Le indagini sull’esplosione al porto di Beirut, tre anni dopo
Non sono ancora stati individuati i responsabili dell'evento che provocò la morte di 218 persone e la distruzione di parte della città
Sono passati tre anni da quando il 4 agosto 2020 una delle più grandi esplosioni non-nucleari mai avvenute sulla Terra devastò il porto e parte della città libanese di Beirut, causando 218 morti, oltre 7.000 feriti, 300mila sfollati e circa 3 miliardi di danni. L’esplosione avvenne per la presenza in un deposito del porto di quasi tremila tonnellate di nitrato di ammonio, arrivate a Beirut nel 2013 a bordo di una nave mercantile di proprietà russa. Le autorità locali e alcuni esponenti del governo libanese di primo livello erano a conoscenza da anni della presenza nel porto dell’enorme quantità di materiale esplosivo, ma nessuna azione era stata intrapresa per smaltirlo.
Ad oggi per quell’evento tragico non è stato individuato alcun responsabile e nessuno è stato chiamato a rispondere di negligenza. In questi tre anni le indagini e i diversi giudici che si sono occupati delle inchieste sono stati ostacolati, rallentati e definitivamente fermati da interventi sempre più pressanti della politica e di altri giudici.
In Libano è in corso da decenni una crisi politica che di fatto paralizza ogni iniziativa o tentativo di riforma nel paese: in parte la responsabilità è attribuita da esperti e analisti all’inadeguatezza della classe politica, spesso corrotta e impreparata; in parte dipende però dal peculiare sistema di governo libanese, basato su una divisione settaria e religiosa in cui cariche politiche, aree di interesse e settori dell’amministrazione sono garantiti a esponenti di determinate confessioni religiose. Il potere di fatto è esercitato dai leader delle diverse comunità, ciascuno concentrato a difendere i propri interessi. Queste divisioni hanno in un certo modo influenzato anche le indagini sull’esplosione, contribuendo al loro fallimento.
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Il nitrato di ammonio rimasto per sette anni nel porto di Beirut proveniva da una nave russa partita dalla Georgia e diretta in Mozambico. Secondo quanto dichiarato dai documenti ufficiali, il carico era stato ordinato dalla banca nazionale locale per conto della Fábrica de Explosivos Moçambique, che si occupa di esplosivi industriali per miniere ed edilizia, un ambito in cui il composto è largamente usato. Per motivi mai totalmente chiariti la nave non arrivò mai in Mozambico, si fermò a Beirut e dopo qualche tempo il nitrato fu trasferito in un deposito nel porto, l’hangar 12, vicino ad enormi silos di grano. In almeno dieci occasioni le autorità doganali, militari e di sicurezza libanesi, nonché la magistratura, avvertirono il governo della pericolosità dell’esplosivo, senza che venisse intrapresa alcuna azione.
Il 4 agosto 2020 nel deposito si sviluppò un incendio che dopo mezz’ora, alle 18:08 ora locale, provocò l’esplosione: lasciò un cratere di 43 metri di profondità, distrusse oltre 7.000 case e l’onda d’urto colpì gran parte della città. La detonazione sprigionò un’energia equivalente a un terremoto di magnitudo 3.3 e fu sentita fino a Cipro.
L’esplosione arrivò in un momento già molto complesso per il Libano, che era alle prese come il resto del mondo con il contenimento del coronavirus, ma che stava attraversando anche una crisi economica di enormi dimensioni, descritta dalla Banca Mondiale come una delle più gravi al mondo in epoca moderna.
Nell’estate del 2019 la valuta libanese aveva perso l’80 per cento del suo valore e la sua economia, descritta come un enorme schema Ponzi, era collassata. Prima le banche avevano iniziato a chiudere, poi era stato vietato ai correntisti di ritirare il denaro dai conti. Nel giro di pochi mesi quasi tutti i risparmi dei libanesi erano spariti. Alla crisi economica erano seguite grandi proteste, ma nessun cambio radicale nella classe dirigente o nelle politiche economiche del paese.
La stessa immobilità e impunità ha riguardato i responsabili degli errori e delle negligenze che portarono all’esplosione al porto.
Inizialmente le indagini furono affidate a Fadi Sawan, un giudice poco conosciuto che in passato era stato a capo del tribunale militare. Sawan incriminò il primo ministro Hassan Diab e tre ex ministri – Ali Hassan Khalil, ex ministro delle Finanze, e Ghazi Zaiter e Youssef Fenianos, entrambi ex ministri dei Lavori pubblici – con l’accusa di negligenza: un processo non fu però mai istituito e i quattro riuscirono anche a non farsi mai interrogare appellandosi all’immunità parlamentare. Dopo alcuni mesi il giudice Sawan fu rimosso: la Corte di Cassazione decise che non poteva condurre l’indagine in maniera oggettiva poiché residente in un appartamento danneggiato dall’esplosione.
Il sostituto di Sawan, il 49enne Tarek Bitar, si dimostrò però altrettanto risoluto: seguì la strada tracciata dal predecessore, scontrandosi con le stesse resistenze.
Diversi esponenti politici intrapresero 25 diverse azioni legali per chiedere la rimozione di Bitar dal ruolo, causando ripetute sospensioni delle indagini, di fatto bloccate. A gennaio Bitar ha ripreso l’inchiesta dopo 13 mesi, inserendo anche il procuratore generale Ghassan Oueidat fra gli indagati per omicidio, incendio doloso e altri reati. Oueidat in risposta lo ha denunciato per “insubordinazione e tentativo di usurpare il potere”, ordinando il rilascio di tutti gli imputati del caso soggetti a detenzione preventiva.
I familiari delle persone morte nell’esplosione e le associazioni non governative locali e internazionali da oltre due anni richiedono la costituzione di una commissione d’inchiesta internazionale e indipendente. In occasione del terzo anniversario la richiesta è stata ribadita con una lettera al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite.