Il caso Agatha Christie
«Sono diventata adulta leggendo tutti i suoi romanzi per poi dimenticarli e rileggerli di nuovo fino alla scoperta della sua autobiografia, bellissima, dove ho incontrato una donna dalla vita sorprendente: gli inverni dell’infanzia in Francia perché il padre affittava casa ai ricchi americani; i viaggi in giro per il mondo, il surf, la scrittura e l’inatteso successo, i due matrimoni, la misteriosa scomparsa, la passione per l’archeologia… Ma la scoperta più grande è avvenuta nel 2021 durante un periodo di qualche mese che ho passato a New York»
Ho letto il primo libro di Agatha Christie intorno ai 12 anni. Me l’ha dato mia zia Grazia in una delle lunghe estati che passavo con lei sul Monte Amiata. Si intitolava L’assassinio di Roger Ackroyd. Non era il primo libro che Christie aveva scritto, non lo sapevo ovviamente, né mi interessava allora, ma avevo già una certa attenzione per le cronologie perché, l’anno prima, Sandro detto il Polpo, un amico dei miei genitori, aveva iniziato a regalarmi i dischi dei Beatles registrati su audiocassetta, in ordine cronologico. Mi aveva detto che bisognava ascoltarli così.
In effetti, a pensarci bene, anche mia zia mi disse subito qualcosa che aveva a che fare con la cronologia, se non dei libri, certo dei personaggi. Mi disse che dovevo stare molto attenta a non leggere Sipario, l’ultima avventura di Poirot, e il motivo era evidente. In quel libro Poirot moriva. Ubbidii, e iniziai a passare le mie giornate a leggere quei romanzi color giallo che, però, trovavo solo a casa sua. Quindi, d’inverno, continuavo a saccheggiare la biblioteca della mia mamma e leggevo quello che leggeva lei: Hermann Hesse, Raymond Queneau, Linus (la rivista) e FMR (la rivista). Nemmeno a scuola c’era Agatha Christie. La mia biblioteca scolastica delle elementari mi aveva introdotto al Corriere dei piccoli, a Asterix e a Piccole donne, La figlia del capitano, Pattini d’argento, ma di gialli nemmeno l’ombra. Doveva essere una cosa che riguardava pochi iniziati come me e mia zia e quindi era chiaramente bene non parlarne né a scuola né con nessuno.
Così ho attraversato gli anni delle scuole superiori e poi quelli dell’Università coltivando questa passione in segreto. C’era sempre qualcuno che per fare il ganzo citava Georges Simenon. Grazie, erano buoni tutti a citarlo: a quel tempo (e ancora oggi) lo pubblicava già Adelphi. Ma Christie no, non la citava nessuno intorno a me. Se ci penso, adesso, mi sembra che il momento in cui questa passione è stata sdoganata ha coinciso con l’esplosione della moda dei gialli “blu” di Sellerio e io ho iniziato a non sentirmi più sola. Grazie mille, Andrea Camilleri (e Leonardo Sciascia), sempre. La verità è che sola, ovviamente, non lo ero mai stata. Noi lettori appassionati eravamo e continuiamo a essere miliardi, eppure la letteratura cosiddetta di genere continua a essere considerata letteratura di serie B, come la chiamava Gianni Rodari. Ma questa è un’altra storia.
Insomma, sono diventata adulta leggendo tutti i romanzi di Agatha Christie per poi dimenticarli e rileggerli fino alla scoperta della sua autobiografia, bellissima, dove ho incontrato una donna dalla vita sorprendente: gli inverni dell’infanzia in Francia perché il padre affittava casa ai ricchi americani; i viaggi in giro per il mondo, il surf, la scrittura e l’inatteso successo, i due matrimoni, la misteriosa scomparsa, la passione per l’archeologia… Ma la scoperta più grande è avvenuta nel 2021 durante un periodo di qualche mese che ho passato a New York.
