Nel sud del Brasile c’è chi prova a tenere viva una lingua discendente dai dialetti veneti
La storia notevole del "talian", che si sviluppò con le prime migrazioni di italiani in Brasile e ancora oggi è al centro di controversie
di Viola Stefanello
L’Araucaria è un tipo di pianta sempreverde che cresce in varie regioni dell’emisfero meridionale: si trova in abbondanza in Nuova Caledonia come nell’Australia orientale, in Cile come in Nuova Guinea. In Italia questi alberi vengono importati principalmente come piante ornamentali. Nella Serra Gaúcha, verdissima regione montuosa del nord del Rio Grande do Sul – lo stato del Brasile meridionale che confina con Argentina e Uruguay – sono parte integrante e nativa del paesaggio.
Nel Dissionàrio Talian – Brasilian, tomo da più di settecento pagine andato in stampa a inizio giugno, Araucària è la parola scelta per rappresentare la lettera A. Per la lettera B c’è Badil, grossa pala di ferro con manico di legno usata per spostare la terra. Alla C c’è Caliera, contenitore simile a una bacinella usato soprattutto per cucinare la polenta o per fare la liscivia, materiale ottenuto dalla cenere di legna tradizionalmente utilizzata come detersivo per bucato, pavimenti o stoviglie. La lettera G, invece, sta per Galina.
Molte delle parole contenute nel Dissionàrio sono facilmente riconoscibili a chi parla (o quanto meno capisce) i dialetti diffusi in Veneto, Lombardia e Trentino. Altre sono prestiti acquisiti nel corso dei decenni dal portoghese parlato in Brasile. Il cosiddetto “talian” a cui è dedicato il dizionario è infatti una lingua che si è sviluppata a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento nelle aree di colonizzazione italiane della Serra Gaúcha, estremamente isolate dal resto del Brasile.
Nei primi decenni quello che oggi viene chiamato talian era un dialetto poco uniforme, che cambiava di località in località ma era abbastanza comprensibile da permettere a persone che erano arrivate in massa dal nord Italia di comunicare efficacemente tra loro. A quasi 150 anni dall’arrivo dei primi italiani nel Rio Grande do Sul, il talian è considerato una lingua in via d’estinzione, parlata soprattutto dalle generazioni più anziane, che alcune associazioni e persone molto dedite alla causa vogliono preservare, codificare e addirittura introdurre nelle scuole. Non senza controversie.
A dire il vero, i principali studiosi di linguistica che hanno fatto ricerca sul talian a partire dagli anni Settanta non concordano sul definire il talian una vera lingua: preferiscono definirla koinè, un incrocio di vari dialetti provenienti dall’Italia settentrionale e che si è sviluppato nella regione, marcato da elementi linguistici portoghesi e privo di una tradizione scritta consolidata. Chi lo parla, però, lo chiama “talian” da tempo: viaggiando da italiani nel Rio Grande do Sul – anche nella zona della capitale Porto Alegre, che dalla Serra Gaúcha dista più di 100 chilometri – non è raro sentirsi dire da persone del luogo che loro non parlano italiano, ma che “i parla talian”.
Secondo le ultime stime, in Brasile oggi sono 30 milioni le persone che hanno antenati italiani: moltissimi di loro giunsero lì dal nord Italia a partire dal 1875, a seguito di un programma governativo voluto dall’Impero del Brasile per colonizzare le regioni del sud del paese. All’epoca l’Italia aveva da poco smesso di essere un insieme di piccoli regni e nelle zone rurali e montuose del nord molte persone vivevano in condizioni di profonda fame e miseria. A loro il governo brasiliano prometteva terre popolate fino a quel momento da popolazioni indigene nomadi.
«A partire dal 1875, dopo una precedente esperienza per altro ben riuscita con i coloni tedeschi, il governo imperiale brasiliano promosse una politica populazionista massiccia, attraverso il lavoro delle agenzie dell’emigrazione che reclutavano intere famiglie di agricoltori italiani», spiega Antonio de Ruggiero, professore della Pontifícia Universidade Católica do Rio Grande do Sul che da anni studia i risvolti socio-culturali dell’immigrazione italiana nella regione.
