L’abbigliamento sportivo femminile sta cambiando
Ai Mondiali di calcio ci sono meno pantaloncini bianchi e in altri sport sono comparse alternative al bikini o alle gonne, per ragioni diverse
Ai Mondiali di calcio femminili di quest’anno si sono visti molti meno pantaloncini bianchi di quattro anni fa. Nelle divise di squadre come il Canada, la Francia, l’Inghilterra, la Nigeria e la Nuova Zelanda sono stati sostituiti per la prima volta con capi di colori più scuri. Non è successo per caso e non è una novità che riguarda solo il calcio: a inizio luglio a Wimbledon per la prima volta era stato concesso alle tenniste di indossare biancheria intima non bianca, superando le rigidissime regole storiche del torneo.
Eliminare i pantaloni bianchi dall’abbigliamento sportivo femminile permette di attenuare almeno in parte un’ansia molto diffusa tra le atlete: quella derivata dal fatto che durante partite o gare possano vedersi macchie di sangue mestruale. Questa preoccupazione, così come quelle di sentirsi scomode o eccessivamente scoperte, ha un impatto sui risultati sportivi ma è stata a lungo trascurata dai regolamenti delle federazioni e da chi si occupa di disegnare le divise per diverse ragioni. Negli ultimi anni si è diffusa una maggiore consapevolezza rispetto alle norme che hanno regolato a lungo l’abbigliamento femminile nello sport, con nuove proteste, richieste e concessioni.
Quest’anno per la prima volta il campionato europeo di hockey su prato che si svolgerà nella seconda metà di agosto permetterà alle atlete di scegliere se giocare con i pantaloncini o la gonna-pantalone, oltre alla gonna tradizionale. Anche nell’atletica negli ultimi anni si sono cominciati a vedere più pantaloncini e leggings lunghi in sostituzione alle più tradizionali mutande. Si tratta di novità che fino a pochi anni fa erano considerate inammissibili.
Nel 2021 le giocatrici della squadra di pallamano da spiaggia (beach handball) della Norvegia erano state multate dalla commissione disciplinare della Federazione europea di pallamano (EHF) perché durante una partita dei campionati europei avevano indossato dei pantaloncini al posto della mutanda da bikini, cioè l’uniforme prevista dal regolamento. Lo avevano fatto proprio per protesta contro le regole sull’abbigliamento dello sport, che imponevano alle atlete divise aderenti e succinte, e agli atleti pantaloni comodi e una canottiera che copre tutto il busto. Sempre in quell’anno, la Nazionale tedesca di ginnastica artistica aveva partecipato alle Olimpiadi con body “interi”, cioè che coprivano le gambe come quelli maschili, e la saltatrice con l’asta Holly Bradshaw aveva gareggiato con una tutina anziché con la divisa in due pezzi.
La giornalista di moda Vanessa Friedman ha spiegato sul New York Times che storicamente l’abbigliamento sportivo femminile si è sviluppato in due modi molto diversi: in sport come il basket e il calcio ha imitato l’abbigliamento maschile, mentre in altri sport è stato disegnato apposta per distinguersi ed essere esplicitamente femminile come nel caso delle gonne nel tennis o i bikini nella corsa, nel beach handball o nel beach volley. In entrambi i casi, scrive Friedman, «erano essenzialmente fatti su misura per gli uomini: letteralmente, nel senso che o non si adattavano correttamente ai corpi femminili (come le canottiere da basket così ampie da far vedere il reggiseno, ndr), o erano pensati per compiacere lo sguardo maschile».
Questo secondo approccio all’abbigliamento sportivo femminile ha due ragioni storiche: la prima è che quando furono introdotte le competizioni femminili di alcuni sport che a lungo erano stati solo maschili, caratterizzare le atlete con un abbigliamento smaccatamente femminile era un modo per placare le critiche degli scettici. La seconda è che sempre in quegli anni era un modo per far guardare le competizioni femminili anche agli spettatori, in prevalenza maschi, che le ritenevano di più basso livello rispetto a quelle maschili.
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