Il riposo dei delfini
«All’apparire in lontananza della grande forma scura del branco che nuotava lento vicino al fondo, ci fermavamo in attesa. I delfini, totalmente incuranti della nostra presenza, si muovevano come in un sogno, e forse anche noi eravamo un sogno per loro. Con il passare delle ore il loro comportamento slittava da uno stato quasi letargico a uno di progressiva attività. A mezzogiorno il branco si era sfaldato e ogni animale seguiva l’impulso del momento. I delfini più giovani venivano verso di noi spinti dalla curiosità e non si riusciva più a capire chi fossero gli osservatori e chi gli osservati»
Nel settembre del 2003 mi trovavo in Sudafrica, a Durban, in occasione del quinto Congresso mondiale dei parchi. Era un momento di grande dinamismo nel settore della tutela degli spazi naturali, fucina di importanti novità riguardo alla definizione e allo sviluppo dei ruoli della governance delle aree protette, della finanza sostenibile per renderle efficaci, e dei concetti di equità sociale e condivisione dei benefici per renderle accettabili alle popolazioni locali coinvolte. Il congresso, aperto nientemeno che da Nelson Mandela e dalla regina Noor di Giordania, aveva attirato più di tremila delegati da 157 paesi, e io ero uno di questi.
Per tutelare porzioni pregiate di ambienti naturali ancora presenti sul pianeta, insieme alle specie vegetali e animali che le popolano, l’istituzione di aree protette è considerata uno dei metodi più efficaci. L’area in questione all’interno di un determinato perimetro – terrestre o marino che sia – viene assoggettata per legge a speciali regole, mirate a contenere il comportamento umano entro limiti che non ne pregiudichino il valore naturale. Tuttavia, per quanto fondamentale, l’atto legislativo è soltanto il primo passo. Una volta formalmente istituita, in assenza di una costante gestione e sorveglianza, ai fini della sua tutela un’area protetta è indistinguibile dal territorio che la circonda: di fatto, non è protetta per niente.
Questa è purtroppo la sorte di moltissimi parchi naturali e aree protette in tutti i continenti, e la spiegazione è semplice. Gestire un’area protetta ha un costo significativo perché bisogna creare un apposito ente di gestione, assumere e formare personale, e dargli una sede e i mezzi per operare. Troppo spesso il legislatore, fiero di aver condotto in porto il processo istitutivo, “si dimentica” di stanziare i fondi necessari alla gestione – ed ecco che un nuovo elemento viene ad aggiungersi alla lunga lista di “parchi sulla carta”, a confondere le statistiche e le idee sul progresso della conservazione nel mondo reale.
A Durban nel 2003 mi sono imbattuto in un caso che rappresenta un’eccezione al meccanismo vizioso qui sopra descritto. Mi venne detto che la mia presenza nello stand del dipartimento egiziano della conservazione della natura sarebbe stata gradita. Al mio arrivo nello stand trovai ad accogliermi con grande cordialità Moustafa Fouda, direttore del dipartimento e storico paladino della tutela ambientale nel suo paese. Offrendomi del tè zuccherato in una di quelle tazzine che bisogna imparare a tenere in mano per non scottarsi, l’augusto professore mi spiegò il motivo della sua preoccupazione mentre avvolgeva sé stesso e un po’ anche me nella nuvola di fumo di una sigaretta che sembrava non finire mai.
Il governo egiziano doveva affrontare con urgenza una situazione che si era sviluppata a Samadai, un reef corallino che sorge isolato nel mar Rosso, a circa sei km dalla costa nei pressi di Marsa Alam. A Samadai una cintura di coralli disposta a ferro di cavallo crea un’ampia laguna di sabbia nella cui protezione si recano a riposare durante le ore diurne le stenelle dal lungo rostro (Stenella longirostris), una specie di delfini distribuita lungo l’intera fascia circumtropicale dei tre oceani.
Questi eleganti e slanciati delfini passano la notte in mare aperto, nelle zone dove la piattaforma continentale si inabissa, per cacciare i piccoli pesci e i calamari di cui si nutrono. Poi, durante le ore diurne, si rifugiano nella protezione dei reef per riposare, quando sarebbero più vulnerabili agli attacchi da parte degli squali che frequentano il mare aperto.
Con un gruppo internazionale di colleghi mi ero interessato da tempo allo studio e alla conservazione dei cetacei nel mar Rosso, e le particolari abitudini delle stenelle mi erano ben note. Quello che non conoscevo era invece lo sviluppo degli eventi che si era verificato a Samadai e che turbava le notti dell’amico professor Fouda.
Samadai era diventato meta di un crescente turismo subacqueo in Egitto già dalla fine degli anni ’90. Nel corso delle visite al reef, che possono essere organizzate solo mediante barche di grandi dimensioni per via della sua distanza dalla costa e delle condizioni abituali del mare, quasi sempre mosso, i visitatori subacquei si erano spesso trovati a nuotare in mezzo ai delfini tra un’immersione e l’altra, e la prevedibilità di questa circostanza aveva dato vita, progressivamente, a una fiorente industria di dolphin watching.
