La notevolissima guida linguistica della Corte Suprema indiana contro il sessismo
Chiede di evitare gli stereotipi di genere nel linguaggio giuridico, perché le parole non sono solo parole e possono influenzare il giudizio
La Corte Suprema dell’India ha pubblicato una guida contro l’uso di espressioni e stereotipi sessisti nel linguaggio giuridico sostenendo che le parole non siano solo parole, e che possano anzi influenzare i giudizi dei tribunali. Il manuale è molto semplice: è costruito come un glossario in cui da una parte ci sono i termini o le espressioni offensive, misogine e sessiste abitualmente usate nelle sentenze o nei documenti legali per riferirsi al genere, e dall’altra ci sono i termini e le espressioni non offensive, non misogine, non sessiste con relative spiegazioni ed esempi.
Il manuale è diviso in tre sezioni principali. La prima individua alcune parole o espressioni connotative legate al genere, che hanno cioè assunto sfumature di significato sessiste. E offre delle alternative. Invece di “adultera” chiede di usare “donna che ha avuto rapporti sessuali al di fuori di matrimonio”; invece che “nata femmina” o “nato maschio” per riferirsi alle persone trans suggerisce di usare “assegnata femmina alla nascita” e “assegnato maschio alla nascita”.
Dice che una “donna in carriera”, una “donna casta”, una “donna di facili costumi”, una “prostituta” o “una seduttrice” sono semplicemente “una donna”. Dice che una “zitella” è una “donna non sposata”, che le molestie sessuali non devono essere banalizzate e descritte come “prese in giro”, e che uno “stupro” è uno stupro: non uno “stupro forzato”. Per quanto riguarda i termini “sopravvissuta” o “vittima” nel caso di una violenza sessuale, il manuale dice che una donna può identificare se stessa con entrambe le espressioni, che possono dunque essere entrambe utilizzate a meno che la persona direttamente coinvolta non abbia esplicitamente espresso una preferenza: in quel caso la preferenza della persona dovrebbe essere rispettata.
Nella seconda parte il manuale identifica alcuni schemi comuni di ragionamento basati sugli stereotipi di genere e spiega perché non sono corretti o perché possono portare a sentenze compromesse. Il manuale parte da un esempio che non ha a che fare con il genere: uno stereotipo diffuso, dice, è che gli individui a basso reddito siano meno affidabili e più inclini a commettere nuovi reati. È uno stereotipo dannoso e se viene assunto in tribunale può portare a danni ancora maggiori: può portare ad esempio a stabilire cifre molto differenti per la richiesta di una cauzione se sono coinvolte una persona che proviene da un contesto a basso reddito e una persona che ha commesso lo stesso reato ma proviene da un contesto di agio.
Questo stesso meccanismo viene applicato dal manuale agli stereotipi di genere e ne individua tre tipologie: quelli legati alle presunte “caratteristiche intrinseche” che apparterrebbero alle donne; quelli basati sui ruoli di genere naturalmente assegnati alle donne; e quelli che hanno a che fare con il sesso, la sessualità e la violenza sessuale.
La guida spiega dunque che le donne non sono “emotive”, “irrazionali” e “incapaci di prendere una decisione” e che il genere di una persona non determina né influenza la sua capacità di pensiero. Dice che non «tutte le donne sono fisicamente più deboli rispetto agli uomini» e che, sebbene uomini e donne siano fisiologicamente diversi, la forza di una persona non dipende esclusivamente dal suo genere. Le donne, poi, non sono “passive” o “compassionevoli” per natura, ma tutte le persone possono presentare entrambi i tratti della personalità.
Il manuale cita delle sentenze in cui sono presenti alcuni di questi stereotipi: una sentenza del 1985 aveva messo in dubbio la testimonianza di due donne che erano state definite «ignoranti» perché appartenevano alla cosiddetta Schedule Tribe, gruppo di persone ufficialmente riconosciute nella Costituzione come svantaggiate: «Le persone che fanno parte di comunità oppresse o marginalizzate non hanno automaticamente un’inferiore capacità cognitiva o una comprensione limitata del mondo», dice il manuale. Citando un’altra sentenza in cui si dice che «la maternità è il bene più prezioso per una donna», il manuale ricorda che non tutte le donne vogliono avere dei figli e che decidere di diventare genitore è una scelta individuale che ogni persona prende in base a una varietà di circostanze.
Nel 2018 il giudice di un tribunale del Kerala aveva definito una donna di 24 anni che aveva sfidato i propri genitori sposando un musulmano, «debole, vulnerabile, e soggetta a essere sfruttata in molti modi». Il giudice si era pronunciato a favore dei genitori che volevano che la figlia tornasse sotto la loro potestà. La Corte Suprema aveva annullato quella decisione spiegando che la legge stabilisce l’età del consenso rispetto a determinate attività, come il matrimonio o il consumo di alcol, e che tutti gli individui da quell’età in poi sono considerati in grado di prendere consapevolmente delle decisioni.
Nel manuale si dice che spesso anche le donne non sposate vengono considerate incapaci di prendere decisioni sulla loro vita: il matrimonio, si spiega invece, «non ha alcuna influenza sulla capacità di un individuo di prendere decisioni».
