Chi è che appicca gli incendi dolosi
Quelli che bruciano le regioni del Sud d'estate lo sono spesso: i responsabili non sono “piromani”, ma persone spinte da moventi personali
In Italia la quasi totalità degli incendi ha cause umane, intenzionali o meno. Quelli originati da cause naturali, come fulmini e fenomeni di autocombustione, sono rarissimi, mentre molto più spesso sono dovuti ad azioni involontarie: possono partire dalle scintille causate dai freni di un treno, ad esempio, o dal surriscaldamento della marmitta di un’automobile a contatto con l’erba secca, o ancora da un rogo per bruciare delle sterpaglie in campagna. Si stima però che nella maggior parte dei casi le cause degli incendi siano dolose, anche se è difficile trovare i responsabili.
Gli incendi che in questo periodo vengono appiccati in molte zone d’Italia, soprattutto nelle regioni del Sud, non sono però imputabili a piromani, se non in una percentuale molto piccola. La piromania è infatti un disturbo patologico, riconosciuto dal DSM, il Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali. In particolare fa parte di quei disturbi «da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta». Il piromane è attratto dal fuoco, ma anche dagli strumenti per accenderlo e governarlo, è condizionato da un impulso irrefrenabile, non è spinto da nessuna ostilità verso qualcuno: l’impulso si placa solo appiccando l’incendio. È un disturbo inserito nella sezione di cui fanno parte la cleptomania, la ludopatia o il gioco d’azzardo patologico.
Secondo il DSM non può essere considerato piromane chi invece appicca incendi per soldi, ideologia, vendetta o per vantaggio personale. Si tratta, in questi casi, non di piromani ma di incendiari. Le persone che stanno appiccando incendi in questo periodo sono quindi prevalentemente incendiari, come ha spiegato al Giorno Gianfilippo Micillo, dirigente del servizio antincendi boschivi dei vigili del fuoco, ex forestale. «Un incendio su due è collegato alla disattenzione, o a pratiche agricole sbagliate. Il resto si spiega con una sola parola: incendiari», ha detto.
Secondo le statistiche il fuoco, ha detto ancora Micillo, «è considerato un gesto di rivalsa contro gli altri, di vendetta. Poi ci possono essere gesti di rabbia contro le autorità magari dopo una multa. Altri roghi sono legati all’attività venatoria, per spostare la selvaggina, o a quella pastorale».
Secondo un recente rapporto realizzato da Legambiente, dall’inizio dell’anno al 27 luglio sono stati interessati da incendi quasi 514 chilometri quadrati di terreno, cioè quasi 75mila campi da calcio. Gli incendi hanno colpito prevalentemente Sicilia, Sardegna, Calabria, Puglia, Abruzzo. Solo nei giorni dal 25 al 27 luglio sono bruciati 310 chilometri quadrati di vegetazione. I dati sono stati elaborati analizzando quelli satellitari EFFIS, European Forest Fire Information System. «Sono però dati approssimativi per difetto» dice Antonio Nicoletti, responsabile aree protette e biodiversità di Legambiente, «perché questi dati monitorano solo incendi superiori ai 30 ettari [0,3 chilometri quadrati, ndr] di superficie interessata. Mancano al conto tutti quegli incendi più piccoli che sono estremamente numerosi».
Nicoletti fa l’esempio dell’incendio appiccato da un bambino di dieci anni a Zungri, in Calabria, in provincia di Vibo Valentia e di cui il presidente della Regione Occhiuto ha mostrato un video ripreso da un drone: «quell’episodio», spiega Nicoletti, «non mostra altro che qualcosa che in agricoltura si fa da sempre: bruciare le stoppie per rigenerare il terreno». Per esempio, «nelle zone colpite dal fuoco, dopo la liberazione di sostanze azotate, si trovano più funghi, gli asparagi crescono di più e meglio». Il problema è che «è fatto in maniera sbagliata e in un periodo in cui non si deve fare, ma non è pubblicando un video che si risolve il problema che invece avrebbe bisogno di interventi più incisivi e di prevenzione, oltre che di repressione».
Se da una parte ci sono agricoltori e allevatori che appiccano fuochi per rigenerare i terreni, dall’altra ci sono interessi di gruppi della criminalità organizzata che esercitano il loro controllo sul territorio. Si tratta di persone consapevoli di fare danni alle altre persone e all’ambiente, e che lo fanno per tornaconto personale: «appiccano il fuoco per gestire le attività di pascolo senza troppe limitazioni o per vendetta contro qualcuno oppure per danneggiare la concorrenza che ha ottenuto una concessione per un taglio di un lotto boschivo o per creare panico durante la stagione estiva», dice Nicoletti.