Dormivo poco e ogni mattina andavo a fare lunghe passeggiate ascoltando gli audiolibri di Agatha Christie, a volte in inglese a volte in italiano tanto mi piaceva la lettura di Alberto Onofrietti. Così, camminando per Central Park, le cuffie in testa, e la città che si svegliava, mi sono persa nel racconto stando attenta non solo alla trama, ai risvolti storici che costellano tutti i romanzi, alle tecniche di investigazione (entusiasmanti per chi come me è cresciuta nel segno di Miti emblemi e spie di Carlo Ginzburg), ma anche a particolari linguistici cui non avevo mai prestato attenzione. Forse perché ero negli Stati Uniti, forse perché il momento storico lo rendeva inevitabile, ho iniziato a notare, per la prima volta e con un certo disagio, il modo in cui in alcuni romanzi venivano tratteggiati alcuni caratteri di ebrei, greci, italiani. Non accadeva sempre. Ogni tanto.
Ho iniziato a farci caso, e mi è tornata in mente la questione della cronologia: ho iniziato a mettere in ordine i libri nei quali le connotazioni negative legate all’origine o alla religione erano più evidenti e mi sono resa conto che erano in gran parte libri scritti prima della Seconda guerra mondiale. Devo dire, mi sono molto rilassata, perché ho pensato che, raccontando quei tipi umani, Christie restituiva non tanto il suo sguardo quanto quello del suo tempo, di certi ambienti, di una certa borghesia (qui una interessante riflessione su lei e Roald Dahl). Uno sguardo che, per fortuna, è cambiato con il passare degli anni e che ce la fa apprezzare ancora di più perché non è semplice fare i conti con le strutture mentali dell’epoca in cui ci si trova a crescere, come lei, evidentemente, era riuscita a fare.
Eppure sapevo che prima o poi qualcuno avrebbe accusato Agatha Christie di razzismo e antisemitismo, e infatti è accaduto, sta accadendo. Razzista, ha detto Sam Naidu, professoressa di Letteratura inglese alla Rhodes University in Sudafrica, in una intervista alla BBC data dopo l’annuncio dell’ultimo film di Kenneth Branagh, Assassinio a Venezia in uscita il 14 settembre. Razzista e antisemita.
Approfondendo la questione mi sono accorta che era già successo. Leggendo un bel saggio del 1987 (Detecting Social History: Jews in the Works of Agatha Christie) ho ripensato a quello che mi aveva detto tanti anni fa David Elwood, storico inglese studioso del fascismo italiano. Stavamo a casa sua a Oxford, dovevo intervistarlo per un documentario su Mussolini, e lui, parlando dell’aviazione durante la guerra di Etiopia, mi aveva fatto notare come i giovani aviatori, italiani o inglesi che fossero, appartenevano tutti alla stessa classe sociale e condividevano le stesse idee razziste nell’Europa degli anni Trenta.
Non si capisce perché un’eco di queste idee non dovrebbe esserci anche nei libri di Christie, donna del suo tempo ma anche oltre il suo tempo, se si pensa al fatto che scelse di fare di un profugo belga, Hercule Poirot, uno dei personaggi più importanti della letteratura del XX secolo. Un profugo belga, costretto a emigrare in Inghilterra durante la Prima guerra mondiale, vittima di continui insulti da parte di esponenti di quello sciovinismo razzista e classista che Christie demolisce un pezzo per volta nei suoi romanzi (ne parla qui Igiaba Scego).
Quando Christie iniziò a scrivere i suoi “gialli” era ancora largamente condivisa l’idea che il crimine fosse una prerogativa dei poveri e dei viziosi. I maggiordomi erano spesso, davvero, gli assassini e difficilmente un delitto poteva aver luogo fra un tè del pomeriggio e una messa domenicale. Nei romanzi di Christie, invece, la classe sociale non conta. E questo è davvero un elemento rivoluzionario. Se i suoi libri raccontano prevalentemente i bianchi perché bianca e coloniale era la società inglese in cui i suoi personaggi si muovono, bianchi sono anche gli assassini. Bianchi e benestanti.
Lo sottolinea lei stessa attraverso lo sguardo di uno dei suoi personaggi: «“Quello che è successo ha dell’inverosimile! Non l’avevo mai neanche sentito dire… intendo che non è mai avvenuto tra gente della nostra classe”. Era evidente che la signorina Carroll era convinta che gli omicidi venivano commessi solo da alcolizzati appartenenti alle classi inferiori» «“I’m sure it was a most extraordinary thing to happen. I’ve never heard of such a thing happening – I mean to anyone in our class of life”. It was clearly Miss Carroll’s idea that murders were only committed by drunken members of the lower classes» (traduzione di Rosalba Buccianti).