L’intenzione del governo brasiliano era esplicita: voleva aumentare la popolazione e al contempo “sbiancarla”, attirando grandi masse di persone dall’Europa (e quindi avere in percentuale meno cittadini neri). E poi i territori incolti erano moltissimi: mentre nel paese si cominciava a discutere della possibilità di abolire la schiavitù, si voleva fondare un sistema produttivo basato su piccole aziende agricole che rifornissero il mercato interno di prodotti agroalimentari.
Tra il 1875 e il 1888 circa un milione di italiani emigrarono in Brasile. Oltre 100mila acquistarono i lotti di terra messi in vendita a condizioni agevolate dal governo brasiliano nel Rio Grande do Sul. Erano prevalentemente veneti, ma anche lombardi e trentini: «Divennero l’icona di un’immigrazione a carattere quasi esclusivamente rurale», dice de Ruggiero. Oggi quei primi nuclei della “Região Colonial Italiana” «sono veri e propri centri urbani a vocazione anche industriale non eccessivamente distanti dalla capitale, che hanno preservato e rivendicano una propria identità legata all’epopea, spesso idealizzata, dei pionieri italiani che vi emigrarono». La formazione nella Serra Gaúcha di colonie relativamente omogenee di immigrati provenienti dalle stesse regioni settentrionali dell’Italia «stimolò fin da subito alcune forme di conservazione identitaria».
Per una quarantina d’anni l’integrazione nella Gaúcha avvenne quasi esclusivamente «tra persone dello stesso gruppo etnico», unite tra loro dalla necessità di individuare «una maniera nuova di organizzarsi in quel mondo dalla natura agreste e ostile», come scrisse nel 1987 Vitalina Frosi, docente dell’Universidade de Caxias do Sul e tra le massime esperte di colonizzazione italiana nella regione.
Le persone che si trovavano a vivere vicine in quelle lande isolate venivano da Belluno e Milano, Trento e Pordenone, Feltre o Brescia. Non parlavano una lingua comune consolidata – d’altronde nemmeno in Italia accadeva, alla fine dell’Ottocento – ma avevano bisogno di comunicare, fosse solo per via dei rari scambi e dei matrimoni tra famiglie di origini diverse. Da questa necessità, e dall’isolamento dal resto del mondo, emerse la koinè di cui parlano i linguisti: un linguaggio mutualmente comprensibile che divenne ancora più necessario quando, dagli anni Dieci del Novecento, lo sviluppo economico cominciò a favorire intensi scambi tra colonie italiane e qualche timido scambio col mondo esterno.
Alcuni cominciarono a usare la koinè anche per scrivere brevi storie. Tra il 1924 e il 1926, per esempio, il frate cappuccino Aquiles Bernardi pubblicò sul giornale regionale Staffetta Riograndense diverse storielle che avevano come protagonista Nanetto Pipeta, «nassuo in Itália e vegnudo in Mérica per catar la cucagna» («Nato in Italia e venuto in America per trovare fortuna»). Scritte in un linguaggio comprensibile a un pubblico rurale, le avventure di Nanetto Pipeta servivano soprattutto a offrire l’immagine di un immigrante ideale e simbolico, che attraverso varie disavventure imparava a vivere nel nuovo mondo.
«E poi l’hanno ucciso», ricorda Juvenal Dal Castel, scrittore, poeta, autore del recente dizionario e membro del Comitato nassional de gestiòn de la lengua talian. In un’ultima storia scritta da Bernardi nel 1926, Nanetto Pipeta fu fatto morire annegato: il suo spazio sulla Staffetta Riograndense fu sostituito dalla pubblicazione di classici internazionali come Robinson Crusoe, tradotti in italiano standard.
Oggi alcuni vedono la sua “morte” come un primo segno della stretta sulle lingue d’immigrazione che si sarebbe verificata negli anni successivi. Tra il 1937 e il 1945 il governo autoritario di Getúlio Vargas passò infatti varie leggi per imporre il portoghese come unica lingua parlata in Brasile e costringere chi non lo parlava a integrarsi nella cultura dominante del paese. All’improvviso, parlare una lingua diversa dal portoghese in pubblico voleva dire esporsi a punizioni che includevano la galera. Questo processo, unito alla decisione di Vargas di partecipare alla Seconda guerra mondiale dalla parte degli Alleati e quindi contro l’Italia fascista, portò a una forte stigmatizzazione e isolamento degli italiani nel paese.
