Curriculum di un cieco normale
«Quando mi hanno riconsegnato ai miei stavo bene, ma il troppo ossigeno nell’incubatrice aveva bruciato le retine degli occhi. Cecità assoluta, la diagnosi dei dottori. A otto anni, a Corfù, in Grecia, mio padre insistette perché provassi lo sci nautico. Lui che non sapeva nemmeno nuotare saliva su un motoscafo di un improvvisato istruttore e gli affidava suo figlio, cieco, perché gli insegnasse a sfrecciare sull’acqua. Ancora ricordo le prime paure, il timore del rumore del motoscafo e della sua elica che per me era come uno squalo affamato pronto a mordere le mie gambe»
L’impazienza di vivere mi ha caratterizzato da ben prima che avessi qualsivoglia tipo di ricordo. È qualcosa di intrinseco a me, qualcosa che mi definisce. Parlo di impazienza di vivere perché non sono una persona impaziente in quanto tale. Fra l’altro non credo di sapere cosa sia la noia, posso passare intere giornate a leggere un libro o a fare cose da persona paziente. Però ho una certa impazienza per la vita, per le sfide, per provare cose nuove, un’impazienza mista alla curiosità del mondo potrei dire. Ma perché raccontarvi tutto questo?
Ci arrivo a breve.
A mia madre, quando dovevo nascere, era stata diagnosticata una fragilità uterina. Parliamo di quarantaquattro anni fa, le ecografie, a quel che so, ancora non esistevano o, comunque, non erano così diffuse e precise. Figuriamoci screening vari, amniocentesi, analisi morfologiche etc. E insomma a meno di sei mesi di gravidanza, mia madre fu ricoverata in ospedale per stare in assoluto riposo e in osservazione, cercando di prolungare la mia vita nella sua pancia.
Eppure, dopo una quindicina di giorni di ospedalizzazione, mentre era in camera con mia nonna, le due vedono spuntare due ditine. Allarme! Subito in sala parto! I medici a mio padre: il bambino è troppo piccolo, non sopravviverà, ci stiamo occupando della salute della madre.
E invece io, con l’impazienza di cui sopra, ho smentito quelle fosche previsioni e sono qui oggi a scriverne.
Sono venuto al mondo a sei mesi e quindici giorni. Pesavo un chilo e cinquanta grammi, con calo fisiologico sono sceso a 950 (da adulto ho recuperato alla grande!). Polmoni ancora non ben sviluppati, crisi respiratorie. Subito messo in incubatrice e trasportato dal piccolo paesino in cui sono nato, Pescina, all’ospedale dell’Aquila.
Due mesi e mezzo non facili per i miei, continui avanti e indietro, aggiornamenti dai medici, speranze e paure. Almeno così immagino io, perché poi i racconti su questo non sono molto precisi.
A un certo punto, non so esattamente che giorno fosse, mi hanno restituito alla mia famiglia. Avevo, e ho tuttora, un punto della testa in cui non mi crescono i capelli: colpa degli aghi che, nell’incubatrice, mi avevano messo per farmi delle flebo. Pas grave, neanche si vede il riportino se il barbiere fa il suo lavoro come si deve. Nel complesso, però, stavo bene.
Ma prendiamoci una piccola pausa dalla storia della mia vita: una parte delle ragioni per cui ho iniziato a raccontarvela sta in un brano del libro di Ada D’Adamo, Come d’aria, recente vincitore del Premio Strega. In una lettera che la scrittrice ha mandato a Corrado Augias e che è stata pubblicata su Repubblica, si legge: «Frequentando i reparti di neuropsichiatria infantile e i centri di riabilitazione, incontro quotidianamente decine di bambini nati prematuri. Sono per lo più ciechi o ipovedenti, come la maggior parte dei nati pre-termine. Ma quasi sempre, il deficit visivo si accompagna ad altri danni cerebrali o motori, irreversibili».
E come non rivedere qualcosa di mio in questo passo della lettera? Come poteva non risuonarmi? Quando mi hanno riconsegnato ai miei stavo bene, sì, ma il buco sulla testa dove non mi crescono tuttora i capelli non era l’unico danno. Il troppo ossigeno nell’incubatrice aveva bruciato le retine degli occhi. Cecità assoluta, la diagnosi dei dottori. Chissà che botta per i miei.
Da un lato la felicità di avere un figlio vivo, dall’altra i dubbi e l’incertezza su che tipo di vita avrei potuto vivere, da persona non vedente.
