La contestata “stanza per l’ascolto” per le donne che vogliono abortire a Torino
Verrà introdotta all'ospedale Sant'Anna, con una convenzione firmata con un'associazione antiabortista di ispirazione cattolica
Lunedì, all’ospedale Sant’Anna di Torino, è stata firmata una convenzione per istituire una “stanza dedicata all’accoglienza e all’ascolto” delle donne che intendono interrompere la propria gravidanza. La convenzione è stata firmata dall’Azienda Città della Salute e della Scienza di Torino, uno dei poli sanitari più grandi in Italia, e dalla federazione regionale del Movimento per la Vita, associazione anti-abortista di ispirazione cattolica: la convenzione è stata fortemente sostenuta dall’assessore regionale alle Politiche sociali Maurizio Marrone di Fratelli d’Italia, il partito di destra della presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
L’ospedale Sant’Anna di Torino è il primo in Italia per numero di parti (nel 2022 ce ne sono stati 6414) e il primo in Piemonte per numero di interruzioni volontarie di gravidanza: nel 2021 ne sono state effettuate circa 2500, il 90 per cento di quelle effettuate a Torino e il 50 per cento di quelle effettuate a livello regionale.
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Concretamente la “stanza per l’ascolto” prevede che un gruppo di volontari e volontarie del Movimento per la vita riceva su appuntamento le donne in una stanza dedicata dell’ospedale Sant’Anna: le utenti potranno essere indirizzate al servizio dal personale sanitario oppure contattare spontaneamente e direttamente i volontari.
L’introduzione della “stanza per l’ascolto” per le donne che vogliono abortire sta venendo fortemente contestata da gruppi di attiviste, esponenti politici locali e nazionali, sindacati e associazioni favorevoli alla libertà di scelta sulla salute riproduttiva, secondo cui la convenzione permetterà l’ingresso in una struttura pubblica e laica di gruppi antiabortisti di ispirazione cattolica. Chiara Appendino, deputata del Movimento 5 Stelle ed ex sindaca di Torino, ha definito l’iniziativa «un delirio oscurantista contro le donne, la loro dignità, la loro libertà, il loro diritto all’autodeterminazione».
Marrone, l’assessore di Fratelli d’Italia, ha sostenuto invece che l’iniziativa serva a porre rimedio al «preoccupante» calo delle nascite e a offrire «supporto concreto e vicinanza alle donne incinte per superare le cause che potrebbero indurre alla interruzione della gravidanza attraverso un percorso di sostegno». Secondo Marrone, la “stanza dell’ascolto” va istituita perché «ogni volta che una donna abortisce [è] perché si è sentita abbandonata di fronte alla sfida della maternità».
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L’istituzione delle “stanze per l’ascolto” si aggiunge a una serie di altre iniziative su maternità e aborto, altrettanto contestate, intraprese negli ultimi anni dalla Regione Piemonte, governata dal 2019 da Alberto Cirio, del partito di centrodestra Forza Italia.
Tra queste c’è stato il mantenimento del divieto di somministrazione anche nei consultori della RU486 (la pillola abortiva), nonostante le linee guida emanate nel 2020 dal ministero della Salute che la rendevano possibile, e l’attivazione negli ospedali di sportelli informativi sull’aborto che in molti casi sono gestiti da associazioni antiabortiste. La Regione Piemonte ha inoltre istituito nel 2022 il Fondo Vita Nascente, che finanzia con 400mila euro organizzazioni e associazioni che promuovono il «valore sociale della maternità» e la «tutela della vita nascente»: anche in questo caso si trattava in molti casi di associazioni antiabortiste di ispirazione cattolica.
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Rispondendo ad alcune critiche sull’istituzione della “stanza dell’ascolto”, il direttore sanitario dell’ospedale Sant’Anna di Torino Umberto Fiandra ha detto che l’iniziativa è resa possibile dalla legge 194, quella che in Italia regolamenta l’accesso all’aborto. Quella legge fu approvata nel 1978, grazie alle pressioni dei movimenti femministi e dopo un passaggio parlamentare durato circa due anni durante il quale molte forze politiche provarono, con più o meno forza, a opporsi alla proposta.
La legge 194 ha molti limiti: uno di questi origina dalla possibilità che ospedali, consultori e strutture socio-sanitarie si attivino non solo per garantire l’accesso all’aborto, ma anche per esaminare «possibili soluzioni» e aiutare la persona «a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza», come previsto dall’articolo 5. In molti casi questo ha permesso a gruppi antiabortisti di inserirsi facilmente all’interno degli ospedali e di opporsi ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne.
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