Il piano di Trump per ribaltare le elezioni
È emerso dall'indagine che ha portato all'incriminazione dell'ex presidente: si basava sulla creazione di liste di “falsi grandi elettori” per sette stati contesi
L’indagine che martedì ha portato all’incriminazione di Donald Trump per il suo tentativo di ribaltare l’esito delle elezioni presidenziali statunitensi del 2020, vinte da Joe Biden, non si è limitata all’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021; ha anche chiarito quale fosse il piano dell’ex presidente per rimanere al potere nonostante la sconfitta. I nuovi dettagli emersi negli ultimi giorni sembrano confermare le cose dette dal procuratore speciale Jack Smith, che ha definito l’assalto al Congresso «un attacco senza precedenti alla democrazia americana alimentato dalle bugie». Secondo l’accusa, l’attacco era stato infatti individuato da Trump e dai suoi collaboratori come un momento centrale nel bloccare la ratifica della vittoria elettorale di Joe Biden e interrompere il passaggio democratico dei poteri presidenziali.
Il piano era stato definito «illegale» e «spericolato» in alcune mail private scambiate dagli stessi protagonisti della vicenda. Era basato sullo “schema dei falsi grandi elettori”, così come è stato definito nell’inchiesta. Non si è realizzato anche per l’opposizione di alcuni governatori e soprattutto per quella del vicepresidente Mike Pence, la cui collaborazione sarebbe stata necessaria per il successo dell’operazione.
Per ricostruire il piano dell’amministrazione Trump bisogna innanzitutto ripassare il funzionamento del sistema con cui gli Stati Uniti eleggono il proprio presidente.
L’elezione non avviene direttamente ma attraverso i “grandi elettori”. Gli Stati Uniti sono un paese federale, diviso in 50 stati. Alle elezioni presidenziali ogni stato esprime un numero di grandi elettori legato alla propria popolazione (più abitanti, più grandi elettori). In 48 dei 50 stati il candidato presidente vincitore del voto popolare “elegge” tutti i grandi elettori, in 2 (Maine e Nebraska) vengono divisi secondo un metodo proporzionale. I grandi elettori sono in tutto 538 e per diventare presidente bisogna ottenerne la maggioranza assoluta, quindi 270. I grandi elettori eletti in ogni stato inviano il loro voto su presidente e vicepresidente a Washington, dove il Congresso lo ratifica: nel 2021 la seduta in questione era quella del 6 gennaio, il giorno dell’assalto.
Durante e dopo le elezioni del 2020 l’allora presidente Donald Trump e molti dei suoi alleati e sostenitori fecero ripetute e costanti denunce di presunti brogli avvenuti durante il voto. Le teorie della cospirazione erano varie e si focalizzavano su presunte manomissioni delle macchine per il voto elettronico, su quote di voti mancanti o di presunti elettori inesistenti o deceduti che avrebbero favorito il candidato Democratico: nessuna di queste teorie è mai stata provata, né nell’immediato né in seguito. In quei giorni però la narrazione delle “elezioni rubate” era piuttosto diffusa negli ambienti della destra americana e portata avanti da Trump.
Fra novembre del 2020 e gennaio del 2021 avvocati sostenitori dell’allora presidente, alcuni rappresentanti Repubblicani delle istituzioni statali e uomini dello staff dello stesso Trump misero a punto il piano dei “falsi grandi elettori”, ispirandosi a una disputa elettorale del 1960.
Nello stato delle Hawaii nelle elezioni presidenziali di quell’anno fra il Democratico John Kennedy e il Repubblicano Richard Nixon il risultato rimase in bilico fino alla fine.
Nixon risultò vincitore per 100 voti, Kennedy chiese un riconteggio che si prolungò ben oltre la data in cui era previsto che venissero definiti i “grandi elettori” e che questi ultimi inviassero il loro voto. Nixon si dichiarò vincitore e il governatore delle Hawaii (Repubblicano) ratificò i grandi elettori Repubblicani. Il comitato elettorale di Kennedy, però, contando su un esito diverso del riconteggio, presentò una sua lista alternativa di grandi elettori. Il riconteggio poi diede ragione ai Democratici: Kennedy presentò quindi una nuova lista di grandi elettori “certificati”, che comunque alla fine non risultarono decisivi per la sua elezione.
