Gli Stati Uniti importano sempre meno dalla Cina
A causa dei dazi, della guerra commerciale e dell'instabilità politica, e questo potrebbe avere grosse conseguenze anche sul resto del mondo
Nei primi cinque mesi del 2023 le importazioni degli Stati Uniti dalla Cina si sono ridotte di un quarto rispetto all’anno scorso. Questo andamento rientra in una tendenza più ampia e iniziata da tempo con cui gli Stati Uniti stanno progressivamente imparando a fare a meno dei prodotti provenienti dalla Cina: le aziende comprano sempre meno materie prime e componenti di origine cinese; e le persone acquistano sempre meno prodotti di consumo cinesi, soprattutto quelli a basso costo.
Lo fanno per una combinazione di almeno tre ragioni, sia politiche che economiche: i dazi imposti dall’amministrazione di Donald Trump su alcuni beni (e mai davvero rimossi anche dal suo successore Joe Biden) che hanno reso i prodotti cinesi strutturalmente più costosi di un tempo e quindi meno appetibili per i consumatori e le aziende statunitensi; la guerra commerciale cominciata da tempo tra i due paesi che limita il commercio di tecnologia e microchip per non fornire conoscenze tecnologiche strategiche alla controparte; le politiche sempre più stataliste e anti concorrenziali imposte dal governo cinese che danneggiano le divisioni delle aziende americane in Cina, e questo sta provocando un calo degli investimenti.
A giugno le esportazioni cinesi hanno avuto il calo più grande dall’inizio della pandemia, anche per effetto della riduzione della domanda statunitense. I consumatori e le aziende stanno progressivamente riducendo le quantità di merci importate negli Stati Uniti dalla Cina a vantaggio di altri mercati, soprattutto nel caso dei prodotti a basso costo: di questi oggi solo il 50 per cento è cinese, mentre fino a dieci anni fa erano il 70 per cento.
È la prima volta che l’enorme ruolo della Cina come esportatore rischia di ridursi nel commercio con gli Stati Uniti. Nel frattempo altri paesi ne stanno approfittando: Messico, Vietnam e Thailandia stanno già in parte sottraendole quote del mercato americano.
Il primo motivo per cui gli Stati Uniti comprano sempre meno merce dalla Cina riguarda i dazi e le restrizioni commerciali che da anni i due paesi si stanno imponendo reciprocamente. Secondo uno studio del Centre for Economic Policy Research questi dazi stanno danneggiando soprattutto i consumatori statunitensi. I dazi sono tasse sull’importazione di beni provenienti da specifici paesi, che vengono imposte per scoraggiare l’acquisto di merce straniera in modo da favorire le aziende locali o da svantaggiare quelle estere. Queste tasse, ovviamente, rendono immediatamente più cari i prodotti colpiti, e nel caso dei dazi americani sui prodotti cinesi questo aumento di prezzo si è scaricato in gran parte sui consumatori, che per questo ne hanno ridotto l’acquisto.
Il secondo motivo per cui le importazioni statunitensi si sono ridotte riguarda la guerra commerciale iniziata dagli Stati Uniti per limitare lo sviluppo dell’industria cinese in alcuni settori tecnologici ritenuti particolarmente importanti.
Da un anno l’amministrazione di Joe Biden ha imposto notevoli restrizioni all’esportazione di tecnologia sensibile e microchip, a cui la Cina ha risposto con ulteriori misure protezionistiche. Le misure che hanno preso gli Stati Uniti nell’ultimo anno sono state senza precedenti e secondo molti esperti questa è la prima volta che il governo statunitense tenta in maniera così esplicita di “contenere” lo sviluppo economico e tecnologico cinese, impedendo al paese di avere accesso alle tecnologie avanzate delle aziende americane.
Recentemente Biden ha annunciato che introdurrà alcune limitazioni per le società finanziarie statunitensi che vogliono investire nello sviluppo di alcune tecnologie in Cina, in particolare in quelle legate ai chip, all’intelligenza artificiale e ai computer quantistici (un tipo di computer molto più veloci e potenti di quelli tradizionali). È solo l’ultimo di una serie di divieti che sono stati introdotti nell’ultimo anno, che sono: il divieto di vendere ad aziende cinesi chip avanzati prodotti negli Stati Uniti; quello di vendere chip avanzati prodotti in altri paesi, ma che comprendano tecnologia o software statunitensi; il divieto a ogni azienda del settore che voglia avere rapporti commerciali con gli Stati Uniti di vendere tecnologie a un insieme di aziende che appartengano alla “Lista Non Verificata” (sono oltre 500 e comprendono tutte le imprese cinesi del settore, ma anche aziende di hardware e di software); e il divieto ai cittadini statunitensi di lavorare per aziende cinesi del settore dei semiconduttori.