So per certo che mio padre, i primi tempi dopo la mia nascita, soffrì di attacchi di panico. Faccio fatica a immaginarlo perché, nei miei ricordi, è sempre stato una persona molto forte, molto convinta di voler assecondare – insieme a mia madre – la mia impazienza di vivere.
Avrò avuto sette o otto anni quando, una sera a casa, mi vide piangere e mi chiese perché. «Non posso giocare a calcio con i miei compagni di scuola», gli dissi. «Farai così tanti sport nella vita che non potrai portarli avanti tutti», mi rispose.
Già facevo corsi di nuoto e di ginnastica ma, a otto anni, a Corfù, in Grecia, insistette perché provassi lo sci nautico. Lui che non sapeva nemmeno nuotare saliva su un motoscafo di un improvvisato istruttore e gli affidava suo figlio, cieco, perché gli insegnasse a seguire l’onda della barca, attaccato a una corda a sfrecciare sull’acqua. Ancora ricordo le prime paure, il non riuscire ad alzarmi in piedi sugli sci, il timore del rumore del motoscafo e della sua elica che per me era come uno squalo affamato pronto a mordere le mie gambe, nonostante fosse a metri di distanza.
E dopo lo sci nautico tantissimi gli sport che i miei genitori mi hanno permesso di provare: judo e corse in tandem in primis, ma anche brevetto da sub durante una vacanza a Palinuro, con inclusa immersione per visitare il relitto di una barca, arrampicata, tennis, sci (sia discesa che fondo) e molti altri.
A scuola imparai il Braille come molti non vedenti ma, già a sei anni, avevo un computer portatile, un XT dell’Olivetti con una sintesi vocale che aveva la voce simile a quella di Terminator. Era talmente portatile che pesava dieci chili quando io ne pesavo meno di trenta. Mio padre non mi insegnò solo a usare il computer (passando per i mitici 286, 386 e 486: alla Gen X dovebbero dire qualcosa questi nomi), ma anche a programmare piccoli videogiochi in Basic per me e a trovare tutte le avventure testuali accessibili a cui io avrei potuto giocare: c’era un gioco dove, con le tue scelte, dovevi salvare un’astronave in panne, un altro in cui dovevi ritrovare l’anello di Lucrezia Borgia in un castello, un altro in cui esorcizzare l’incantesimo di un diabolico stregone… E ci giocavo insieme ai miei amici vedenti che, a loro volta, cercavano di farmi giocare con i loro Commodore 64 e Amiga 500, con i videogame sui Mondiali di calcio o i primi manageriali tipo Football Manager o videogiochi di gare di Formula 1, Olimpiadi, beach volley e biliardo.
A undici anni avevo appena finito la quinta elementare. Era l’estate delle notti magiche di Italia ’90 e i miei, dopo i Mondiali, decisero di spedirmi in Inghilterra per tre settimane a imparare l’inglese. Ero l’unico bambino in un gruppo di ragazzi e ragazze fra i 14 e i 18 anni. All’epoca non c’erano i cellulari per restare in contatto con la famiglia, al massimo le chiamate a carico del destinatario, le mitiche “collect call” che costavano un occhio della testa, da usare quindi con estrema parsimonia. Conoscevo solo una ragazza, aveva 18 anni, era la figlia della mia insegnante di sostegno. Insieme al group leader mi fece un po’ da baby sitter in quell’avventura. Ricordo ancora le prime parole che imparai in inglese nella mia host family: «Can I have some more toast please?». Ricordatevi che a quell’epoca non c’era Netflix e l’inglese non lo insegnavano alle elementari.
Molti anni dopo, la stessa impressione di completa estraneità la provai in Russia, più precisamente a Omsk, Siberia, quando per uscire dal dormitorio in cui stavo ed essere sicuro di poterci tornare dovetti imparare le mie prime parole nella lingua locale da dire ai tassisti: «Krasnagwardiskaya cetiri corpus odin». Sennò mica ci tornavo a casa!
E la mia prima esperienza in Inghilterra, seppur non facile, convinse i miei a far fare gli stessi viaggi a mia sorella Michela, qualche anno dopo. Fra parentesi, povera Michi, si è dovuta sorbire tutte le mie stramberie che poi ricadevano anche su di lei, sorella minore: io facevo pattinaggio a rotelle, lo doveva provare pure lei, se non altro per praticità legate alla logistica di mia madre che così ci accompagnava entrambi, due piccioni con una fava. Iniziavo a prendere lezioni di piano, anche lei seguiva le mie orme infruttuose: due musicisti falliti sul nascere, nonostante si riponessero su di me molte aspettative in tal senso: come non sperare in un pianista cieco in famiglia! Ma torniamo ai viaggi in Inghilterra: i genitori di alcuni miei compagni presero ispirazione e cominciarono a mandare anche i loro figli insieme a noi in quelle vacanze studio.
