Sono un expat o un migrante?
«Un migrante che non ha le carte in regola è criminalizzato come “clandestino”. Ma moltissimi italiani e americani che conosco, gli “expat”, vivono da anni senza le carte in regola, pagando le tasse in patria e tornandoci per appoggiarsi al sistema sanitario. Non mi è mai capitato, né è capitato a loro, di considerarci clandestini, solo troppo pigri per fare la coda all’anagrafe degli stranieri»
Sono un cittadino italiano che vive in Germania. Agli sbarchi all’aeroporto di Berlino sono un “possessore di passaporto Schengen”. Per il fisco tedesco sono un “cittadino di altri Paesi UE”. Quando faccio un brunch troppo caro sulla sponda del canale di Neukölln vengo percepito come un “expat”. Nelle statistiche demografiche conto come “immigrato”. Negli articoli di giornale che parlano del mio segmento socioeconomico sono un “cervello in fuga”. Nelle parole del mio ex vicino di casa Sven, che possiede due cani corsi e un’auto targata 8888 ed è nazista, sono un “migrante”. Cosa sono? Non è una mera questione terminologica; o meglio, lo è, ma come molte altre questioni terminologiche (il femminile delle professioni, le tremende perifrasi usate per la gestazione per altri), è la manifestazione superficiale di una questione che nel profondo è politica.
Aborro la parola “expat”, usata principalmente da statunitensi privilegiati che si trasferiscono in Paesi meno cari per vivere nel lusso grazie al potere d’acquisto del dollaro – ma è il termine che uso più spesso per definire me stesso. Lo uso, in parte, proprio perché lo aborro: il privilegio tronfio che emana è qualcosa di cui beneficio anche io, e che mi preme riconoscere. Mi sono trasferito a Berlino nel 2009 perché all’epoca costava meno di Milano, cioè potevo viverci lavorando di meno, il che mi dava tempo per scrivere e far festa. Per molti anni è esattamente ciò che ho fatto. Quando mi mancavano i miei, o quando l’inverno era troppo rigido, prendevo un volo low-cost e tornavo in Italia per un po’, come facevo anche per lavoro, visto che i miei editori principali e i clienti per cui traduco e le scuole in cui insegno sono tuttora lì.
Queste non sono le prime caratteristiche che assoceremmo alla parola “migrante” – ritenuta un’alternativa meno offensiva di “immigrato”, visto che denota lo status della persona e non il suo rapporto al Paese del parlante. La maggior parte di quelli che chiamiamo migranti (non tutti!) affronta sacrifici immensi, e spesso rischi personali significativi, per vivere in un Paese che possa offrire un’esistenza migliore; convivono quotidianamente con la discriminazione e il razzismo degli altri abitanti (per Sven, appunto, “migrante” è un insulto) e spesso anche delle istituzioni; è costretta ad accettare le ordalie di una burocrazia sprezzante dai cui capricci inappellabili dipende la sussistenza della propria famiglia. Nulla di tutto ciò descrive accuratamente la mia vita. Sì, l’esistenza che conduco in Germania mi pare migliore di quella che avrei in Italia (a volte; a volte no, e mi struggo nel dubbio se tornare); certo, ogni tanto medici o burocrati sbuffano stizziti ai miei inciampi col tedesco, e una volta non mi hanno affittato una casa perché non volevano italiani; vero, non posso votare alle elezioni politiche; ma nel complesso c’è una voragine di privilegio che separa la mia esperienza da quella di un lavoratore non specializzato che arriva qui dal Pakistan, dal Perù, dalla Thailandia. Definirmi, aborrendolo, “expat” era un modo per me di rendere questo privilegio evidente. Mi sarebbe parso sfacciato, appropriativo, associare il mio capriccio piccoloborghese di vivere a Berlino a quelle difficoltà.
Eppure, eppure: una recente discussione su Twitter, nata da un ottimo thread di una traduttrice di nome @Adrianaaaaaaaa, mi ha fatto vedere le cose da un punto di vista diverso. Adriana sostiene, ragionevolmente, che la differenza cruciale fra la mia situazione e quella che associamo alla parola “migrante” sia di natura istituzionale. Io posso fare cose (trasferirmi e lavorare senza visto, accedere alla sanità) che ad altri sono rese complicatissime. Queste cose, fa notare giustamente Adriana, non sono privilegi, ma diritti: che a me sono concessi per legge di sangue e ad altri e altre no. Lei fa notare che la scissione di una categoria sotto due etichette diverse – una delle quali è codificata in modo peggiorativo o tutt’al più compassionevole – è un modo di essenzializzare una differenza che è invece contingente, frutto di una scelta politica chiara: negare diritti a certe persone. Questo ha ricadute politiche, perché ostacola la proiezione e l’empatia, e quindi impedisce la solidarietà. Gli “expat”, sostiene Adriana, usano quel termine per cristallizzare una propria supposta superiorità e non vedersi come “migranti”, perché questo li costringerebbe a riconoscere l’ingiustizia per cui alcuni migranti hanno diritti e altri no. Una riflessione simile è stata fatta da Flavio Parisi, peraltro collaboratore di Storie/Idee del Post, riguardo alla sua esperienza in Giappone: anche lui, come Adriana, percepisce nel termine expat «lo sforzo di distinguersi dalla massa di bisognosi, poveracci, non bianchi».