Il ricordo di quell’epoca è ancora molto vivido nella comunità italiana della regione, e le generazioni più anziane lo hanno tramandato a quelle successive.
«È stato un periodo di enorme sofferenza. Inostri antenati sono stati obbligati a parlare una lingua che non conoscevano. Molti hanno smesso di andare anche soltanto a messa o al mercato: non potevano salutare chi incontravano per strada per paura di una punizione», racconta Frosi, a propria volta discendente di italiani. «La proibizione non è stata sufficiente per azzerare del tutto il talian, anche perché funzionava soprattutto nelle città, dove c’era la polizia», dice invece dal Castel. «Nelle colonie, nelle comunità in campagna, la polizia non arrivava perché spesso per arrivarci c’erano a disposizione soltanto strade molto brutte. Ma i coloni che andavano in città si trovavano isolati. L’unica lingua che sapevano era proibita: furono condannati al silenzio».
Sollevati i divieti, rimase lo stigma. João Wianey Tonus nacque nel 1948 in una colonia non molto lontana da Caxias do Sul, la principale città della Serra Gaúcha, nonché massimo polo industriale della regione. Rimasto gravemente infortunato mentre lavorava nei campi da bambino, venne mandato a studiare, al contrario di molti dei suoi fratelli. Degli anni di scuola ricorda soprattutto la vergogna. «Tutti dicevano che parlare talian era brutto, che era molto meglio parlare portoghese, anche se io a sette anni il portoghese non lo parlavo», racconta. «Quando dovevano andare da qualche parte, per esempio dal dottore, i miei fratelli più vecchi mi portavano con loro: mi dicevano “parla ti, che te sa”, anche se avevano dieci anni più di me».
Nelle scuole di città anche soltanto parlare portoghese corretto, ma con una cadenza italiana, era sufficiente a essere considerati non solo ignoranti, ma anche stupidi, rozzi, inferiori. «In questo periodo avviene una doppia stigmatizzazione sociolinguistica: il parlato in dialetto italiano è segno d’ignoranza, il parlato in lingua portoghese denuncia l’origine etnica dell’italo brasiliano: cioè, mezzo italiano, mezzo brasiliano», spiega Frosi.
È sempre in questo periodo che il talian smise gradualmente di essere trasmesso. I genitori evitarono di insegnarlo ai figli per proteggerli dallo stigma, nella speranza che non fossero socialmente esclusi come lo erano stati loro. Le colonie cominciarono a spopolarsi a favore delle città, dove sapere il portoghese offriva molte più opportunità. Il portoghese era, semplicemente, la lingua delle radio, dei giornali, della televisione, dell’amministrazione pubblica, del lavoro. «Non c’è stato il tempo per preservare la lingua perché il progresso aveva fretta», ha scritto Frosi. Le stesse città che in precedenza erano state a larghissima maggioranza italiana si aprirono alla migrazione interna: nell’arco di qualche decennio, quella italodiscendente divenne soltanto una delle tante culture di città come Caxias do Sul o Bento Goncalves.
Le colonie sono diventate oggi aziende agricole moderne. La cultura italiana che caratterizzò a lungo la regione attrae ogni anno migliaia di turisti, entusiasti di percorrere itinerari romanticamente intitolati “Cammini della Colonia” o “Via dell’Uva”. Sono fioriti i festival locali dedicati alla gastronomia italiana, a partire da una riscoperta passione per la polenta, e le feste dei santi patroni. Nelle cittadine più piccole iniziano a ricrearsi i “filò”, antichi ritrovi in cui le comunità rurali si riunivano per cucire, raccontarsi storie, bere e tenersi compagnia al lume di candela.
In un certo senso, il momento più importante della riscoperta del patrimonio culturale di queste comunità fu il 1975, centesimo anniversario dei primi insediamenti coloniali italiani.