Alcuni avvocati del team legale di Donald Trump, fra cui principalmente Kenneth Chesebro (considerato il principale responsabile del piano), ritennero che quel precedente fosse sufficiente per poter mettere in discussione il risultato delle elezioni fino al momento della ratifica dell’esito del voto al Congresso. E soprattutto che quel precedente rendesse lecito presentare liste alternative di grandi elettori che votassero per Donald Trump.
Così lo staff di Trump, guidato in questa parte del piano da Rudolph Giuliani, cominciò un’opera di influenza e persuasione su rappresentanti delle istituzioni di sette stati in cui il margine della vittoria di Biden era stato meno netto. Si chiese a rappresentanti di Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, New Mexico, Pennsylvania e Wisconsin di firmare documenti in cui si dichiarava Trump vincitore. A quel punto si organizzarono liste “alternative” di grandi elettori che, seppur non certificate, sarebbero state spedite al Congresso. Quei voti, se considerati, avrebbero ribaltato l’esito complessivo delle elezioni a favore di Trump.
La giustificazione ufficiale con cui si tentava di convincere i funzionari statali indecisi era che questa operazione fosse una necessaria precauzione in vista di un futuro riconteggio dei voti, quando il partito Repubblicano avrebbe dimostrato l’esistenza dei brogli a favore di Biden. Uno dei punti emersi dall’inchiesta, comunque, è stato il fatto che i responsabili del piano fossero coscienti dell’illegalità dell’operazione: è stato dimostrato dall’analisi delle comunicazioni interne tra le persone coinvolte. Jack Wilenchik, avvocato filo-Trump dell’Arizona che contribuì a definire il piano, scriveva allo staff di Trump: «Noi semplicemente manderemo “falsi” voti elettorali a Pence in modo che qualcuno al Congresso possa sollevare un’obiezione e chiedere che quei “falsi” grandi elettori vengano contati». In una mail successiva aggiungeva che la definizione “grandi elettori alternativi” era preferibile a “falsi grandi elettori”, con l’emoticon di un sorriso.
Nei vari stati “contesi” alcune decine di alleati di Trump (non di alto livello, non i governatori) effettivamente firmarono liste alternative di grandi elettori, che furono inviate al Congresso, in alcuni casi anche accompagnate da falsi certificati che ne garantivano l’ufficialità.
A questo punto il piano prevedeva il coinvolgimento diretto di Mike Pence, il vicepresidente che avrebbe dovuto presiedere la seduta del Congresso in cui la conta dei grandi elettori sarebbe stata ratificata.
In una prima opzione, più radicale, Pence avrebbe dovuto semplicemente contare come buoni i grandi elettori “falsi”, invece di quelli reali, garantendo così la presidenza a Trump. Un’altra opzione era che qualcuno al Congresso sollevasse il problema dei doppi grandi elettori: a quel punto Pence avrebbe dovuto definire il processo elettorale “compromesso” e appellandosi all’Electoral Count Act del 1887 decidere che fossero i rappresentanti del Congresso a votare il presidente (la maggioranza era solidamente Repubblicana). Una terza e ultima opzione era che il vicepresidente decidesse almeno un rinvio della ratifica, concedendo più tempo a Trump e ai suoi per provare i presunti brogli.
Nessuna delle tre ipotesi si è verificata, nonostante le pressioni su Pence siano continuate fino alla vigilia della seduta del Congresso, come confermato alla commissione d’inchiesta da vari testimoni. A quel punto al tentativo di ribaltare l’esito del voto con i falsi grandi elettori descritto dalla Procura si sostituirono animati comizi e una grossa protesta il 6 gennaio 2021: poche ore dopo i sostenitori di Trump assaltarono il Congresso.
La creazione di questo schema, che nelle 45 pagine dell’incriminazione è piuttosto dettagliato con ricorso a testimonianze, email e conversazioni, è al centro delle accuse di cospirazione. E secondo quanto sostiene la stampa statunitense sarà parte dell’impianto accusatorio anche nell’inchiesta in Georgia, che riguarda le interferenze sul processo elettorale nello stato e per cui Trump potrebbe essere incriminato nelle prossime settimane. In questo caso la procuratrice distrettuale Fani Willis sembra intenzionata a incriminare anche i firmatari delle liste di falsi grandi elettori, utilizzando una legge contro le associazioni criminali.
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