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  • Domenica 6 agosto 2023

Breve storia dei Mondiali di calcio femminili

Dalla prima edizione giocata in Cina nel 1991, passando al successo delle edizioni americane e arrivando fino alle recenti discussioni sui diritti tv

La Norvegia campione del mondo nel 1995 (Getty Images)
La Norvegia campione del mondo nel 1995 (Getty Images)
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La prima edizione ufficiale dei Mondiali di calcio femminili è ritenuta quella organizzata nel 1991 in Cina. Tre anni prima, sempre in Cina, si era disputato un torneo non ufficiale che fu una sorta di prototipo della manifestazione che oggi è arrivata alla nona edizione. Per timore di un fiasco, la FIFA non considerò quel torneo l’equivalente femminile della Coppa del Mondo, e pur curandone l’organizzazione lo chiamò in un altro modo: International Women’s Football Tournament.

Lo giocarono dodici nazionali invitate e la finale tutta scandinava tra Norvegia e Svezia fu vinta dalla Norvegia. L’evento ebbe successo e convinse la FIFA a confermarlo con cadenza quadriennale a partire dal 1991, ma non abbastanza da chiamarlo definitivamente “Coppa del Mondo” e renderlo quindi l’equivalente femminile del torneo maschile organizzato fin dal 1930.

Il nome ufficiale del primo Mondiale femminile fu “Campionato mondiale FIFA di calcio femminile per la M&M’s Cup”. Parteciparono dodici squadre, compresa l’Italia, che negli anni precedenti aveva peraltro ospitato alcuni dei primi tornei internazionali femminili, compreso il “Mundialito” del 1985 in cui gli Stati Uniti disputarono la loro prima partita ufficiale. Le partite del Mondiale in Cina erano di ottanta minuti, dieci in meno dei tradizionali novanta, e il torneo venne vinto dagli Stati Uniti, che da quella vittoria uscirono dall’anonimato traendone enormi benefici, tanto da diventare non solo la nazionale di calcio più seguita e remunerativa nel loro paese, ma la più forte al mondo nei decenni successivi.

Gli Stati Uniti con la Coppa del Mondo femminile del 1999 (Harry How/Getty Images)

La vittoria degli Stati Uniti nel 1991 servì anche a tracciare una strada per gli altri movimenti, in special modo quelli dei grandi paesi. All’epoca infatti le nazionali più forti erano quelle scandinave, le quali beneficiavano in particolar modo del loro sistema socioeconomico avanzato e paritario che si rifletteva sulla pratica sportiva femminile. Negli Stati Uniti e in altri grandi paesi, invece, il calcio e in generale gli sport femminili di squadra erano ancora dei movimenti poco sviluppati.

Il Mondiale vinto in Cina dagli Stati Uniti servì a migliorare la struttura organizzativa del calcio e le condizioni delle atlete, che iniziarono a ricevere i primi veri compensi e a ottenere i primi contratti di sponsorizzazione con aziende private. Le calciatrici statunitensi presero inoltre l’abitudine di unirsi per cercare di migliorare le loro condizioni, anche con scioperi e boicottaggi (questo su consiglio iniziale della tennista Billie Jean King, che lo aveva fatto a sua volta nel tennis). Le statunitensi hanno conservato nel tempo questo modo di agire e continuano ancora a impegnarsi per garantirsi tutele e sostegno adeguati alla crescita del movimento.

Nell’edizione del 1995 ospitata dalla Svezia, la Norvegia si prese la rivincita. Dopo aver eliminato gli Stati Uniti in semifinale, vinse la Coppa del Mondo battendo in finale la Germania, altro paese che in quegli anni fece dei grandi passi avanti nello sport femminile.

Il primo vero momento importante per i Mondiali dopo il 1991 fu l’edizione organizzata negli Stati Uniti nel 1999, la prima in un grande paese occidentale. Quei Mondiali iniziarono al Giants Stadium, nel New Jersey, dove oltre 78mila persone assistettero alla partita inaugurale tra Stati Uniti e Danimarca. Gli altri incontri si giocarono nei più grandi stadi del paese e non attirarono mai meno di 16mila spettatori. La finale al Rose Bowl di Pasadena tra Stati Uniti e Cina divenne l’evento più seguito nella storia del calcio femminile con 90.185 spettatori presenti.

