L’inchiesta sulla collezione di resti umani dello Smithsonian
Che include molti cervelli di persone non bianche presi senza consenso per confermare teorie legate al "razzismo scientifico"
Lunedì il Washington Post ha pubblicato una lunga inchiesta che racconta la storia della collezione di resti umani dello Smithsonian, l’importante istituto di istruzione e ricerca amministrato e finanziato dal governo degli Stati Uniti che esiste dal 1846 e gestisce alcuni tra i musei più importanti del paese. L’inchiesta, firmata da Nicole Dungca, Claire Healy e Andrew Ba Tran, è stata svolta con la collaborazione dello Smithsonian, che ha permesso ai giornalisti di esaminare migliaia di documenti – tra cui appunti personali e lettere – e l’intero inventario di tutti i resti umani ancora in possesso dell’istituzione.
Quella dello Smithsonian è una delle più grandi collezioni di resti umani al mondo, composta da più di 30mila oggetti, tra cui mummie, teschi, denti, ossa e una collezione di 268 cervelli che sono stati prelevati senza consenso da cadaveri di persone indigene, nere o comunque razzializzate. Nel suo insieme, i resti provengono da cadaveri in campi di battaglia, ospedali e obitori di oltre 80 paesi, quasi sempre senza il consenso degli individui o delle loro famiglie. In altri casi, antropologi e scienziati hanno saccheggiato cimiteri per esumare i cadaveri di cui ritenevano di avere bisogno a fini scientifici.
In molti casi, questi resti furono prelevati e collezionati dagli antropologi attivi tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento per cercare di confermare teorie pseudoscientifiche ascrivibili al “razzismo scientifico”, ovvero la convinzione che fosse possibile catalogare le persone in razze ben precise, fisicamente distinte e separate, inferiori o superiori le une alle altre. Secondo queste teorie, il fatto che popolazioni diverse avessero culture, valori e usanze diverse poteva essere spiegato direttamente dalle loro caratteristiche fisiche, come la dimensione e la forma del cranio o la grandezza del cervello.
Quella raccontata dal Washington Post non è di per sé una storia nuova: è noto da tempo che nei soli Stati Uniti, tra musei, archivi e collezioni di istituzioni scientifiche, sono tuttora distribuiti i resti di oltre 10mila persone, di cui tantissime indigene o afroamericane. Dagli anni Novanta del Novecento in poi la comunità scientifica e antropologica ha cominciato a sviluppare dei sistemi per far sì che i resti cominciassero a essere restituiti, seppur tardivamente, ai discendenti delle persone a cui appartenevano.
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Il razzismo scientifico era molto diffuso nella ricerca statunitense del periodo: sia l’inventore del telefono Alexander Graham Bell che l’allora presidente dell’università di Stanford David Starr Jordan facevano per esempio parte dell’American Breeders’ Association, illustre organizzazione che aveva lo scopo di «investigare sull’ereditarietà nella razza umana, enfatizzando il valore delle stirpi superiori e la minaccia sociale rappresentata dalle stirpi inferiori». Questo genere di teorie contribuirono tra l’altro a fornire una giustificazione “scientifica” all’istituzione di leggi di segregazione razziale sempre più stringenti nel paese, oltre ad ampi programmi di sterilizzazione di massa di individui dalle caratteristiche considerate non desiderabili.
L’inchiesta del Washington Post conferma che l’antropologo Ales Hrdlicka, curatore del Museo Nazionale degli Stati Uniti (predecessore del Museo Nazionale di Storia Naturale dello Smithsonian) e intellettuale di spicco dell’epoca, cominciò a collezionare i cervelli che sono tuttora in possesso dell’istituto proprio perché voleva dimostrare scientificamente l’inferiorità delle persone non bianche a partire dallo studio dei loro cervelli.
Nei 40 anni in cui Hrdlicka guidò la divisione di antropologia fisica allo Smithsonian, costruì una rete internazionale di antropologi, scienziati, medici e professori per raccogliere parti del corpo per suo conto, soprattutto in zone disagiate o abitate da persone povere, dando loro consigli su come farlo senza attirare l’attenzione. «I ricercatori gli inviarono resti umani dalle Filippine, dal Sudafrica, dalla Malesia, dalla Germania e da tutti gli Stati Uniti, raccolti da ospedali, obitori e cimiteri. Ottenne almeno 57 cervelli soltanto di afroamericani morti negli Stati Uniti. (…) Hrdlicka e lo Smithsonian a volte acquistavano i resti, o rimborsavano i donatori per il costo della spedizione di parti del corpo a Washington», racconta il Washington Post.