(Questa prospettiva ha ricadute interessanti. Un migrante che non ha le carte in regola è criminalizzato come “clandestino”. Ma moltissimi italiani e americani che conosco, appunto gli “expat”, vivono da anni senza le carte in regola, pagando le tasse in patria e tornandoci per appoggiarsi al sistema sanitario. Non mi è mai capitato, né è capitato a loro, di considerarci clandestini, solo troppo pigri per fare la coda all’anagrafe degli stranieri.)
Sulle prime le posizioni di Adriana e Flavio mi hanno molto convinto. Ragionandoci meglio, però, mi sono venuti dei dubbi. Estendendo il ragionamento dovremmo considerare migranti anche i miliardari che si trasferiscono in Svizzera o nel Principato di Monaco per eludere le tasse in patria; gli industriali che approfittano dei programmi di Golden Visa che permettono un accesso agevolato ai visti in certi paesi europei per chi investe una certa cifra nell’economia nazionale. Se sono un migrante io, e lo è il mio dentista siriano, e lo è la panettiera montenegrina dell’alimentari sotto casa mia, lo è anche Lionel Messi, o se è per questo papa Bergoglio, cittadino argentino trasferitosi nella Città del Vaticano in seguito a una promozione. Una singola parola che accomuni esperienze così profondamente diverse, più che incoraggiare la solidarietà, rischia di appiattire differenze profonde e politicamente rilevanti.
È una versione del paradosso del sorite: c’è un gradiente i cui estremi risultano qualitativamente diversi, ma non è possibile individuare una soglia quantitativa intermedia in cui effettuare la partizione (l’esempio classico è quello della parola “calvo”). Il gradiente non si può nemmeno appiattire a una questione di razzializzazione o di origine nazionale, che pure vi svolge un ruolo significativo: il mio dentista non è qui come rifugiato, ma si è trasferito prima, per studiare – la sua vita è per molti versi più complicata della mia (non in tutto: guadagna parecchio più di me), ma più semplice di quella di gran parte dei suoi connazionali arrivati grazie alla politica di accoglienza voluta da Angela Merkel. Il programma di Golden Visa in Grecia è molto popolare fra i ricchi indiani, la cui vita in Europa è però ben più facile di quella dei loro connazionali sfruttati come braccianti nell’Agro Pontino. Se è un paradosso è perché una soluzione netta non c’è.
Al di là di che termini si decida di usare (comprendo e condivido il fastidio di Flavio Parisi rispetto a “expat”, anche se non ho un’alternativa), una domanda utile potrebbe essere: quanto sarebbe peggiore la tua vita, in senso materiale, nel tuo paese d’origine? Nel mio caso – e in quello di Messi, e in quello di chi cerca il Golden Visa – relativamente poco. Tranne chi sfugge a una persecuzione o a una guerra, chiunque emigri lo fa perché pensa che avrebbe una vita migliore nel Paese d’arrivo: questo vale per il pescatore del Gambia che si trasferisce in Italia in cerca di lavoro, ma anche per una luminare della chirurgia che dall’ospedale di Lagos accetta una cattedra a Harvard, o per un miliardario angolano che in Svizzera paga meno tasse. Ma notare che queste situazioni sono, per certi versi, simili, oscura una differenza cruciale fra il significato di “vita migliore” per qualcuno che fa la fame o per qualcuno che (magari legittimamente) vuole solo qualcosa di più del tanto che già ha.
Personalmente mi pare che il privilegio complessivo – quindi tenendo conto di questioni di classe, di razza, di orientamento sessuale, di genere, di disabilità – possa essere una buona guida per differenziare. Naturalmente il privilegio non è quantificabile su una scala numerica, perché si compone di moltissime dimensioni: e se quella chirurga fosse stata omosessuale, cosa che in Nigeria è criminalizzata? E se quel miliardario fosse stato un perseguitato politico? Ogni situazione è diversa. Anche la forza relativa del proprio passaporto fa parte di questo privilegio: quello italiano in Germania vale più che in Giappone, e questo accosta l’esperienza di Flavio a quella di altri migranti meno privilegiati e la allontana dalla mia. Quello statunitense è il più forte di tutti, e non a caso sono stati proprio loro a definirsi, originariamente, “expat”, forse perché non possono ragionevolmente concepire che la vita possa essere migliore altrove che negli USA.
Facendo la conta dei privilegi, mi sembra che i miei mi accomunino al loro caso più di quanto il resto non me ne separi. Ho deciso di non usare “migrante”, per me, e neanche “immigrato”, perché all’interno dell’Unione Europea, per come si configura oggi, l’esperienza del trasferimento è piuttosto vicina alla migrazione interna (almeno per chi viene dai Paesi membri più ricchi e meno stigmatizzati); e mi sembrerebbe di intestarmi il superamento di avversità che ho avuto la fortuna di poter scampare. Non sono affatto certo, però, che questa mia resistenza dipenda dalla volontà di riconoscere il mio privilegio e non da un desiderio implicito di prendere le distanze da qualcuno che percepisco come altro. Penso che cambierò idea spesso, almeno fino al giorno in cui non deciderò di tornare in Italia, o non decideremo, finalmente, di far sparire le frontiere.
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