Quante avventure con Simone, Francesco, Matteo, Anita: entrare nei pub pur non avendo l’età legale per farlo, la famigerata “caccia all’italiano” con giovani britannici non sempre troppo amichevoli, le prime vere esperienze da cittadini europei, le conoscenze con ragazzi e ragazze provenienti da Paesi che prima erano solo punti sulle carte geografiche e che magicamente diventavano parole da imparare in lingue esotiche (per lo più parolacce), cibi mai assaggiati prima (il kebab e il peanut butter, negli anni ’90, erano perfetti sconosciuti da noi), aneddoti su usanze per noi aliene… I Mondiali del ’94 visti tutti insieme fino al rigore sbagliato da Roberto Baggio, un vetro distrutto per poter vedere Italia-Spagna in una scuola che non voleva aprirci le sue porte, gli spagnoli che in quegli anni ci ossessionavano con il coro «Indurain Indurain».
Tutto questo divagare per raccontarvi di una vita vissuta in un mondo di parenti e amici che minimizzava al massimo i problemi della mia cecità e aumentava al massimo le opportunità esperienziali. Sempre insieme a persone cosiddette “normodotate”, niente scuole speciali, l’idea che dovessi essere aperto alla vita e non rinchiuso in casa e protetto perché non vedevo.
Dalle vacanze in Inghilterra e poi in Francia, a Malta, in Irlanda, in Germania il sogno di lavorare come interprete.
E così il trasferimento a Forlì per l’università, a 19 anni, altro giro altra corsa, vita in uno studentato con altre sessanta persone, otto anni fantastici, conoscenza di altri pezzi di Italia e di mondo (quanti pugliesi!). L’università fatta così, alla cavolo, senza sapere neanche gli orari delle lezioni, avevo preferito la vita allo studio, passavo gli esami un po’ di rendita, tanto le lingue le sapevo abbastanza per cavarmela. E nel frattempo coltivavo interessi diversi da quelli curriculari: leggevo molto, facevo molte feste, viaggiavo.
E anche qui torna la famiglia incredibile che ho avuto la fortuna di avere: andavo in Chiapas, in Corea, in Palestina per progetti di cooperazione internazionale. C’erano periodi in cui per settimane non potevo chiamare a casa. Ma i miei si fidavano, non dimenticando mai il problema aggiuntivo che avevo, il fatto che fossi non vedente; si fidavano di me e del mondo che mi creavo intorno, delle persone che mi circondavano. Erano un po’ incoscienti? Forse sì. Ma hanno sempre preferito la mia libertà alla loro comfort zone. E credo di aver ripagato la loro fiducia.
Da quei tempi all’università sono passate ere geologiche, molte città, molti lavori, molte persone con cui ho condiviso pezzi di vita e tante avventure: Urbino, Bruxelles, Londra, Liverpool, Roma (ritorno alle origini) e Milano. Oggi, dopo tanto peregrinare fra occupazioni varie come l’interprete, il lavoro in uffici stampa, il giornalismo, ho una compagna, un figlio, un impiego di una certa responsabilità al Parlamento europeo e la solita, immutata, vecchia passione per il calcio e in particolare una malattia per la Juventus che mi ha portato a fare interviste varie (fra cui la prima ad Antonio Conte per la BBC) e viaggi con BlaBlaCar, con perfetti sconosciuti poi diventati amici, per una finale di Champions a Berlino.
Ma torniamo al perché sto raccontando tutto questo.
Credo i motivi siano principalmente due, non facili da spiegare.
Il primo: quando si racconta la storia di una persona che, nonostante la sua disabilità, è riuscita a fare tante cose, si tende ad avere un po’ l’effetto wow o, al contrario, se la disabilità preclude molte opportunità si tende ad avere la reazione “poverino/poverina”.
