La brutalità del gruppo Wagner
È uno degli aspetti più peculiari del modo di combattere dei mercenari russi, che non è mai cambiato nel tempo: l'ha raccontato nel dettaglio un articolo del New Yorker
Nel corso di questo anno e mezzo di guerra in Ucraina il gruppo di mercenari russi Wagner si è progressivamente rafforzato ed è passato dall’essere un’organizzazione mercenaria piuttosto piccola al diventare un’influente e temibile forza combattente composta da decine di migliaia di persone. Il percorso di affermazione del gruppo è culminato con l’incredibile rivolta dello scorso 24 giugno, in cui al termine di settimane di tensioni tra il leader del gruppo Yevgeny Prigozhin e il ministero della Difesa russo, membri del gruppo Wagner sono partiti dal sud della Russia diretti verso Mosca, la capitale. La marcia si è interrotta e la rivolta si è fermata, ma è stata comunque la più grande sfida interna al potere di Vladimir Putin in Russia da molti anni.
Sulla rivolta del gruppo Wagner e su come il gruppo sia arrivato a poter organizzare un’azione di questa portata è stato scritto e detto molto. Sono anni che il gruppo lavora per aumentare la propria influenza sia dentro che fuori dalla Russia, con mezzi militari, politici ed economici. Ma c’è un aspetto che molti analisti considerano una costante della sua storia, oltre che la ragione per cui nel tempo Wagner è diventato così temibile: la spregiudicatezza e la brutalità con cui combatte, dimostrate in anni di attività in diversi contesti di guerra, e rese possibili anche dal margine di autonomia di cui gode il gruppo, essendo una compagnia privata e non un esercito regolare.
Le tecniche di combattimento del gruppo comprendono azioni diventate note coi nomi in russo di myasnoi shturm, «tempesta di carne», e obnuleniye, «azzeramento»: cioè perdere decine di uomini alla volta e continuare a combattere sui loro cadaveri ammassati per giorni, o uccidere in modo sommario chi si ritira dai combattimenti. Un comandante ucraino ha definito queste tecniche una «totale svalutazione della vita» in un articolo di Joshua Yaffa pubblicato sul New Yorker, uno dei più approfonditi finora sull’argomento.
Il gruppo Wagner ha iniziato la propria attività nel 2014, l’anno in cui la Russia invase e annetté la penisola di Crimea e in cui iniziarono i conflitti nel Donbass, la regione orientale dell’Ucraina in cui si trovano le repubbliche autoproclamate di Donetsk e Luhansk.
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All’inizio Wagner era composto da un piccolo gruppo di mercenari, principalmente ex soldati d’élite dell’esercito russo, mentre oggi si stima che siano decine di migliaia. Nel tempo i mercenari sono stati impiegati in Siria, al fianco delle forze del presidente siriano Bashar al Assad, e in vari paesi dell’Africa, come Mali, Repubblica Centroafricana e Sudan. In tutti questi casi il gruppo Wagner ha favorito gli interessi della Russia, oltre ad arricchirsi e rafforzarsi in modo autonomo senza necessariamente seguire pratiche e modi di operare tipici di un esercito regolare. Questo margine di autonomia si è concretizzato fin da subito in livelli estremi di brutalità e violenza.
Uccidere le persone a martellate è stata una delle prime azioni che hanno reso noto il gruppo Wagner.
Nel 2017, durante la guerra in Siria, fu diffuso online un video che ritraeva diversi uomini che parlavano russo, vestiti in abiti militari e col volto coperto, che prendevano a martellate in testa fino a ucciderlo un uomo poi identificato come Hamadi Bouta, accusato dall’esercito siriano di essere un disertore. Dopo averlo ucciso, il gruppo decapitò il cadavere, lo mutilò con un coltello e lo bruciò. A identificare i responsabili come membri del gruppo Wagner fu il quotidiano indipendente russo Novaya Gazeta.
Lo scorso novembre, in un altro omicidio molto raccontato, fu ucciso a martellate Yevgeny Nuzhin, un ex detenuto reclutato nel gruppo e poi fatto prigioniero dagli ucraini. Da prigioniero Nuzhin fu costretto a pronunciare davanti a una telecamera la frase «non è l’Ucraina che ha attaccato la Russia. È Putin che ha attaccato l’Ucraina». Due mesi dopo, verosimilmente a seguito di uno scambio di prigionieri, Nuzhin riapparve in un altro video intitolato “Il martello della vendetta”, diffuso su un canale Telegram associato al gruppo Wagner. Il video ritraeva Nuzhin in una cantina buia, con la testa incollata a un mattone con un grosso nastro di scotch. Poi si vedeva un uomo in abiti militari che gli spaccava la testa a martellate. Prigozhin ha sempre negato che Wagner fosse responsabile dell’uccisione di Nuzhin, ma ha commentato il video con la frase: «Un cane riceve la morte di un cane».
Nel tempo il martello è diventato un simbolo del gruppo, che oggi viene stampato su magliette e altri oggetti dai sostenitori di Wagner. Lo scorso novembre Prigozhin aveva diffuso un video in cui ne “regalava” uno al Parlamento Europeo, coperto di sangue finto e chiuso nella custodia di un violino, in risposta alla richiesta di alcuni deputati di classificare Wagner come organizzazione terroristica.