Turisti di ogni nazionalità, attirati dalla possibilità di nuotare con i cetacei, arrivavano a frotte a Marsa Alam da tutta la costa egiziana attirati dall’invidiabile esperienza, così che in breve Samadai divenne la meta di folle schiamazzanti – composte perfino da 800 persone alla volta – che si buttavano in acqua a inseguire i delfini senza alcuna regola o la minima preoccupazione per l’effetto che questo comportamento avrebbe potuto avere sugli animali.
Il genio era uscito dalla lampada, e Moustafa Fouda aveva il compito di farcelo rientrare. Erano già nate proteste e appelli sul web contro questo stato di cose, e il governo non poteva più trascurare una situazione che avrebbe molto probabilmente portato presto all’abbandono da parte dei delfini di un loro habitat chiave con conseguenze negative sul piano ecologico innanzitutto, ma anche di immagine ed economico.
Mi venne dato l’incarico di abbozzare un piano di gestione di Samadai, che misi insieme in quattro e quattr’otto dopo un breve sopralluogo in loco per confrontarmi con la situazione, con le realtà locali e, per quanto possibile – vista la scarna base di dati scientifici disponibili – con le esigenze dei delfini. Consigliai di delimitare con una prima linea di galleggianti la parte interna del reef – la zona A – da dedicare esclusivamente alla frequentazione indisturbata degli animali, e quindi soggetta al divieto assoluto di ingresso da parte di persone. Adiacente a tale zona avrebbe dovuto esserci un altro settore – la zona B – delimitato da una seconda linea di galleggianti, in cui i turisti avrebbero potuto entrare a nuoto in gruppi non superiori a dieci, sotto il controllo di una guida appositamente addestrata. Tutte le barche avrebbero dovuto rimanere al di fuori di questa seconda zona, nella rimanente zona C. Completavano il piano l’adozione di un codice di condotta, orari di visita commisurati alle abitudini dei delfini, e un tetto al numero massimo di visitatori giornalieri nel reef.
Niente di fondamentale dunque in questo programma, basato soprattutto sul buon senso e sulla poca scienza a disposizione. Era un piano pensato tenendo in mente soprattutto le esigenze delle stenelle, con una zona A dalle dimensioni di circa trenta campi di calcio – più che adeguata a garantire il loro riposo. Ciò detto, il potenziale di fruizione da parte dei turisti rimaneva anch’esso altissimo, perché quando i delfini sono presenti nel reef – cosa che non accade tutti i giorni dell’anno – la possibilità per i visitatori di incontrarli in acqua è quasi una certezza.
Come previsto, la prospettiva incontrò qualche resistenza tra gli operatori locali, per i quali era ovviamente meglio continuare con business as usual senza tante regole, costi e limitazioni. Ma il piano venne adottato dal governo in maniera molto spedita, e di spazio per le discussioni non ne fu lasciato un gran che. Personalmente non sono un entusiasta dei regimi autocratici, ma devo riconoscere che in questa circostanza la situazione politica in Egitto agì in favore dei delfini.
Contrariamente a quanto di solito avviene in questi casi, la gestione dell’area protetta di Samadai fu organizzata in maniera particolarmente rapida ed efficace. Gli operatori dovettero munirsi di guide certificate, mentre le visite dovevano essere prenotate presso l’ufficio dei ranger a Marsa Alam versando le relative quote d’ingresso. Per parte sua, il governo assicurò la costante presenza a Samadai di due ranger per controllare che le visite si svolgessero nel rispetto delle regole.
A piano approvato, il supporto della Cooperazione italiana al Cairo mi offrì l’opportunità di portare avanti negli anni successivi un programma di monitoraggio per verificare l’efficacia della gestione di Samadai. Misi su una squadretta di ricercatrici, rigorosamente femminile tanto per portare un po’ di sano scompiglio nell’irsuta compagine dei ranger locali. Ci recavamo quotidianamente a Samadai a bordo di un precario gommone con cui percorrevamo il tratto di mare, spesso abbastanza agitato, che separa il reef dalla terraferma: venti minuti di montagne russe – ma quando arrivavamo nella laguna eravamo in paradiso. Il nostro compito era di studiare l’ecologia delle stenelle dal lungo rostro con particolare attenzione al loro uso dell’habitat corallino, e anche di osservare il loro comportamento in relazione alla presenza dei visitatori.
Il periodo trascorso con i delfini di Samadai mi ha lasciato un ricordo meraviglioso. Tanto per cominciare, era la cornice stessa del luogo a colpire il visitatore di primo acchito, con la bellezza prepotente del reef con la sua tavolozza di colori azzurro, verde, turchese e bruno; ma forse anche per la sensazione di protezione che gli trasmette. Entrare nelle calme acque della laguna dopo essere stati sbalzati sulle onde del mare scuro e ostile che lo circonda era tutt’uno con un senso di sollievo e di sicurezza, un po’ come raggiungere un’oasi dopo aver attraversato il più impervio dei deserti.