Già nel 1958 a Caxias do Sul era stato inaugurato il primo e unico Monumento nazionale ai migranti. All’inaugurazione aveva partecipato anche l’allora presidente della Repubblica italiana, Giovanni Gronchi. Secondo Frosi, a partire dal 1975, con il “boom economico” in Italia e la consacrazione di Caxias do Sul come una delle zone industriali più importanti del Brasile, si assistette a «una specie di rivincita dell’italobrasiliano contro l’umiliazione vissuta, un rigetto della sofferenza, dello spregio e del silenzio imposto al suo linguaggio. L’italobrasiliano proclamò con molta potenza la sua origine, coltivandola in molteplici modi: nel teatro, nel canto, nella gastronomia, nelle feste, nel lavoro (persiste lo stereotipo secondo cui i norditaliani lavorano di più degli altri), nel culto religioso».
A questa rivincita si accompagnò l’opera di ripresa del talian che persiste tuttora. Cominciarono a essere diffusi programmi radio in lingua talian prodotti nei primi tempi soprattutto da frati cappuccini arrivati in Brasile per dare appoggio religioso alle colonie. I frati pubblicavano anche brevi rubriche in dialetto nel loro giornale: il Correio Riograndense, erede della Staffetta Riograndense, su cui era nato e morto Nanetto Pipeta.
Il talian riprese vita inoltre con libri di proverbi, di barzellette e di racconti, ma anche con il teatro: nel 1981 a Caxias do Sul nacquero i Miseri Coloni, compagnia teatrale guidata da João Wianey Tonus e alcuni compagni di seminario. Partirono tenendo spettacoli in talian nelle comunità rurali nei weekend «con un’attitudine politica, per plasmare il nostro futuro salvando questa lingua». Finirono per organizzare spettacoli non soltanto in grandi città come Caxias do Sul o Bento Goncalves, ma anche in vari teatri italiani.
«Tra il 1987 e il 1997 abbiamo riportato in vita Nanetto Pipeta, raccontando le sue nuove avventure», racconta Tonus, che nel 2012 è diventato segretario alla Cultura del comune di Caxias do Sul. «Abbiamo tenuto 160 presentazioni, tra cui otto in Veneto». Negli anni Novanta fu messo in scena O Quatrilho, adattamento di un romanzo omonimo sulla vita degli immigrati italiani nel Rio Grande do Sul all’inizio del Ventesimo secolo che ispirò anche un film candidato all’Oscar nel 1995. Negli ultimi anni, i Miseri Coloni hanno cominciato a proporre spettacoli per bambini in talian, nella speranza che la lingua venga trasmessa anche alle nuove generazioni.
Nel 1988 una cittadina di circa 15mila abitanti, Serafina Corrêa, diventò la prima al mondo a dichiarare il dialetto veneto lingua ufficiale, a fianco del portoghese. Negli anni Novanta cominciarono a tenersi incontri di radioamatori accomunati dall’uso del talian, da cui si sviluppò poi la Federazione delle Associazioni dei Diffusori del Talian, responsabile di gran parte degli sforzi per fissare delle convenzioni ortografiche e grammaticali della lingua che si sperava di diffondere. «Se non l’avessimo fatto, il talian non avrebbe avuto vita lunga», racconta Juvenal dal Castel, che a questo sforzo ha dedicato decenni della propria vita. «Il talian aveva bisogno di avere una forma scritta comune per essere riconosciuto dal governo: serviva un dizionario, una grammatica, persone capaci di insegnarlo».
Oggi l’obiettivo del riconoscimento istituzionale è stato largamente raggiunto: nel 2009 il governo federale ha fondato l’“Inventario della diversità linguistica” e nel 2014 vi ha incluso il talian, riconoscendola formalmente come lingua minoritaria bisognosa di tutela, alla stregua delle lingue parlate dagli indigeni. Per le associazioni che lavorano per diffondere il talian è stata una grande vittoria: il riconoscimento a livello nazionale permette tra le altre cose di partecipare a bandi per richiedere decine di migliaia di reais (la valuta brasiliana) per i propri progetti culturali. Tra questi c’è il Dissionario che comincia con la A di Araucària, ma anche un corso gratuito online da poco offerto dall’Universidade Estadual do Centro-Oeste, ateneo che storicamente è stato molto attivo nello studio delle lingue d’immigrazione brasiliane.