Sul campo, soprattutto nelle battaglie più sanguinose ed estenuanti della guerra in Ucraina, i combattimenti contro Wagner sono stati descritti come delle «scene da film zombie». Testimoni hanno raccontato che in alcune di queste battaglie la tattica usata dai comandanti è stata la cosiddetta «tempesta di carne», che consiste nell’attaccare le linee di difesa nemiche con ondate di uomini successive e senza contemplare mai alcuna ritirata. Il risultato è stato che spesso i mercenari di Wagner si sono trovati a combattere sopra i cadaveri dei propri compagni appartenenti all’ondata precedente, che erano stati mandati col solo scopo di sfiancare le difese nemiche nonostante le possibilità quasi nulle di sopravvivere.
Viktor Trehubov, capitano dell’esercito ucraino, ha parlato di come i russi abbiano usato questa tecnica soprattutto a Mariupol, la città nel sud est dell’Ucraina rimasta sotto assedio per mesi e in cui hanno avuto luogo alcuni dei massacri più atroci della guerra.
Wagner ha usato la “tempesta di carne” anche a Bakhmut, la piccola cittadina ucraina del Donbass che russi e ucraini si sono contesi per molto tempo, con una battaglia lunga ed estenuante combattuta nonostante lo scarso valore strategico del luogo. Anton Lavryniuk, comandante ucraino, ha descritto al New Yorker quei combattimenti così: «Immaginate di aver ucciso oggi venti persone. Ieri erano venti. Il giorno prima erano trenta. Ogni giorno arrivano e vengono falciati in file intere». Lavryniuk ha detto che i cadaveri non venivano rimossi dal campo, e che ogni giorno i combattenti di Wagner marciavano e combattevano su «file di cadaveri» che nessuno portava via. Man mano che la battaglia procedeva i mercenari del gruppo Wagner diminuivano, ma le “tempeste di carne” continuavano, con numeri via via più ridotti.
Alla base di questo modo di combattere c’è un’altra caratteristica molto importante che ha definito nel tempo i membri di Wagner: cioè il fatto che ritirarsi o smettere di combattere non è una possibilità, perché altrimenti si subisce l’«azzeramento», l’esecuzione sul posto.
Alexei, un ex detenuto reclutato da Wagner mentre si trovava in carcere, ha raccontato la storia di un suo ex compagno di prigione, reclutato anche lui nel gruppo, che a un certo punto tentò di fuggire. Dopo essere stato arrestato dalla polizia, fu riconsegnato a Wagner. Fu legato a un palo di legno e fu ucciso con un colpo alla testa. Lavryniuk ha parlato delle molte volte in cui nelle frequenze radio intercettate sul campo di battaglia a Bakhmut sentì pronunciare a membri del gruppo Wagner la frase: «Chiunque faccia un passo indietro, azzeratelo».
La crescita numerica di Wagner nel tempo è stata dovuta per lo più ai reclutamenti massicci fatti nelle prigioni (si parla di circa 50mila detenuti). Anche questo è un punto importante, perché ha determinato il modo in cui poi il gruppo ha combattuto in Ucraina. Ai detenuti veniva infatti promessa la libertà in cambio dell’arruolamento: a volte si diceva loro che sarebbero stati liberi alla fine dei combattimenti, altre volte si parlava di un tempo minimo di appartenenza al gruppo prima di poter tornare a fare una vita da “civili”, mentre in altre situazioni semplicemente si forzavano i detenuti ad accettare, senza promettere quasi niente in cambio. Ad ogni modo per tutte queste persone l’alternativa alla prigione era solo combattere per Wagner.
Bogdan, nome di fantasia usato dal New Yorker per uno dei detenuti, ha raccontato di essere stato reclutato dalla prigione in cui era finito per spaccio di droga. Da giovane aveva combattuto in Cecenia, poi aveva perso la moglie quando aveva venticinque anni ed era rimasto solo con due figlie. Era diventato dipendente dall’eroina, aveva contratto l’HIV e nel 2021 era stato arrestato e rinchiuso in una prigione sui monti Urali. Ha raccontato che quando il gruppo Wagner si presentò nel suo carcere per reclutarlo gli restavano ancora nove anni di carcere: date le sue condizioni di salute probabilmente sarebbe morto prima. Ha detto di aver accettato di combattere sperando di poter uscire e rivedere le sue figlie, nel caso in cui la guerra in Ucraina si fosse conclusa in pochi mesi e lui fosse stato ancora vivo.
Olga Romanova, che dirige l’organizzazione non governativa Russia Behind Bars e che si occupa di diritti dei detenuti, ha parlato anche di un altro aspetto del reclutamento di Wagner nelle carceri, cioè il fare leva sulla necessità di molti detenuti di ridare un senso alla propria vita, per così dire. Ha detto: «Ho sentito la stessa frase pronunciata più volte: “Non c’è nessuno ad aspettarmi fuori, non ho una casa, non ho una famiglia, almeno qui [in Wagner] c’è bisogno di me”. Si può dire che Wagner abbia ottenuto una cosa che non c’era mai stata in Russia: la riabilitazione post-penitenziaria. Solo che l’ha fatto nel modo più terribile e raccapricciante possibile».