Che fine hanno fatto le procedure accelerate per i migranti contenute nel “decreto Cutro”
Riguardavano le persone provenienti da paesi "sicuri" e servivano per facilitare le espulsioni, ma per ora è ancora tutto fermo
Sono passati tre mesi da quando è stato convertito in legge il cosiddetto “decreto Cutro”, approvato dal governo di Giorgia Meloni a seguito del grave naufragio di migranti avvenuto al largo delle coste di Steccato di Cutro, in Calabria, a febbraio. Il decreto, tanto pubblicizzato dal governo quanto criticato dalle opposizioni, prevedeva soprattutto una riduzione delle misure di accoglienza per le persone che cercano di arrivare in Italia irregolarmente via mare, nel tentativo di scoraggiare nuove partenze.
Uno dei punti principali del decreto era la creazione di appositi centri che avrebbero dovuto permettere un esame “accelerato” delle domande di asilo delle persone migranti provenienti da paesi considerati “sicuri”, quindi dove il governo ritiene vengano rispettati l’ordinamento democratico e i diritti della popolazione (la definizione di paese “sicuro” è contenuta in una direttiva europea del 2013: oggi il ministero dell’Interno italiano considera “sicuri” 16 paesi).
Non solo però questa misura non è stata ancora applicata, ma non è stato nemmeno stato ufficialmente individuato il luogo in cui creare questi centri.
L’idea del governo alla base di questa misura era stata che, essendo “sicuri” i paesi di provenienza, fosse più facile realizzare le espulsioni in caso di domanda respinta: il diritto internazionale infatti impedisce a un paese di rimandare un migrante verso il suo stato di provenienza se in quello stato avvengono per esempio violazioni sistematiche dei diritti umani. L’idea era quindi di realizzare una valutazione delle richieste molto rapida, in grado di concludersi nel giro di un mese a fronte dei diversi mesi o anni che invece ci vogliono attualmente.
In pratica, secondo il decreto Cutro, le persone migranti provenienti da paesi “sicuri” non avrebbero dovuto fare lo stesso percorso di tutti gli altri. Una volta identificati nei cosiddetti “hotspot“, non sarebbero stati inseriti nel normale sistema di accoglienza ma trasferiti in questi centri appositi in stato di detenzione amministrativa, in attesa della risposta alla propria richiesta di protezione internazionale. Se la richiesta fosse stata accolta, il migrante sarebbe stato trasferito in un centro di accoglienza; se respinta, sarebbe iniziata la procedura di espulsione e rimpatrio.
L’applicazione di questa misura era stata però contestata per diverse ragioni. Ci sono delle perplessità su quanto la misura rispetti le leggi italiane ed europee in materia di diritto d’asilo, che prevedono che ogni richiesta vada esaminata con attenzione e su base individuale. Non si può, in altre parole, respingere una certa richiesta basandosi quasi esclusivamente sulla nazionalità di un richiedente asilo.
Da un punto di vista generale, poi, alcuni dei paesi considerati “sicuri” si trovano oggi in situazioni economiche, sociali e politiche molto complicate: soprattutto la Nigeria, dove da tempo c’è una forte instabilità economica e politica, e diffuse violenze da parte dei terroristi del gruppo di Boko Haram, e la Tunisia, dove negli ultimi mesi il presidente Kais Saied ha dato una svolta autoritaria al governo, e sta usando i migranti come capro espiatorio per giustificare la crisi attraversata dal paese.
Per il governo, comunque, il problema principale all’applicazione di questa misura oggi è la mancanza di strutture che dovrebbero ospitare i migranti inseriti nella procedura accelerata. A inizio luglio, nel corso di una visita a Lampedusa, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva detto che il primo centro sarebbe stato pronto in circa un mese, senza però specificare il luogo: ad oggi non ci sono ancora conferme dell’inizio dei lavori di realizzazione (mercoledì Repubblica aveva parlato di Pozzallo, in provincia di Ragusa, ma il ministero aveva detto al Post che non era stata ancora presa alcuna decisione al riguardo).
Anche se dovesse essere realizzato il primo centro rimarrebbero difficoltà concrete nell’applicazione della misura, per il solito problema che i governi italiani devono affrontare quando suggeriscono di aumentare i rimpatri di persone migranti: che l’Italia ha pochissimi accordi bilaterali con i paesi di provenienza dei migranti riguardanti le procedure di espulsione, il cui numero continua a rimanere molto basso. Inoltre dal 2011 i migranti che lo stato vuole espellere non vengono più riaccompagnati forzatamente alla frontiera, ma viene dato loro un periodo di tempo entro cui lasciare l’Italia. Il sistema degli allontanamenti volontari, introdotto per questioni di forze e risorse, ha reso ancora più inefficace l’azione italiana in tema di espulsioni.