In altri casi, però, «depredava le popolazioni indigene. Era disposto a fare di tutto per acquisire resti, inclusi gesti particolarmente brutali. In Messico, tagliò le teste dai corpi degli indigeni che erano stati massacrati dal governo. A St. Louis, si aspettava che alcuni degli indigeni filippini in mostra all’Esposizione Universale del 1904 sarebbero morti, quindi si organizzò per assicurarsi di ottenere i loro cervelli. Durante un viaggio in Perù raccolse più di duemila teschi».
Hrdlicka lavorò attivamente anche per convincere il Congresso ad adottare leggi che consentissero agli antropologi di prelevare i corpi non reclamati – ovvero quelli che non erano stati identificati dai parenti o provenivano da famiglie che non potevano permettersi di seppellirli – da ospedali e cimiteri. Degli oltre 30.700 resti umani ancora in possesso dello Smithsonian, più di 19mila (circa il 62 per cento) sono stati raccolti mentre Hrdlicka era a capo della divisione di antropologia fisica.
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Dopo la morte di Hrdlicka, la collezione di cervelli fu in larga parte dimenticata ed esposta soltanto in un paio di mostre temporanee. A parte una valutazione del 1999 da parte di un esperto per verificare l’identità di un cervello, nessuno li ha più studiati dall’epoca. Altri resti nella collezione, come ossa e teschi, vengono usati di tanto in tanto per studiare comunità e popolazioni del passato, oppure per aiutare a identificare resti umani coinvolti in casi criminali.
Dagli anni Sessanta e Settanta, quando le comunità indigene cominciarono a chiedere la restituzione dei resti dei propri parenti e antenati ai musei, l’approccio della comunità scientifica e della società statunitense sul tema è cambiato: nel 1990 fu anche approvata una legge federale che obbliga i musei a restituire i resti a qualsiasi tribù o discendente diretto ne faccia richiesta. Per conto proprio, lo Smithsonian ha anche istituito una politica interna che consente ai discendenti di qualsiasi individuo i cui resti siano presenti nella loro collezione di chiederne la restituzione.
Il Museo di storia naturale di Washington, gestito dalla Smithsonian Institution, ha affermato che negli ultimi trent’anni ha restituito 4.068 gruppi di resti umani e si è offerto di rimpatriarne altri 2.254, appartenenti a più di 6.900 persone. Nel 2015, il museo ha creato una politica di rimpatrio internazionale per i resti umani, che hanno portato alla restituzione dei resti di 54 persone indigene, tra cui le teste di quattro Maori, alla Nuova Zelanda. Gli unici rimpatri internazionali sono stati in Nuova Zelanda, Australia e Canada. Solo quattro dei cervelli sono stati restituiti.
Uno dei problemi principali è che molti dei resti non sono immediatamente riconducibili a singoli individui, perché sono indicati soltanto con termini generici relativi alla loro età, provenienza o etnia. Un altro è che molti discendenti non sanno nemmeno che la collezione di resti esiste: una legge federale impone che lo Smithsonian informi solo le comunità di nativi americani, nativi dell’Alaska o nativi hawaiani sull’esistenza di eventuali resti di loro antenati, ma circa 15mila resti non sono riconducibili a nessuna di queste comunità.
Lonnie G. Bunch III, la segretaria dello Smithsonian (ovvero la persona che sovrintende a 21 musei, 21 biblioteche, lo zoo nazionale, numerosi centri di ricerca e diverse unità e centri educativi) si è scusata pubblicamente per il modo in cui il museo ha raccolto i resti umani in passato e ha creato un gruppo di lavoro che deciderà come trattare i resti ancora in possesso dell’istituzione. «Voglio che sia chiaro che [il modo in cui si è comportato Hrdlicka] non è accettabile e dobbiamo trovare nuovi modi per fare ammenda», ha detto Bunch. «Dobbiamo mettere in chiaro che tipo di persona fosse, ma anche l’impatto del razzismo scientifico sul settore». Lo Smithsonian si è anche scusato per il dolore causato da Hrdlicka e da «chiunque altro abbia agito in modo non etico in nome della scienza e per conto della nostra istituzione, a prescindere dall’epoca in cui si sono svolte le sue azioni».
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