Ma era soprattutto la frequentazione del reef da parte dei delfini che ne faceva un luogo così speciale, per di più nella consapevolezza di aver contribuito, seppure nella modesta misura dettata dalle circostanze, a mantenerne vivo il valore per i cetacei. La presenza dei delfini nelle acque tranquille del reef non aveva soltanto un valore ideale: era una situazione reale, palpabile, impossibile da non cogliere.
Arrivati a Samadai di prima mattina e ormeggiato il gommone nel punto prestabilito indicato dai ranger, entravamo in acqua in silenzio, in apnea, pinneggiando lentamente per non disturbare. All’apparire in lontananza della grande forma scura del branco che nuotava lento vicino al fondo, con le singole sagome dei delfini ancora indistinguibili, ci fermavamo in attesa. Il branco andava avanti e indietro lentamente, da un lato all’altro del reef, spesso passandoci vicinissimo.
I delfini, totalmente incuranti della nostra presenza come se fossimo invisibili, si muovevano come in un sogno – e forse anche noi eravamo un po’ come un sogno per loro. Con il passare delle ore questo comportamento slittava da uno stato quasi letargico a uno di progressiva attività. A mezzogiorno il branco si era sfaldato e ogni animale seguiva l’impulso del momento. In questa fase i delfini più giovani venivano verso di noi spinti dalla loro curiosità di mammiferi intelligenti, e a quel punto non si riusciva più bene a capire tra tutti noi chi fossero gli osservatori e chi gli osservati.
Per farla breve, potemmo verificare che la gestione delle visite sulla base del piano approvato ebbe effetti positivi sull’uso del reef da parte dei delfini, che ancora oggi, a vent’anni esatti dall’inizio dell’attuazione programma di gestione, continuano a utilizzare Samadai per il loro riposo diurno senza significative variazioni rispetto all’anno zero. Il caso di Samadai, tuttavia, è abbastanza esemplare non solo per l’efficacia della protezione conferita.
Con i proventi della vendita dei biglietti d’ingresso Samadai è divenuto una fonte di reddito che ha consentito il finanziamento non solo delle attività di sorveglianza nel sito stesso compresi gli stipendi dei ranger, ma anche di numerose altre località di valore naturale nell’area allargata intorno a Marsa Alam, al punto che si può oggi affermare che i delfini di Samadai stiano finanziando la tutela di un’assai più vasta area costiera egiziana.
La storia della tutela dell’habitat dei delfini di Samadai è interessante e incoraggiante, tuttavia è un caso molto raro che deve il suo successo a motivi specifici, tra cui la limitata estensione dell’area coinvolta, la semplicità degli obiettivi da raggiungere (proteggere l’habitat di una singola specie), l’interazione con un numero limitato di operatori che dopo un primo periodo di adattamento sono stati avvantaggiati dai provvedimenti di gestione, e i vantaggi economici derivanti dalla gestione. In modo particolare, sono convinto che la facilità e la rapidità con cui Samadai è stato protetto siano dipese in maniera determinante dal fatto che la sua protezione non ha comportato limitazioni alla pesca – tradizionalmente un’attività quasi intoccabile dovunque si ponga il problema di affrontare un conflitto tra attività umane in mare e tutela dell’ambiente.
Un breve sguardo al Mediterraneo ci racconta infatti una storia molto differente. In questa regione fin dagli anni ’80 si cominciò a pensare seriamente alle aree marine protette come strumento di conservazione degli ambienti marini. In Italia, per esempio, tutto cominciò con la legge 979 del 1982, intitolata Disposizioni per la difesa del mare. In estrema sintesi, dopo una quarantina d’anni di vicissitudini, nel 2020 in tutto il Mediterraneo si contavano 1.087 aree marine protette su una superficie complessiva di 209.303 km², pari all’8,33% dell’intera estensione di questo mare (dal 2020 a oggi la situazione è rimasta praticamente immutata).
A prima vista sembrerebbe una condizione particolarmente virtuosa. Purtroppo però la realtà non è soddisfacente come potrebbe apparire, perché solo il 18% delle aree protette mediterranee ha un piano di gestione: se si va a vedere quante aree marine protette sono dotate di gestione reale – cioè, quante non sono “parchi sulla carta” – l’8,33% crolla a un mero 2,48%. Se poi vogliamo considerare la porzione di Mediterraneo realmente protetta, quella dove non è consentito esercitare alcuna forma di prelievo di pesca, il valore scende al risibile 0,03%, il che è come dire praticamente niente.
L’esempio di Samadai è un caso particolare, ma dimostra che un’azione di tutela portata avanti con determinazione fino in fondo alla fine porta soltanto vantaggi. La decisione di istituire aree marine protette nel Mediterraneo negli anni ’80 richiese altrettanta determinazione e coraggio, ma incontrò una formidabile opposizione dal settore della pesca, e in misura minore da quello del turismo.
Quarant’anni dopo, malgrado le condizioni sociali, economiche e anche culturali nel tessuto Mediterraneo siano enormemente cambiate, e malgrado oggi sia chiaro che le aree marine protette possono avere effetti positivi anche sotto il profilo economico locale, le conseguenze di questa opposizione alla tutela degli spazi marini sono ancora ben visibili.
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