È un estratto da Lord Edgware Dies/Se morisse mio marito, uscito nel 1933, novant’anni fa. È un romanzo che ci viene in aiuto anche rispetto al tema del razzismo e dell’antisemitismo, ma in un modo inatteso. Come fa notare, infatti, Francesco Spurio in un bell’articolo di qualche anno fa, è accaduto spesso che le traduzioni italiane degli anni del fascismo riscrivessero interamente dei passaggi in chiave razzista: «Basta rivolgere l’attenzione alle prime pagine di Lord Edgware Dies, tradotto da Tito N. Sarego e, come si ricorderà, apparso nei “Libri Gialli” nel 1935 col titolo Se morisse mio marito. Nel presentare infatti l’attrice Carlotta Adams, nella traduzione si mettono in bocca a Poirot e al suo fedele compagno di avventure Hastings frasi palesemente antisemite che non trovano traccia alcuna nel testo originale. La Christie si limita a descrivere, per bocca di Poirot, l’attrice come una donna scaltra e attratta dal denaro: “Miss Adams, I think, will succeed. She is shrewd and that makes for success. Though there is still an avenue of danger – since it is of danger we are talking. – You mean? – Love of money. Love of money may lead such a one from the prudent and cautious path” (Christie 1933, 6). Nell’edizione italiana, ben prima che si scatenasse la campagna razziale sul modello nazista, si rispolvera invece il risaputo cliché dell’ebreo gretto e avido, creando dal nulla uno sproloquio lungo ben nove righe. Si fa in modo che Poirot dapprima domandi a Hastings: “Si sarà accorto, spero, che è ebrea?”, per poi constatare che “quando ci si mettono, questi ebrei, sanno arrivare molto in alto … e costei non manca certo di attitudini”. Nella libera “reinterpretazione” italiana, è invece attribuito a Hastings il seguente commento: “A dire il vero non ci avevo fatto caso, ma l’osservazione del mio amico mi aprì gli occhi e notai anch’io sul bel volto bruno le inconfondibili stigmate della sua razza” (Sarego 1935a, 7-8)».
Quello che pare incredibile è che le traduzioni razziste degli anni Trenta abbiano continuato a circolare per tutto il dopoguerra, e che nessuno si sia preso la briga di rifarle da capo. Neppure Oreste Del Buono, nella prefazione a Assassinio sull’Orient Express del 1970, ha pensato che fosse importante ripartire dalle traduzioni. Lo sottolinea Eleonora Federici in un volume collettaneo su fascismo, franchismo e traduzioni. Per cui il destino di Agatha Christie è sempre stato questo: essere adattata ai tempi in cui veniva letta per motivi politici e pedagogici.
Esemplare in questo senso la battaglia di HarperCollins, editore di Christie, per uniformare in tutto il mondo il titolo di Dieci piccoli indiani (già Ten little niggers) in E non rimase nessuno (And then there were none). Una storia raccontata molto bene nella nota dell’Editore posta in fondo all’edizione del 2019 del romanzo (traduzione di Lorenzo Flabbi). Il titolo, come è noto, deriva da una filastrocca popolare negli Stati Uniti le cui varianti riportano, a partire dalla fine del XIX secolo, sia niggers che indians che soldiers.
«Il crime novel che esce nel novembre 1939 da Collins a Londra si intitola Ten Little Niggers; la vicenda si svolge a Nigger Island e le statuette rappresentano “ten little Niggers”. Il termine nigger però è inaccettabile negli Stati Uniti, dove il romanzo fu pubblicato da Dodd, Mead & Co. nel gennaio del 1940 col titolo And Then There Were None, tratto dall’ultimo verso della filastrocca anziché dal primo; Soldier Island è il nome dell’isola e i dieci sono “little soldier boys”. (Sempre negli USA per qualche anno si affacceranno in libreria anche dei paperback col titolo Ten Little Indians e con le conseguenti modifiche dei nomi dell’isola e dei protagonisti)». Oggi il titolo più usato è And Then There Were None, l’isola si chiama Soldier Island e i dieci sono “little soldiers”. La prima edizione italiana del 1946 era già E poi non rimase nessuno. Fu, del resto, Christie stessa a cambiare il titolo la prima volta, quindi sono sicura che non avrebbe avuto problemi a cambiarlo una seconda.
