Nelle Forze armate italiane ci sono troppi ufficiali
E pochi anni fa sono state prorogate le scadenze di una legge che prevedeva di ridurli, assieme al numero complessivo dei militari
Le affermazioni razziste, omofobe e sessiste contenute nel libro autopubblicato del generale Roberto Vannacci Il mondo al contrario hanno provocato grandi polemiche e hanno riportato l’attenzione sulla situazione delle Forze armate italiane e sulla loro composizione. Una legge del 2012, la 244, conosciuta come “legge Di Paola” (dal nome dell’allora ministro della Difesa Giampaolo Di Paola), prevedeva che entro il 2024 l’organico scendesse dalle 181mila unità di allora a 150mila, con una notevole riduzione della percentuale di ufficiali in servizio. Nel 2022, vista l’impossibilità di raggiungere quell’obiettivo, fu approvato dal parlamento un testo che spostò al 2034 l’obiettivo.
Al momento i militari in servizio nelle Forze armate sono ancora poco più di 165mila: di questi, 21.598 sono ufficiali e 61.148 sottoufficiali. Negli ultimi mesi da alcuni esponenti della destra è stata fatta l’ipotesi di rivedere i numeri previsti dalla legge Di Paola: «visti», ha detto il vicepresidente della Camera dei deputati Giorgio Mulé, di Forza Italia, «i mutati scenari internazionali», e cioè considerando la guerra in Ucraina.
Il generale Roberto Vannacci è un ufficiale in servizio dell’Esercito italiano. È a capo dell’Istituto geografico militare, cioè la struttura che fornisce supporto geotopocartografico all’esercito. È un generale che ha avuto ruoli delicati e di rilievo: è stato comandante della Brigata Paracadutisti Folgore, comandante dell’unità militare Task Force 45 nella guerra in Afghanistan, del contingente italiano durante la guerra in Iraq, dal 2020 al 2022 addetto militare (cioè rappresentante dell’esercito) presso la federazione russa con accrediti anche in Bielorussia, Armenia e Turkmenistan. Dopo l’invasione russa all’Ucraina è stato dichiarato dalle autorità russe «persona non grata».
Vannacci è un generale di Divisione, cioè ha due “stellette”. Sopra di lui c’è il generale capo di Stato maggiore della Difesa (quattro stelle), il generale di corpo d’armata con incarichi speciali (quattro stelle di cui una bordata di rosso) e il generale di corpo d’armata (tre stelle). Sotto il suo grado c’è il generale di Brigata (una stella).
La legge Di Paola si proponeva non solo una riorganizzazione generale delle Forze armate, di ridurre il numero dei militari effettivi ma anche di riequilibrare il numero di ufficiali e soprattutto di generali all’interno dell’apparato. E, di conseguenza, di svecchiare l’intero apparato. Quando venne votata la legge “Revisione dello strumento militare”, voluta dal governo Monti, i generali in servizio in Italia erano secondo la Ragioneria dello Stato 480, di cui 50 di corpo d’armata, che salivano a 69 considerando i parigrado di Carabinieri e Guardia di Finanza. In pratica c’era un generale ogni 378 militari. Negli Stati Uniti, nello stesso anno, i generali erano il doppio ma le forze militari erano composte da 1.471.730 donne e uomini: c’era cioè un generale ogni 1.440 militari. C’erano poi in Italia anche circa 90 generali in cosiddetta “ausiliaria”: ufficiali cioè che avevano cessato il servizio attivo per raggiunti limiti di età, ma che potevano essere richiamati in servizio nel caso ce ne fosse la necessità.
Un articolo del Fatto Quotidiano del 2012 sosteneva anche che tra tutti gli ufficiali con il grado da maggiore in su solo 129 non godessero di trattamento superiore, e cioè l’equiparazione economica a quella di chi rivestiva il grado di colonnello. Il trattamento superiore è riservato a qualunque ufficiale abbia almeno 13 anni di servizio. Attualmente in Italia un generale di corpo d’armata guadagna 124mila euro lordi (compresa la tredicesima); un generale di divisione 107mila, mentre un generale di brigata 79mila euro lordi. Lo stipendio di un sergente va dai 20mila ai 24mila euro l’anno mentre quello degli ufficiali superiori va dai 25mila ai 27mila euro lordi circa. Lo stipendio di un volontario in “ferma prefissata”, come è definito dopo la fine della leva obbligatoria chi presta servizio per un periodo breve nell’esercito, è di circa 800 euro al mese, che aumentano di 50 euro per il corpo degli alpini.
Oggi la situazione è cambiata rispetto all’anno in cui venne votata la legge Di Paola, ma non come avrebbe dovuto secondo gli obiettivi. Nel 2022, quando sono state decise le modifiche alla legge prorogando il termine al 2034, l’esercito aveva 96mila unità (di cui l’8% donne), l’aeronautica circa 40mila, la marina militare 29mila con altre 10.600 unità impegnate nelle capitanerie di porto.
La legge del 2012 di Di Paola, che era stato comandante nello Stato Maggiore della Difesa e presidente del Comitato militare della Nato, si inseriva nella cosiddetta spending review, cioè la revisione della spesa pubblica. Oltre all’obiettivo della riduzione del personale militare a 150mila unità prevedeva una riduzione del 30% delle «strutture operative, logistiche, formative, territoriali e periferiche della Difesa, anche attraverso la loro soppressione e accorpamento ripartendo le risorse finanziarie, orientativamente, nella misura del 50 per cento per il settore del personale, del 25 per cento per quello dell’esercizio e del 25 per cento per l’investimento». L’obiettivo è apparso nel tempo irraggiungibile. Nel 2022 un dossier della Corte dei Conti rilevava che le risorse finanziarie erano ancora destinate per il 65,7% alle spese per il personale, al 17,6% per la componente “esercizio” e al 16,7% per la componente investimento.
Nonostante l’obiettivo della legge Di Paola fosse quello di portare al 12% del totale la percentuale di ufficiali all’interno delle Forze Armate, lo squilibrio tra i ruoli è ancora molto vistoso. In un dossier del Servizio studi della Camera dei deputati è scritto che tra il 2020 e il 2021 è stata registrata una diminuzione di soli 22 ufficiali.
Secondo una relazione tecnica del ministero della Difesa, il livello previsto di 150mila militari dovrebbe essere raggiunto quindi nel 2034. I motivi per cui finora non si è raggiunto l’obiettivo previsto dalla legge Di Paola sono vari. Nel 2013 il governo presieduto da Enrico Letta preparò una norma che prevedeva dieci anni di esenzione dal servizio per il personale più anziano, che avrebbe percepito l’85% dello stipendio maturando al contempo il diritto alla pensione piena che, pur con eccezioni, è equiparata a quella per il pubblico impiego. Quella norma venne ritirata dopo essere stata definita da alcune forze politiche e alcuni giornali “scivolo d’oro”.
Nel 2017 la ministra della Difesa Roberta Pinotti presentò un disegno di legge delega per la rimodulazione del modello professionale nell’esercito. Il testo prevedeva un massiccio ricorso a volontari in ferma prefissata che, arruolati con un’età massima di 22 anni, sarebbero rimasti in servizio per sette anni. Sarebbero poi state fornite agevolazioni per il reinserimento nella vita civile. Il provvedimento, che avrebbe portato negli obiettivi a uno svecchiamento dell’esercito, decadde per la sopraggiunta fine della legislatura.