Vengono insomma appiccati incendi come forma di ricatto contro imprenditori turistici o amministrazioni locali. Come successo negli ultimi giorni in Sardegna, infatti, gli incendi spesso costringono persone in vacanza ad abbandonare le zone in cui si trovavano, con gravi conseguenze sull’economia locale (i responsabili e i moventi degli incendi dolosi in Sardegna però non sono stati individuati, quindi potrebbero derivare da altre motivazioni).
Ci sono poi gli incendi appiccati dai bracconieri: è più facile cacciare in aree percorse da incendi perché gli animali si concentrano dove l’incendio non ha colpito la vegetazione. E poi ci sono incendi appiccati da cacciatori che vogliono colpire altri cacciatori perché nelle zone percorse da incendi è proibita la caccia per cinque anni.
C’è poi un altro movente per chi appicca incendi. L’articolo 10 della legge numero 353 del 2000 dice che «le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni». Il problema è che a censire «tramite apposito catasto le aree percorse dal fuoco» devono essere i comuni. Spesso, soprattutto i piccoli comuni, non hanno i mezzi e le persone per effettuare il censimento: la legge quindi non viene applicata, e il vincolo al cambio d’uso di fatto in alcuni casi non viene rispettato. Chi ha interesse a sgomberare certe aree boschive perché vuole costruirci sa che può farlo bruciandole, contando sul fatto che su quel terreno non verrà applicato il divieto.
Secondo i dati Istat, c’è stato un aumento delle denunce per incendi boschivi dal 2018, un record di 514 denunce nel 2021 e 5.207 reati accertati nel ciclo degli incendi nel 2022, concentrati prevalentemente in Calabria, Sicilia, Lazio, Toscana e Lombardia. A livello provinciale invece le zone più colpite sono Cosenza e Salerno.
Le regioni con il maggior numero di incendi nel 2022 sono state Sicilia e Calabria, rispettivamente con 611 e 544 reati contestati. Segue al terzo posto il Lazio con 479, la Toscana con 441 e la Lombardia, che dal decimo è passata al quinto posto con 415. Negli anni dal 2018 al 2022 in Sicilia sono stati 2.938 i reati accertati per incendi dolosi, colposi e generici, 191.386 gli ettari di superficie boschiva e non andati in fumo. Palermo (677), Messina (605) e Catania (444) sono state le città con più illeciti. In Calabria dal 2018 al 2022 sono stati 2.709 i reati accertati di questo tipo, 63.196 gli ettari di superficie boschiva e non percorsi dalle fiamme. Cosenza (1652), Catanzaro (454) e Crotone (412) le città dove si sono registrati più reati di questo tipo.
Nel 2015 è stata adottata la legge 68 che ha introdotto gli ecoreati nel codice penale. Nei casi più gravi di incendi appiccati dolosamente si può configurare il reato di disastro ambientale che prevede pene fino a 15 anni di reclusione. L’articolo 423 bis del codice penale dice che chi provoca intenzionalmente un incendio «su boschi, selve o foreste ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento, propri o altrui» fuori dai casi in cui è legittimo farlo è punito con pene da quattro a dieci anni. In caso di incendio colposo, da uno a cinque anni. L’articolo 424 invece dice che chi appicca il fuoco a una cosa propria o altrui al solo scopo di danneggiarla, e in questo modo rischia di provocare un incendio, è punito con pene da sei mesi a due anni.
È stato chiesto da alcune forze politiche un inasprimento delle pene. Secondo Legambiente sarebbero invece essenziali altri interventi, come affidare a un ente unico nazionale la gestione degli incendi in maniera integrata per garantire un coordinamento tra tutti i soggetti coinvolti. «Dal 2017, quando cioè è stato abolito il corpo forestale, sono molti i soggetti coinvolti, dai vigili del fuoco ai carabinieri con la Protezione Civile a coordinare. Non c’è confusione, ma è una struttura complessa. La Protezione Civile dovrebbe avere un ruolo più incisivo», dice Nicoletti.
Secondo Legambiente servirebbe poi aggiornare le statistiche migliorando la base di raccolta dei dati, potenziare i presidi statali, integrare le strategie contro gli incendi con le politiche agricole e integrare la pianificazione forestale e le strategie di adattamento climatico. «Vanno poi aumentate le pene, certo», dice Nicoletti, «ma soprattutto bisogna estendere le pene previste dal codice penale a tutte le tipologie di incendi e non solo a quelli boschivi».