E degli stereotipi cosa avrebbe fatto? Recentemente si è parlato del caso Dahl e anche in quella circostanza si è arrivati a decidere che alcune sensitive words dovessero essere eliminate dai suoi libri. Mi è parsa una decisione infelice: se Dahl era un antisemita (e l’ha rivendicato fino alla fine), sarà il caso di saperlo, non di dare una bella passata di vernice alle sue pagine, restaurandole per il pubblico di oggi.
Io sono della scuola dello storico dell’arte Cesare Brandi che non c’entra niente con la traduzione ma un po’ c’entra. Ci ho pensato spesso viaggiando in oriente, in Thailandia per esempio, dove i templi vengono “restaurati” rifacendoli da capo. La scuola di Brandi, invece, è quella del restauro conservativo: si interviene perché le opere non reggono al passare del tempo, ma si lascia traccia dell’intervento. Lo stesso metodo dovrebbe essere usato con le opere di scrittori come Dahl, e come Christie. Non possiamo cancellare i pregiudizi dalla letteratura degli anni Trenta, è pericolosissimo, si potrebbe arrivare a credere, così, che la Shoah per esempio sia stata il prodotto delle decisioni di un singolo pazzo furioso e non di una società nella quale l’antisemitismo e il razzismo erano parte anche della cultura dei liberali, persino di alcuni progressisti. E si dovrebbe farlo non solo per capire il passato, ma anche per evidenziare la pericolosità di molti stereotipi dei quali, certo, non ci siamo liberati.
Alla fine la scelta filologica e critica pare sempre la più giusta. È la strada intrapresa (per ora) qui da noi: a settembre Mondadori, da sempre editore italiano di Christie, pubblicherà una serie bilingue dei romanzi della “regina del delitto”, pensata non solo per mettere in luce la bellezza della scrittura di Christie, ma anche la sua immensa capacità di rievocare la tradizione letteraria inglese che, da Shakespeare in poi, è rintracciabile in tutte le sue opere (cura la collana Federico Biolchi). In attesa dell’uscita del Meridiano di Christie (la selezione delle opere sarà dello scrittore Antonio Moresco), continuo a rileggerla trovando sempre nuove notazioni acute e ironiche sulle trasformazioni della società inglese. Qualche giorno fa, per esempio, mi sono accorta di una scena di Polvere negli occhi (A pocket full of Rye, 1953): di fronte al malore del capoufficio, un gruppo di segretarie di solito estremamente efficienti non sa dove andare a cercare un medico. Lo scambio di battute è fantastico, come il commento di Agatha Christie: «Come cittadine di uno Stato ove esisteva un servizio nazionale di Sanità, si dimostravano piuttosto ignoranti» (traduzione di Silvia Boba). In questa direzione di scavo, che punta a chiarire la lettura collettiva e la contestualizzazione storica delle diverse edizioni di Christie, stanno lavorando da qualche anno due giovani e bravissimi critici, Marco Amici e Davide Astegiano, che cureranno parte dell’apparato critico del Meridiano, ma il cui lavoro è già visibile qui (ed è davvero imperdibile per noi devoti lettori).
Infine: un mese fa ho deciso di leggere Sipario, contravvenendo a quanto mi aveva detto mia zia nel 1984. Forse il fatto di aver compiuto cinquant’anni mi ha fatto pensare che non mi sarei perdonata se mi fosse successo qualcosa senza averlo letto, e poi anche Agatha che prima di morire ha deciso di far morire il suo eroe. È andata bene, ho retto il colpo. E non è escluso che anche di questa morte mi dimenticherò, come faccio ormai da anni con tutte le altre, sorprendendomi ogni volta di aver dimenticato trama, personaggi, vittime e colpevoli, e di tornare a essere ancora per qualche ora quella bambina di 12 anni, con il suo libro “giallo” tra le mani, alle pendici del Monte Amiata, in un’assolata estate di tanti anni fa.
(dedicato a mia zia Grazia)