Cosa fa un assistente sessuale per persone con disabilità
È una figura di cui si sa poco per via di resistenze culturali e per la mancanza di una legge che la riconosca
Nel 2014 al Senato fu presentato un disegno di legge per istituire la figura dell’assistente sessuale: un operatore riconosciuto dalle aziende sanitarie locali che assista le persone con disabilità e ridotta autosufficienza a vivere la propria sessualità in modo autonomo e soddisfacente. Il disegno di legge, firmato tra gli altri dai senatori Luigi Manconi e Monica Cirinnà, non diventò mai legge, perché non fu calendarizzato, discusso né ripresentato durante i governi successivi.
Quasi dieci anni dopo in Italia ancora non esiste una figura di questo tipo, a differenza di alcuni paesi europei come Germania, Danimarca e Svizzera. È un argomento di cui si parla e conosce poco, e su cui secondo le associazioni che se ne occupano c’è molta diffidenza. Maximiliano Ulivieri è presidente del Comitato per l’assistenza sessuale alle persone con disabilità, o Comitato Lovegiver, che dal 2013 ha attivato a Bologna il primo e unico corso di formazione professionalizzante in quest’ambito. Secondo lui c’è diffidenza «un po’ perché sul sesso ci sono ancora molti tabù, e un po’ per ragioni ideologiche: gli ambienti cattolici tendono a fare molto ostracismo, ma non sono gli unici».
La diffidenza esiste anche tra le stesse persone con disabilità. «Alcune di loro sostengono che operatori di questo tipo rischino di “ghettizzarle” ancora di più» dice Ulivieri. «Altre temono il giudizio altrui nel caso in cui vi ricorressero». Dallo scorso febbraio Ulivieri è anche membro del Diversity Team del Comune di Bologna, che vorrebbe diventasse la prima città italiana a istituire la figura dell’Operatore di assistenza all’emotività, all’affettività e alla sessualità (OEAS).
Nell’immaginario comune le persone con disabilità tendono a essere viste come asessuate, o al limite infantilizzate, e per questo si fa fatica a immaginare cosa facciano esattamente gli assistenti sessuali. Inoltre il concetto di disabilità è variegato, ampio, comprende diverse situazioni sia fisiche che cognitive, che si riflettono in una gamma altrettanto varia di interventi necessari a seconda dei casi. Semplificando, ciò che fa l’OEAS è parlare e interagire fisicamente con la persona con disabilità per aiutarla a sperimentare erotismo, sessualità e affettività.
Per come sono strutturati dal Comitato LoveGiver, negli incontri tra persone con disabilità e OEAS non sono previsti atti penetrativi né sesso orale. Il massimo contatto fisico previsto è la masturbazione, nei casi in cui la persona non sia per qualche ragione in grado di farlo da sola. È molto più comune che si faccia quella che Ulivieri definisce una «assistenza alla masturbazione», che può essere anche solo verbale, con l’obiettivo di insegnare alla persona a farlo autonomamente, magari anche con l’aiuto di sex toys.
Più in generale, il modo in cui si svolge una seduta con un OEAS cambia a seconda del tipo di disabilità: possono essere disabilità fisiche, per esempio distrofie muscolari o altre situazioni che provocano deformità o problemi fisici, o ancora dovute a incidenti, per cui magari a un certo punto si è perso l’uso delle gambe o di qualche arto. In questi casi l’obiettivo delle sedute può essere esplorare le proprie fantasie, i propri gusti, scoprire le proprie zone erogene e come poter sperimentare il piacere. O magari reinventarlo completamente dopo un drastico cambiamento del corpo: «Un obiettivo finale può essere anche scoprire che dare piacere all’altra persona può diventare la propria forma di piacere», dice Ulivieri.
Un’esperienza simile è stata quella di Danilo Ragona, designer e fondatore di Able to Enjoy, un’azienda che produce carrozzine di design e una sedia che favorisce attività sessuali da seduti, Intimate Swing. Ragona è paraplegico dal torso in giù da quando ha 21 anni a causa di un incidente: dice che dopo aver esplorato e «reinventato» la propria sessualità a seguito del suo incidente ha scoperto un sesso «molto più intenso e condiviso», più basato sul dare piacere all’altra persona e «sull’usare la testa, l’immaginazione e non solo il pene».
Ulivieri fa anche l’esempio di una donna che dopo un incidente non poteva più camminare e aveva forti dolori alle anche e al bacino quando faceva alcuni movimenti: conviveva con la paura che il suo primo rapporto sessuale dopo l’incidente andasse male e fosse spiacevole sia per lei che per il partner. In quel caso il lavoro con l’OEAS è consistito principalmente in colloqui su questa sua paura e poi nell’indossare una tuta comoda e provare diverse posizioni, «in modo che arrivasse a un primo incontro sessuale sentendosi più sicura e preparata».
Un altro tipo di seduta riguarda invece le disabilità intellettive, come i disturbi del neurosviluppo. In questo secondo caso il lavoro non si concentra sull’impedimento fisico ad avere una vita sessuale, ma sull’importanza di averla e cercarla in contesti e situazioni ritenute socialmente accettabili: evitando cioè di masturbarsi in pubblico o di toccare le persone senza il loro consenso.
In questo caso l’OEAS usa adesivi con pallini colorati e li attacca in diverse parti del proprio corpo, indicando magari coi pallini rossi quali sono le zone da non toccare senza il consenso dell’altra persona. Cerca anche di far capire alla persona assistita quando c’è consenso o quando no. Con adesivi di altri colori segna altre zone del corpo che possono essere più o meno invasive da toccare, con un tipo di lavoro legato anche alla sfera affettiva e relazionale.