Sono misure che hanno creato problemi concreti alle aziende che operano nei settori interessati, sia cinesi che statunitensi: di colpo non potevano più vendere certa merce nell’altro paese, perdendo così clienti e denaro. Le conseguenze non si limitano a chi importa o esporta questa merce per rivenderla ai clienti finali, ma coinvolgono anche le multinazionali con sedi e produzioni dislocate negli Stati Uniti e in Cina, le cui filiali oggi fanno molta più fatica ad avere rapporti commerciali. Per esempio una fabbrica statunitense in Cina può trovarsi nella condizione di non poter spedire merce alla casa madre negli Stati Uniti, il che genera notevoli problemi se si tratta per esempio di componenti necessari per le produzioni.
– Leggi anche: La Cina limiterà l’esportazione di alcuni materiali usati per la produzione di microchip
Il terzo motivo è legato a nuove regole introdotte dal governo cinese per inasprire i controlli anti spionaggio, che causano conseguenze molto pratiche per chi fa affari nel paese. Il reato non si riferisce più solo ai segreti di stato e ai documenti dei servizi segreti, ma anche a tutti i documenti, dati, materiali o elementi relativi alla sicurezza nazionale. La definizione è molto vaga e potenzialmente problematica per le aziende: potrebbe rientrarvi qualsiasi tipo di documento aziendale, anche quelli relativi alle normali attività commerciali, come le indagini di mercato, le informazioni sulle aziende concorrenti e sui partner commerciali.
Questo tipo di politiche molto interventiste ha conseguenze notevoli sull’operatività delle aziende straniere in Cina. Per esempio il Wall Street Journal ha raccontato il caso di Pixelworks, un’azienda statunitense che produce chip e che anni fa decise di aprire una filiale in Cina. Inizialmente l’investimento fu accolto molto bene dalle autorità locali, ma con il tempo si fecero sempre più intense le pressioni da parte del governo cinese per limitare la condivisione di informazioni con la sede centrale di Pixelworks. Il governo impose quindi una serie di requisiti sempre più stringenti per fare in modo che la filiale staccasse gradualmente le sue operazioni da quelle della casa madre statunitense, con il risultato che alla fine la società dovette dividersi di fatto in due entità distinte.
A causa dei numerosi rischi economici provocati dai dazi e dall’inasprimento della legislazione cinese, molte aziende stanno cercando di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, e di estendere la loro presenza ad altri paesi ritenuti meno rischiosi.
Come racconta il Washington Post, aziende come HP e Stanley Black & Decker sono tra quelle che stanno gradualmente cambiando la dislocazione delle loro catene produttive. Il produttore di computer HP ha fabbriche, fornitori e centri di sviluppo in Cina, dove è ben radicato e dove per il momento ha dichiarato di voler restare. Allo stesso tempo ha intenzione di potenziare la sua produzione anche in Messico e in Thailandia, per ridurre il rischio in caso di eventuali problemi in Cina. Il produttore di attrezzi Stanley Black & Decker ha chiuso tre anni fa un grosso stabilimento a Shenzhen e ha spostato la produzione in Messico.
All’inizio di quest’anno, il Messico è diventato il principale partner commerciale degli Stati Uniti, così come il Vietnam e la Thailandia sono diventati delle alternative concrete per le aziende che cercano sbocchi in Asia fuori dalla Cina.
Oltre a tutto questo gli Stati Uniti importano sempre meno merci dalla Cina e le loro aziende stanno gradualmente allentando le relazioni con il paese asiatico per una tendenza diffusa un po’ ovunque, che non riguarda solo queste due economie: quella di accorciare tutte le catene produttive dopo la crisi dei commerci mondiali che si è innescata con la pandemia.
Prima della crisi le catene produttive erano piuttosto lunghe, nella misura in cui la produzione di un bene prevedeva numerosi passaggi in giro per il mondo (materie prime reperite da più parti, assemblaggio da un’altra, ricerca e sviluppo da un’altra ancora, e così via). Oggi la tendenza è invece quella di accorciare queste catene, e di concentrare il più possibile lo sviluppo e la produzione in aree geografiche ristrette, per ridurre i rischi economici. Questa ricostituzione di catene produttive più corte, dicono gli esperti, sta in parte danneggiando le esportazioni cinesi.
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