«Abbiamo più di 400 studenti che stanno studiando il talian attraverso le piattaforme Meet e Moodle, oltre a corsi in presenza in 21 comuni nei tre stati del sud del Brasile: gli studenti hanno le età più diverse, dalla nonna alla nipote, e ci sono anche tanti brasiliani di origine polacca, tedesca e africana», racconta dal Castel. Juvenal dal Castel aggiunge che un altro obiettivo è di convincere i legislatori a approvare una legge che permetta di insegnare il talian nelle scuole pubbliche e private, sia tra i bambini che a livello intermedio: «Vogliamo dare al talian e alle altre lingue di immigrazione lo stesso diritto che hanno l’inglese, lo spagnolo, il francese e l’italiano standard».
Quello dell’insegnamento nelle scuole è senza dubbio il tema più divisivo tra chi si interessa al talian. Alcuni, come del Castel, pensano che sia importante che lo stato finanzi l’offerta di lezioni di talian gratuite. L’italiano standard, sostengono, ha già il diritto di essere insegnato nelle scuole e nelle università ed è una lingua utile per trovare lavoro o viaggiare: «L’italiano non ha bisogno di essere difeso, non teme l’estinzione, è la lingua di una nazione potente», dice del Castel, che però aggiunge: «Magari non c’è così tanta gente che pagherebbe per studiare e preservare una lingua che è stata proibita, presa per il culo e disprezzata, e vogliamo che il governo dimostri di essere consapevole che questo patrimonio culturale ha bisogno di aiuto attraverso politiche pubbliche di riparazione», spiega del Castel.
Molti però rispondono che, per quanto rispettino il valore storico, culturale ed emotivo del talian, insegnarlo nelle scuole non ha senso. Secondo loro, il valore del talian non sta nel fatto che nuove persone imparino a parlarlo, ma nel riconoscimento della sua esistenza e dell’importanza sociale che ebbe in uno specifico momento storico. In questo senso, dice Frosi, «c’è stato un aspetto molto positivo dello tsunami linguistico che si è verificato dopo il centenario del 1975: gli italobrasiliani si sono sentiti sollevati dallo stigma, si sono sentiti liberi, hanno riscoperto valori che erano stati silenziati o messi da parte». Secondo Frosi, c’è poi il problema che sarebbe difficile procedere a un insegnamento del talian con regole precise, a una sua normalizzazione, perché oggi il suo attributo fondamentale è «il dinamismo peculiare delle lingue in via di estinzione»: «Non ha una tradizione scritta, né letteraria, né scientifica. La sua essenza è sempre stata l’oralità. Insegnandolo in una situazione formale non si riuscirà a restaurare la sua vera funzione, quella della comunicazione familiare».
Da anni il talian non è più trasmesso da genitori a figli: i più giovani non lo parlano, e al limite lo capiscono, ma anche tra chi da bambino lo parlava più fluentemente è raro farci spesso lunghe conversazioni. È più probabile usarlo per fare qualche battuta, recitare un proverbio quando serve, raccontarsi barzellette, magari bestemmiare. Frosi dice: «Il talian in bocca ai parlanti urbani può essere considerato oggi una lingua inventata, artificiale, una specie di finzione. La tradizione non si forma improvvisando l’insegnamento di una lingua che non è più viva, né formando miracolosamente insegnanti in poche settimane in modo che possano svolgere la pratica linguistica ed educativa in aula».
Frosi e altri ricercatori che negli ultimi anni hanno studiato il tema, come l’italiana Alessia de Biase, sono piuttosto convinti che a fianco delle persone che si battono genuinamente per la preservazione del patrimonio linguistico ce ne siano molte altre che spingono il talian per ragioni economiche e politiche: albergatori che vogliono lucrare sul flusso di turisti attratti dal passato coloniale della regione; politici che vogliono fare leva sulla propria identità per raccogliere voti; editori che pubblicano e vendono libri e giornali a chi prova nostalgia di una “lingua del cuore”.
«Con chi dovrei parlarlo? I miei nonni sono morti, i miei genitori sono vecchi, e mia madre non lo parla più da tempo, comunque. Non ha più una funzione di comunicazione, né orale né tantomeno scritta. Mi basta il portoghese», dice Greyce Dal Picol, insegnante italodiscendente di Caxias do Sul. «Saper parlare la lingua della propria famiglia è molto bello e ammiro molto chi lo sa ancora fare, ma non perché sia utile a qualcosa: piuttosto perché è una lingua che suscita emozioni, che ti permette di ricordare un’epoca passata».