Il documentario che rese celebre Sixto Rodriguez
“Sugar Man” racconta come, a sua insaputa, uno sconosciuto cantautore di Detroit diventò un simbolo contro l'apartheid in Sudafrica
Qualcuno credeva che il cantautore statunitense Sixto Rodriguez fosse morto sul palco, in maniera più o meno teatrale, decenni fa: nei primi anni Settanta aveva scritto due dischi che non avevano avuto successo, con il risultato che la sua etichetta decise di abbandonarlo, e lui di abbandonare la musica. Si mise a fare l’operaio, e non sospettava che a migliaia di chilometri di distanza, nel Sudafrica degli anni dell’apartheid, le sue canzoni avevano guadagnato un enorme successo tra i giovani contrari al regime. Rodriguez, che è morto mercoledì a 81 anni, lo seppe solo quando un suo fan sudafricano e un giornalista musicale riuscirono a rintracciarlo alla fine degli anni Novanta.
La storia incredibile di come tutto questo accadde è raccontata nel documentario del 2012 Sugar Man (in inglese Searching for Sugar Man), che si chiama come la canzone più famosa di Rodriguez e vinse il premio Oscar nel 2013: ma soprattutto contribuì a farlo conoscere al grande pubblico e a dargli una fama che negli Stati Uniti fino a quel momento non aveva mai avuto.
Rodriguez era cresciuto nella Detroit degli anni Sessanta. Veniva da una famiglia povera di immigrati messicani, suonava canzoni folk che parlavano di ingiustizie, droghe e ribellione, e si esibiva nei locali per pochi dollari. Tra il 1970 e il 1971 l’etichetta di Los Angeles Sussex Records pubblicò gli album Cold Fact e Coming from Reality, che erano piaciuti alla critica ma non aveva comprato quasi nessuno. Immaginando di non avere un futuro nella musica, Rodriguez comprò una casa all’asta per 50 dollari, trovò lavoro come operaio in un’azienda di demolizioni e mise su famiglia.
Qualche tempo dopo una casa discografica australiana scoprì i due dischi, ne comprò i diritti e li ripubblicò insieme in una raccolta che divenne subito un grosso successo. Nel 1979 Rodriguez andò in tour in Australia, dove suonò per la prima volta davanti a 15mila persone, e ci ritornò di nuovo nel 1981. «Pensavo fosse l’apice della mia carriera», raccontò vari anni dopo a Rolling Stone. «Avevo raggiunto quel risultato epico. Poi non successe molto. Non ci furono altre chiamate o cose del genere».
Grazie a qualche passaggio in radio però le sue canzoni erano arrivate fino in Sudafrica, dove per via dei testi contro l’oppressione e i pregiudizi sociali si trasformarono in inni contro l’apartheid, specialmente tra i giovani bianchi liberali e istruiti. Rodriguez insomma diventò una leggenda a migliaia di chilometri da Detroit, senza che lui lo sapesse, e rimanendo invece sconosciuto negli Stati Uniti. In Sudafrica aveva successo sia per la sua musica sia proprio per il completo mistero che lo circondava, visto che i giornali musicali statunitensi non se ne occupavano, e che di lui si sapeva solo quello che dicevano le copertine dei dischi. A un certo punto cominciò a circolare la voce che si fosse ucciso, sparandosi o dandosi fuoco, addirittura sul palco durante un concerto.
Fu così che nel 1997 un suo fan, Stephen Segerman, proprietario di un negozio di dischi di Cape Town, decise di creare un sito internet per rintracciarlo e capire che fine avesse fatto, assieme al giornalista musicale Craig Bartholomew. La ricerca si concluse un anno dopo, quando i due ricevettero una email da Eva Rodriguez, una delle sue figlie, che disse loro che il padre era vivo e stava bene. Nel 1998 Rodriguez partì quindi per un tour in Sudafrica, dove si esibì in sei tappe davanti a migliaia di persone che cantavano a memoria i testi delle sue canzoni: le migliaia di fan che non aveva mai saputo di avere.
Nel frattempo la storia venne scoperta dal regista svedese Malik Bendjelloul, che aveva già girato alcuni documentari musicali per la tv su Elton John, Rod Stewart, Bjork e i Kraftwerk. Bendjelloul decise di raccontarla in un documentario che intreccia la storia delle ricerche di Segerman e Bartholomew con interviste a musicisti, produttori e addetti ai lavori che ripercorrono la carriera mai decollata di Rodriguez negli Stati Uniti; ma inserisce anche il commento di alcuni attivisti che spiegano il significato della sua musica per loro, le riflessioni delle sue tre figlie e soprattutto lo stupore e la commozione con cui Rodriguez stesso parla del successo che non aveva mai saputo di avere.
Bendjelloul ci mise quasi cinque anni per completare il documentario e circa quattro per convincere Rodriguez a parteciparvi. All’inizio il cantautore aveva detto di essere scettico sul fatto che la sua storia potesse essere interessante, anche per via dei temi affrontati nelle sue canzoni. Poi giudicò il risultato «strabiliante».
Sugar Man venne presentato nel gennaio del 2012 al Sundance film festival, il più importante e noto festival di cinema indipendente del mondo, e fu subito un grande successo. Vinse tre premi solo lì, poi l’Oscar come miglior documentario nel 2013 e altre decine di riconoscimenti, trasformando Rodriguez in una star anche negli Stati Uniti. Il cantautore un tempo dimenticato venne ospitato nei popolarissimi programmi serali di David Letterman e Jay Leno, si esibì al Beacon Theatre di New York e al festival di Glastonbury, e cominciò una serie di tour mondiali, con date in molti paesi europei.
Bendjelloul disse che in Sudafrica Rodriguez era «famoso come i Rolling Stones o Bob Dylan», che faceva parte del «pantheon degli dei del rock» e che la sua era «la storia migliore che avesse mai sentito». A un certo punto tuttavia si era convinto che non sarebbe riuscito a finire il documentario su di lui. A lavoro quasi ultimato il principale produttore lo aveva giudicato scadente e smise di finanziarlo: poi però Bendjelloul riuscì a completarlo sia grazie all’aiuto di altri due produttori, sia facendo riprese a bassissimo costo con il suo iPhone e l’app 8MM Vintage Camera. Per Bendjelloul, che invece morì nel maggio del 2014 a 36 anni, quella di Rodriguez era anche «la storia migliore» che era convinto avrebbe potuto sentire «in tutta la vita».