L’apertura dei Mondiali del 1999 al Giants Stadium (Jamie Squire/Getty Images)

In quella finale, oltre alla vittoria che fece definitivamente tracimare l’interesse verso il calcio femminile negli Stati Uniti, un episodio in particolare fu estremamente significativo. La partita si decise infatti ai calci di rigore, l’ultimo dei quali fu realizzato da Brandi Chastain. Fra l’esultanza di uno stadio intero riempito da oltre 90mila tifosi, Chastain si tolse la maglietta e si inginocchiò urlando davanti alla porta in reggiseno e pantaloncini.

Nei giorni seguenti stampa e televisioni giudicarono la sua esultanza inappropriata, ma era la stessa identica esultanza diffusa tra gli uomini, solo che in questo caso c’era un reggiseno di mezzo, e fin lì non era mai successo. Chastain comunque divenne atleta ambasciatrice di Nike, dato che il reggiseno che indossava era un prototipo sportivo sviluppato proprio dall’azienda di Portland, ora leader nel settore e all’avanguardia nella moda sportiva femminile.

Il successo di quella manifestazione fu talmente evidente che gli Stati Uniti ottennero anche l’organizzazione dell’edizione successiva. Fu vinta dalla Germania, che anche grazie a quel risultato ottenne l’organizzazione del torneo nel 2011, l’ultima edizione giocata da sedici squadre e vinta contro ogni pronostico dal Giappone (proprio nell’anno del terremoto che causò un maremoto e il disastro della centrale nucleare di Fukushima).

Nel 2015 in Canada si passò a 24 squadre e fu un torneo che ottenne grandi risultati, ma sollevò anche le prime questioni nell’era moderna della manifestazione. Vennero venduti oltre 1 milione e 300mila biglietti, cosa che stabilì il record storico per il torneo, ma ci furono anche molte discussioni sul fatto che tutti i campi avevano un manto in erba sintetica, cosa che sarebbe stata ritenuta inaccettabile per un Mondiale maschile, nonché più rischiosa per l’integrità fisica delle calciatrici.

Il prato sintetico di Winnipeg ai Mondiali del 2015 (Getty Images)

La penultima edizione in Francia è stata quella che ha segnato la crescita globale della manifestazione. I dati del pubblico furono eccezionali: secondo fonti ufficiali 1,12 miliardi di spettatori in tutto il mondo seguirono il torneo nelle varie forme di fruizione a disposizione, con un aumento del 30 per cento circa rispetto all’edizione precedente. La finale tra Stati Uniti e Olanda fu seguita complessivamente da 82,18 milioni di persone e fra le partite più viste del torneo rientrò anche Italia-Brasile della fase a gironi: fu vista complessivamente da 42,33 milioni di spettatori (più di 7 milioni dei quali in Italia).

Quei risultati sono stati alla base della decisione della FIFA di separare la vendita dei diritti di trasmissione dei Mondiali femminili da quelli maschili, fin lì venduti come un unico pacchetto. Questa strategia ha provocato però alcune difficolta nella vendita, soprattutto nei grandi paesi europei in cui le richieste iniziali della FIFA erano state giudicate troppo alte dalle emittenti. Nel complesso, si stima che l’edizione in corso in Australia e Nuova Zelanda, la prima giocata da 32 partecipanti, abbia generato circa 300 milioni di dollari dai diritti tv, circa un decimo rispetto a quelli degli ultimi Mondiali maschili.

La vendita dei biglietti per le partite, invece, è andata molto meglio. Alla vigilia dell’inizio del torneo erano già stati acquistati quasi 1,4 milioni di biglietti: complice il maggior numero di partecipanti e quindi di partite (64 in tutto), il record di vendite stabilito nell’edizione ospitata dal Canada otto anni fa è stato battuto già prima dell’inizio del torneo. Nelle prime dodici partite c’è stata inoltre una presenza media di 30.326 spettatori, quasi 10mila in più dei 21.756 registrati in Francia nel 2019. La vendita complessiva dei biglietti ha poi superato il milione e mezzo e altri record verranno stabiliti con ogni probabilità da qui alla finale di Sydney del 20 agosto.

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