più piccolo ucciso da Letby aveva solo un giorno, la più grande era una bambina di 11 mesi che aveva provato a uccidere quattro volte prima di riuscirci. In un caso uccise due gemelli in due giorni consecutivi. Alcuni dei bambini erano nati prematuri, ma erano comunque in buone condizioni di salute. Solitamente cominciavano a star male di notte, durante i turni di Letby.
La polizia ha detto di non essere stata in grado di ricostruire motivi di nessun tipo alla base dei crimini di Letby, né a partire dalla sua quotidianità, né dagli interrogatori. «Non penso che lo sapremo mai, a meno che non sia lei a decidere di dircelo», ha detto Paul Hughes, l’ufficiale che ha coordinato le indagini. Le autorità hanno descritto la sua vita sociale come molto normale e regolare, sottolineando di non aver trovato alcun elemento inusuale per una donna della sua età: aveva un gruppo di amici stretti, andava d’accordo coi genitori, non soffriva di depressione.
La polizia ha anche fatto sapere di star verificando che non ci siano state anomalie nel trattamento dei neonati all’ospedale di Chester nel periodo precedente a quello interessato dalle indagini. Non è stata aperta formalmente alcuna indagine: succederà solo nel caso in cui dovessero essere scoperti fatti potenzialmente rilevanti, cosa che finora non è successa.
Nell’ultima udienza di lunedì gran parte delle attenzioni è stata rivolta al fatto che Letby non si sia presentata in aula, dove invece erano presenti molti genitori dei neonati da lei uccisi. Prima della condanna sono state lette le dichiarazioni dei genitori, e il giudice ha fatto sapere che ne verrà data una copia alla stessa Letby. L’assenza di Letby dall’aula è stata commentata con sdegno anche da diversi politici. Keir Starmer, leader del Partito Laburista e dell’opposizione, ha chiesto al governo di introdurre con urgenza regole che costringano i colpevoli a farsi vedere in aula in casi come questi. Il primo ministro Rishi Sunak ha definito «vile» l’atteggiamento di Letby e ha annunciato che il governo ha intenzione di cambiare le regole sulla presenza in aula dei colpevoli in attesa della pena.