Per quanto riguarda gli stereotipi basati sui ruoli di genere che, precisa il manuale, sono «prodotti di una determinata costruzione sociale», viene citata un’altra sentenza: riguarda il caso di un uomo che picchiava regolarmente la moglie perché non gli preparava la colazione alle sei del mattino, alzandosi invece alle sette, e perché non si vestiva come lui voleva. Pur dando ragione alla donna, nella sentenza si diceva che comunque «come moglie devota, era senza dubbio dovere della moglie alzarsi prima che il marito uscisse per il lavoro, così come era suo dovere rispettare i desideri del marito in termini di abbigliamento».
L’esempio, spiega il manuale, dimostra che anche quando si arriva a un risultato legalmente corretto «il ragionamento giudiziario può rafforzare stereotipi dannosi sui ruoli delle donne»: in questo caso lo stereotipo secondo cui spetta esclusivamente alla donna svolgere le faccende domestiche o vestirsi secondo le aspettative del marito.
Il terzo tipo di stereotipi analizzati nel manuale riguarda il sesso e la violenza sessuale. Spesso, si dice, si fanno supposizioni sul carattere di una donna in base alle sue scelte: ad esempio i vestiti che indossa o la sua vita sessuale.
Queste ipotesi possono anche avere un impatto sul come le azioni e le dichiarazioni di quella donna vengono valutate nei procedimenti giudiziari, sminuendo l’importanza del consenso. E possono portare a sentenze che giustificano una molestia: « Un determinato abbigliamento non implica che quella donna desideri impegnarsi in un rapporto sessuale né rappresenta un invito a molestarla. Le donne sono capaci di comunicare verbalmente con gli altri e le loro scelte di abbigliamento rappresentano una forma di espressione del sé che è indipendente dalla questione dei rapporti sessuali».
La guida cita una sentenza degli anni Novanta che aveva portato a molte proteste. Il caso riguardava un’assistente sociale che apparteneva alla casta dei dalit, tra le più oppresse dell’India a causa di antiche tradizioni discriminatorie. La donna era intervenuta per impedire un matrimonio precoce ed era stata stuprata per ritorsione, davanti al marito, da un gruppo di uomini che appartenevano a caste considerate superiori a quella dalit.
Nel 1995 il tribunale aveva assolto in primo grado gli accusati scrivendo che i membri di una casta dominante non stuprerebbero mai una donna dalit, che uomini di caste diverse non parteciperebbero mai a uno stupro di gruppo, che degli uomini anziani di età compresa tra i 60 e i 70 anni non sono in grado di partecipare a uno stupro di gruppo e che era improbabile che una donna potesse essere stuprata in presenza del marito.
La terza e ultima sezione del manuale presenta le decisioni vincolanti prese nel tempo dalla Corte Suprema dell’India, nelle quali questi diversi stereotipi sono stati respinti e messi in discussione: e che devono dunque essere utilizzate dai giudici come precedenti a cui fare riferimento, insieme alle indicazioni del manuale.
Nell’introduzione alla guida, il presidente della Corte Suprema dell’India, DY Chandrachud, ricorda che il giuramento dei giudici richiede di adempiere alle loro funzioni con imparzialità e obiettività, e di come gli stereotipi, spesso interiorizzati, possano invece influenzare quell’imparzialità. Dice poi che l’uso di stereotipi «patriarcali» è dannoso anche quando non altera l’esito di un giudizio: «Il linguaggio utilizzato da un giudice non riflette solo la sua interpretazione della legge, ma anche la sua percezione della società».
Quando il linguaggio giudiziario utilizza degli stereotipi sessisti non fa che rafforzarli nel mondo perpetuando discriminazioni, esclusione e «creando un circolo vizioso di ingiustizia». L’obiettivo del manuale «non è quello di screditare i giudizi precedenti o i giudici responsabili di quei giudizi. Mira piuttosto a creare consapevolezza sull’uso involontario degli stereotipi di genere nei procedimenti giudiziari, facilitando così la loro eliminazione dalle sentenze future».
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Della presenza di giudizi morali o valutazioni nelle sentenze che hanno a che fare con la violenza di genere si parla da decenni anche in Italia, anche nelle ultime settimane. L’Italia è stata tra l’altro più volte condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani per aver riprodotto stereotipi sessisti e pregiudizi sul ruolo della donna.
Paola Di Nicola Travaglini, in magistratura dal 1994, giudice della Corte di Cassazione ed esperta di violenza di genere, ha spesso denunciato come non solo il diritto ma anche la lingua costituiscano «potenti strumenti simbolici» di cui i giudici sono quotidiani portatori: «Con le loro pronunce e le loro narrazioni conferiscono il sigillo dell’universalità e dell’ufficialità, in nome dello Stato» e non dovrebbero dunque contribuire al «mantenimento di un ordine diseguale in cui il sistema di giudizi di valore accettato è fondato sulla denigrazione, la sottovalutazione, l’estromissione delle donne».
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A sua volta Fabio Roia, magistrato esperto nel contrasto alla violenza di genere, dice che «quando si trattano temi che sono particolarmente delicati e sensibili, o temi che avranno un impatto mediatico, il giudice dovrebbe essere molto asettico, molto laico: dovrebbe evitare giudizi morali o valutazioni di altra natura per attenersi, invece, alla stretta narrazione dei fatti, alla traduzione dei fatti nei principi del diritto».
Il manuale con gli schemi molto semplici della Corte Suprema indiana si può leggere per intero qui.