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Il suo Comitato riceve una decina di richieste a settimana di sedute con gli OEAS, un numero che secondo Ulivieri dimostra quanto ci sarebbe bisogno di una figura di questo tipo nel Servizio sanitario nazionale. «Molte richieste ci arrivano da famiglie che hanno figli adolescenti con autismo», dice. In molti casi ci sono madri che devono occuparsi della sessualità dei propri figli, magari masturbandoli loro stesse: «In quest’ambito le famiglie sono lasciate a loro stesse, e non è detto che abbiano le risorse, economiche o anche solo relazionali per saperlo gestire», racconta Anna Castagna, educatrice e sessuologa del Comitato Lovegiver.
In altri casi capita che parenti o amici si rivolgano a sex worker. «Non c’è niente di male, e anzi: una conseguenza positiva di regolamentare questo tipo di lavoro sarebbe anche poter formare lavoratori e lavoratrici del sesso sulla disabilità», dice Ulivieri. Secondo lui oggi comincia a esserci più offerta per persone con disabilità anche in quest’ambito, ma il fatto che sia un’esperienza piacevole dipende dall’empatia e dalla sensibilità della singola persona. Ulivieri comunque ci tiene a precisare che si tratta di un tipo di lavoro completamente diverso da quello di un’OEAS: «Una persona che lavora col sesso punta a crearsi e a mantenere una clientela, l’OEAS punta invece a scomparire, a rendere la persona autonoma, con un massimo di 10-12 sedute».
Il corso del Comitato Lovegiver dura 300 ore, 200 di lezione e 100 di tirocinio, ed è tenuto da psicologi, psicoterapeute, sessuologi, mediche e medici, educatori, in alcuni casi specializzati in qualche forma specifica di disabilità. Per accedere è necessario superare un test attitudinale con un gruppo di psicologi, per capire se si è adatti a un incarico così delicato e per escludere persone interessate per una forma di parafilia: ossia un interesse sessuale o erotico nei confronti delle persone che dovrebbero assistere. Non sono richieste competenze specifiche per candidarsi.
Ulivieri dice che finora il Comitato Lovegiver ha formato una sessantina di persone, e che una trentina sono attualmente operative. Sono liberi professionisti con partita IVA, come previsto dal disegno di legge del 2014 mai approvato, che vietava l’assistenza sessuale come attività soggetta a contratti di lavoro subordinato. Oltre a formare singole persone che si iscrivano ai corsi, il Comitato fa anche formazione a enti esterni, strutture in cui lavorano educatori, operatori sanitari, infermieri o assistenti sociali che abbiano a che fare con la disabilità.
Sia nel disegno di legge del 2014 che per come lo fa il Comitato Lovegiver, il lavoro dell’OEAS è concepito come ausiliario a quello dei medici, infermieri, psicoterapeuti ed eventuali altri professionisti coinvolti nell’assistenza alla disabilità. Secondo Ulivieri è un lavoro che richiede necessariamente una formazione e un aggiornamento (online può capitare di trovare siti e annunci di persone che si propongono come assistenti sessuali pur non avendo completato un percorso specifico).
Dal momento che non è una figura riconosciuta, possono avvenire episodi spiacevoli generati da una certa confusione sul ruolo. Anna Pierobon, un OEAS formata dal Comitato Lovegiver, racconta per esempio di un uomo con disabilità che al termine delle sedute le ha chiesto se fosse disponibile a continuare a pagamento. «Mi ha provocato molto disagio» dice Pierobon. «Anche se bisogna mettere in conto che il rischio di un coinvolgimento erotico o emotivo esiste, come nel caso di badanti e operatrici sanitarie».
Secondo chi si occupa di sesso e disabilità, quest’ambito tende anche a essere molto raccontato solo dal punto di vista maschile, come se il sesso fosse una necessità che le donne con disabilità non hanno o hanno meno. Ma di recente sono nate anche iniziative e pagine Instagram di racconto della disabilità – come questa o questa, rispettivamente di Giulia Lamarca e Francesca Arcadu – che raccontano anche il sesso, la maternità o il rapporto col proprio corpo di donne con disabilità.
Un altro progetto dedicato a questo tema è Sensuability, dell’associazione Nessunotocchimario, presieduta da Armanda Salvucci. Diversamente dal Comitato Lovegiver, Sensuability si occupa più che altro di divulgazione culturale, e organizza ogni anno anche un concorso di illustrazione sui temi intorno al sesso e alla disabilità. Salvucci descrive questo progetto come una «rivoluzione dell’immaginario». Partecipano sia persone disabili che no. Ritiene che la disabilità sia l’ambito in cui si manifesta nel modo più evidente una questione che riguarda tantissime altre persone: «La tendenza ad escludere dall’immaginario del sesso, a non essere in grado di ritenere attraenti corpi che consideriamo non conformi, imperfetti, non rispondenti ai modelli estetici che abbiamo elevato a metro di misura di tutti i corpi».
Salvucci ricorda che la maggior parte delle persone con disabilità, esattamente come le altre, sono sessualmente attive. Diffondere immagini, illustrazioni e fumetti che facciano capire questa cosa serve secondo lei a «scardinare la sessualità dai quattro paletti in cui l’abbiamo relegata».
Secondo Salvucci, l’istituzione dell’assistente sessuale è comunque solo il punto d’arrivo di un discorso molto più ampio: «Ci sono tantissime persone con disabilità che potrebbero avere una vita sessuale autonoma ma devono affrontare mille ostacoli, banalmente per riuscire a conoscere qualcuno e iniziare relazioni». Salvucci si riferisce a locali non accessibili, magari con scalini senza pedane, o con bagni in piani separati o non attrezzati per persone con disabilità: «Come faccio a fare sesso con qualcuno se non riesco nemmeno ad andare a berci una birra?».
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