Ecco, io credo di aver vissuto e di star vivendo una vita piena, in tutti i sensi: piena di esperienze, piena di affetto e di amore, piena di persone, piena di cose di cui ringraziare tutti e tutte quelle che mi sono e mi sono stati/state intorno. Sono molto fortunato per il contesto in cui ho vissuto, per la famiglia che ho avuto e per quella che mi sono creato, per le persone che ho incontrato per strada. Ma non sono un extraterrestre né un genio: non sono una leggenda della musica come Stevie Wonder, Ray Charles o Andrea Bocelli; nonostante abbia fatto molti sport non sono un campione paralimpico; non ho fatto la stessa carriera di Gary O’Donoghue che, da non vedente, è diventato un pezzo grosso alla BBC. Sono sostanzialmente una persona nella media, a cui le opportunità sono state date: un impaziente per la vita che un po’ se le è pure cercate. Però, se non riusciamo a considerare la disabilità una cosa importante con cui una persona con disabilità deve fare i conti, ma non l’unica cosa che conta, se non la consideriamo un fattore il cui impatto va minimizzato il più possibile, limitiamo le opportunità di queste persone. E limitare le opportunità è, a mio parere, la cosa peggiore che si possa fare. Parlo solo per me, ovviamente, e la mia storia ha valenza di uno fra i milioni di esempi che si potrebbero portare a favore o contro l’importanza delle opportunità.
Per tornare alla lettera della D’Adamo ad Augias, è ovvio che se avessi avuto danni cerebrali gravi la mia vita sarebbe stata diversa. È ovvio che se la mia famiglia avesse avuto meno apertura mentale, meno possibilità economiche (che comunque all’inizio erano per noi abbastanza ridotte, essendo mia madre e mio padre figli di contadini), se fossi cresciuto in un contesto diverso (non a Roma, per esempio, ma in un piccolo paesino) forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma anche in quel caso, penso, si dovrebbe sempre tendere – da parte della famiglia, della società, della scuola, del quadro legislativo – a far raggiungere a ogni persona, con disabilità o no, il massimo del potenziale che può esprimere, non tanto in termini di successo nella vita, ma di realizzazione delle proprie aspirazioni e, alla fin fine, di ricerca della propria felicità.
Il secondo motivo mi riporta ancora una volta alla D’Adamo e alla questione dei nati prematuri, delle diagnosi precoci, delle disabilità gravi. Cito ancora dalla sua lettera: «In questi anni ho conosciuto famiglie sbriciolate, unioni distrutte, donne sprofondate nella depressione. Non tutti hanno la forza fisica, gli strumenti psicologici, i mezzi economici, la cultura che ci vuole per combattere contro la burocrazia implacabile, contro la crudeltà di certi medici e l’inciviltà imperante, la solitudine e la stanchezza e, infine, contro sé stessi e la propria inadeguatezza. È per queste persone, soprattutto, che le scrivo. (…) L’aborto è una scelta dolorosa per chi la compie, ma è una scelta e va garantita. Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta, ma se avessi potuto scegliere, quel giorno, avrei scelto l’aborto terapeutico. Ai medici che vogliono rianimare i feti anche senza il consenso delle madri, dico di uscire dai reparti di terapia intensiva, andare a vedere con i loro occhi cosa sono diventati quei bambini, a quale eterno presente hanno condannato quelle madri».
Più rileggo queste righe, più ripenso alla mia storia, a quanto l’abbia scampata bella a non avere avuto altri danni oltre alla perdita della vista, a quante lotte anche noi con la burocrazia (un esempio fra tutti: i libri scolastici in Braille che arrivavano sempre in ritardo sebbene mia madre li ordinasse con mesi di anticipo), a quante difficoltà i miei genitori, ma anche mia sorella, abbiano dovuto affrontare senza mai farmele pesare, più mi rendo conto di quanto sia impossibile giudicare le scelte di quei genitori che, a fronte di una diagnosi precoce di possibile disabilità grave, decidono di abortire. Ma mi rendo conto di un’altra cosa: di quanto sia difficile anche solo scegliere senza sapere in anticipo, guardando in una sfera di cristallo, che tipo di vita si troverà a vivere il proprio figlio o la propria figlia e, in ultima istanza, anche i suoi genitori, i suoi fratelli, le sue sorelle.
Non ci sono ricette universali, strade già tracciate o soluzioni che vadano bene per tutti, ma sono sicuro che una società che – di fronte a una persona con disabilità e alla sua famiglia – userà e penserà meno alle parole “wow” o “poverino” e giudicherà meno le scelte di chi, a fronte di troppa incertezza, non si sentirà in grado di prendersi cotanta responsabilità, sarà una società un pelino migliore, un posto in cui non solo le persone con disabilità e le proprie famiglie vivranno meglio, ma in cui vivranno un po’ meglio tutti e tutte.